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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Tribunale di Torino, sez. GIP, sentenza del 3 dicembre 2008 n. 3230

 
est. Arata
 

Nel tardo pomeriggio del 5.9.2008 l'odierno imputato, mentre camminava sulla pubblica via, veniva sottoposto a controllo per identificazione dai carabinieri e riferiva loro di chiamarsi [...] e di essere privo di documenti di identità. Dal successivo controllo dattiloscopico emergeva che egli aveva reso nel recente passato una dichiarazione di identico contenuto mentre in precedenza aveva reso dichiarazioni difformi: in particolare, in data 6.12.2007 aveva declinato le stesse generalità ribadite il 5.9.2008 mentre in data 13.4.2007 aveva sostenuto di chiamarsi [...]ed in data 16.2.2004 di chiamarsi [...].

Sulla base di tali elementi veniva tratto in arresto.

Nel corso dell'udienza di convalida l'imputato, invitato dal GIP a declinare le proprie generalità, ribadiva di chiamarsi [...] e, nel corso dell'interrogatorio, ammetteva di aver declinato in passato le false generalità [...] ed affermava di avere ad un certo punto deciso di dire la verità ed, in particolare, di averlo fatto in occasione degli ultimi due controlli.

All'esito dell'udienza di convalida, il GIP, dopo aver convalidato l'arresto, respingeva la richiesta di misura cautelare avanzata dal P.M. per insussistenza di esigenze cautelari. Dal raffronto tra le segnalazioni dattiloscopiche e le risultanze del casellario giudiziario emergeva che l'odierno imputato, a seguito dei due controlli del 13.4.2007 e del 16.2.2004, era stato sottoposto a processo e, rispettivamente sotto i nomi di [...] e [...], aveva chiesto e ottenuto l'applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p. con le sentenze rispettivamente pronunciate il 16.4.2007, irrevocabile il 15.1.2008, ed il 21.7.2004, irrevocabile il 30.9.2004.

Con decreto del 26.9.2008 il giudice per le indagini preliminari disponeva il giudizio immediato nei confronti di [...] che, entro il termine di legge, chiedeva di essere giudicato con le forme del rito abbreviato; nel corso dell'odierna udienza, veniva ammesso il rito abbreviato e venivano acquisite ai sensi dell'art. 441 co. 5 c.p.p. le due sentenze irrevocabili sopra citate; quindi, il P.M. e la difesa concludevano come in epigrafe.

Alla luce della ricostruzione dei fatti appena riassunta ed emergente dalle risultanze di indagine si deve ritenere raggiunta la prova della responsabilità di [...] per le false generalità declinate il 13.4.2007, il 18.1.2007 e il 16.2.2004 mentre l'imputato deve andare assolto in relazione alla condotta del 5.9.2008 perché il fatto non sussiste.

Prima di esaminare i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia, è opportuno evidenziare che l'imputato, di cui si ignora la reale identità, ha dichiarato ai carabinieri il 5.9.2008, ma anche l'8.9.2008 davanti al GIP e il 6.12.2007 in occasione di un precedente controllo, di chiamarsi [...]. Siffatte generalità, o meglio solo quelle dichiarate il 5.9.2008, sono state, in assenza di informazioni certe sulla sua reale identità, ritenute "false" dalla pubblica accusa solo perché non corrispondenti a quelle che lo stesso aveva declinato in passato, nelle tre precedenti occasioni sopra menzionate (e cioè 13.4.2007, il 18.1.2007 e il 16.2.2004); si deve aggiungere che il P.M., con scelta incoerente, non ha invece contestato all'odierno imputato le altre dichiarazioni, identiche a quelle del 5.9.2008, da lui rese prima, il 6.12.2007, e dopo, l'8.9.2008 davanti al GIP.

È, altresì, opportuno ricordare che il delitto di cui all'art. 495 c.p. è istantaneo e si consuma nel momento in cui l'agente rende al pubblico ufficiale la dichiarazione/attestazione sulla propria identità, con la conseguenza che ciascuna dichiarazione mendace integra il delitto di cui all'art. 495 c.p.: ne deriva che, in caso di più dichiarazioni false, l'agente commette tante violazioni della fattispecie incriminatrice in esame quante sono le dichiarazioni false rese e tali plurime violazioni della stessa norma incriminatrice, essendo di regola espressione di un disegno criminoso unitario, dovranno poi essere ritenute unite tra loro dal vincolo della continuazione.

Ciò premesso, si ricorda che, in tema di false attestazioni di generalità previsto e punito dall'art. 495 c.p., negli ultimi anni si era fatto largo tra i giudici di merito la tesi secondo cui chi declina più volte generalità tra loro discordanti non può essere condannato per nessuna di esse in assenza di un documento o altri elementi certi che le smentiscano e provino la reale identità del dichiarante; la S.C. ha respinto tale orientamento affermando il condivisibile principio secondo cui, qualora l'imputato, di cui si ignorano le reali generalità, abbia in diverse occasioni declinato generalità differenti, il reato di cui all'art. 495 c.p. deve ritenersi commesso tante volte quante sono le attestazioni discordanti rese nelle occasioni precedenti l'ultima: ciò, per lo stringente ragionamento logico secondo cui l'imputato, quando fornisce due diverse generalità, ha certamente fornito, almeno una volta, generalità false.

In altri termini, la S.C., in varie pronunce (da ultimo, Cass. sez. V, n. 4565, 22.10.2003/5.2.2004, Rv. 227449, P.M. in proc. Ali Rafour; in precedenza Cass. sez. V, sentenza n. 12195 del 20.9.2000/28.11.2000, Rv. 218678, PG in proc. Lembi ), ha affermato due principi tra loro correlati: sempre, in modo esplicito, il primo principio secondo cui, quando un soggetto fornisce in due o più occasioni generalità differenti, il reato di cui all'art. 495 c.p. è certamente configurabile, essendo evidente che almeno una volta l'agente ha fornito generalità false, nonché, in modo spesso implicito, l'altro principio, secondo cui, in casi come quelli appena descritti, non è dato di sapere se le generalità rilasciate per ultime siano effettivamente false, con la conseguenza che, in caso di più dichiarazioni contrastanti tra loro, ognuna di esse integra il reato di cui all'art. 495 c.p. con eccezione dell'ultima generalità declinata. Questo secondo principio, spesso non massimato, si ricava, però, in modo indiscutibile, dalla lettura integrale della motivazione delle sentenze della S.C. intervenute in materia. Ad esempio, nel caso esaminato dalla citata sentenza n. 4565 del 2004, il giudice di legittimità, chiamato a pronunciarsi in un caso in cui l'imputato aveva dichiarato generalità differenti in tre diverse occasioni, ha annullato l'assoluzione del giudice di merito relativa ai soli reati commessi declinando le prime due generalità, aggiungendo che, nel caso in cui un soggetto abbia fornito false generalità in una sola occasione, "allorquando rimangono ignote le reali generalità dell'agente, non è possibile pervenire ad una dichiarazione di colpevolezza, presumendo che siano false proprio le generalità fornite in sede di identificazione". In altri termini, il fatto che una persona abbia declinato generalità differenti in due occasioni diverse consente sul piano logico di ritenere certo che abbia mentito in un'occasione ma non in entrambe le occasioni, con la conseguenza che è possibile ritenere che solo una delle due attestazioni sia falsa ma non che entrambe siano false. Peraltro è impossibile individuare con eguale certezza quale delle due attestazioni, rese in tempi diversi, sia falsa. Come si è appena anticipato, affrontando tale profilo, la S.C., spesso implicitamente e a volte esplicitamente (in particolare, quando è stata chiamata a pronunciarsi espressamente su tale questione come, ad esempio, quando è stata chiamata ad individuare il dies a quo per la decorrenza della prescrizione), ha affermato il principio secondo cui, quando l'agente ha reso più dichiarazioni/attestazioni tra loro contrastanti o incompatibili, deve per ciò solo ritenersi provata sul piano logico la falsità di tutte le dichiarazioni diverse ad eccezione dell'ultima.

A tale conclusione la S.C. è pervenuta invocando il principio del favor rei, nel senso che ha sostenuto che, "nell'ipotesi in cui l'imputato abbia rilasciato in più occasioni generalità differenti, essendo indiscussa la perpetrazione del reato, l'incertezza della data di consumazione potrà rilevare ai fini della prescrizione, dovendosi adottare, per il principio del favor rei, quale tempus commissi delicti, quello del momento in cui ha rilasciato le prime generalità" (così, ad esempio, Cass. sez. V del 17.12.1999 n. 1074).

Invero, a prescindere dal ricorso al criterio del favor rei, vi sono argomenti logici e legati all'iter di formazione della prova che inducono a ritenere sussistente il reato in questione con riferimento, non alle generalità declinate per ultime, ma a quelle diverse declinate in precedenza: l'agente, che nel momento in cui è chiamato dagli operanti a riferire le proprie generalità le fornisce diverse da quelle declinate in precedenza, implicitamente confessa di aver mentito nelle precedenti occasioni, fornendo agli operanti, prima, e all'autorità giudiziaria, poi, elementi certi per configurare il reato di cui all'art. 495 c.p. con riferimento alle pregresse dichiarazioni (è, infatti, lo stesso dichiarante ad ammetterlo). Viceversa, con riferimento all'ultima generalità dichiarata sotto obbligo di dire la verità, non vi sono elementi per non credere alla sua implicita ammissione di responsabilità e sostenere che egli abbia detto il falso ma eventualmente solo un sospetto derivante dal fatto che è persona avvezza a mentire: in assenza di altri elementi, però, tale sospetto non può giustificare l'addebito del reato in esame con riferimento all'ultima dichiarazione. E d'altra parte, lo stesso P.M., iscrivendo il dichiarante nel registro degli imputati con le generalità declinate nell'ultima occasione e non contestando come false le identiche dichiarazioni rese prima (il 6.12.2007) e dopo (davanti al GIP), implicitamente dimostra di credere alla veridicità della sua ultima affermazione e, dunque, alla sua confessione.

In conclusione, quando ci si trova di fronte ad una pluralità di attestazioni contrastanti, in assenza di elementi probatori diversi dalle dichiarazioni dell'imputato, per le ragioni prima evidenziate, il reato di cui all'art. 495 c.p. non è astrattamente configurabile con riferimento all'ultima delle stesse, a meno di non voler ritenere, con un salto logico inaccettabile, che la circostanza che l'imputato ha certamente mentito almeno in una occasione connoti di falsità tutte le dichiarazioni dallo stesso rese e, dunque, anche quella resa in occasione dell'ultimo controllo.

Tra l'altro, adottare una simile soluzione interpretativa significherebbe rovesciare indebitamente sull'imputato l'onere probatorio degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice in esame (nel senso che il giudice, anziché provare la falsità della dichiarazione dell'agente mediante documenti, testimonianze o ragionamenti logici stringenti, trasforma in "prova" del fatto contestato la deduzione della generica tendenza dell'agente a mentire e finisce per rimproverare all'imputato, sanzionandolo con il delitto in esame, di non essere in grado di provare la veridicità della propria attestazione sull'identità personale mediante fonti certe, sostanzialmente coincidenti con la esibizione di un documento di identità) nonché confondere e sovrapporre arbitrariamente la condotta consistente nel rendere false dichiarazioni sull'identità personale con quella, prevista e punita da altra autonoma norma incriminatrice (art. 6 d.lgs. n. 286/98), di non ottemperanza all'obbligo di esibire il passaporto o altro documento equipollente ai pubblici ufficiali che ne fanno richiesta.

A tali considerazioni generali si aggiungono peculiarità del caso specifico che rendono pienamente convincente la confessione dell'imputato, con riferimento alle prime tre dichiarazioni contestate nell'unitario capo di imputazione, e la contestuale contestazione dell'addebito, con riferimento alla condotta del 5.9.2008: infatti, nel caso di specie, l'affermazione dell'imputato di aver mentito sulle proprie generalità per tre volte (e cioè 13.4.2007, il 18.1.2007 e il 16.2.2004), ma di essersi da allora deciso a dire la verità trova conforto sia nella logicità, coerenza intrinseca e immediatezza con cui tale tesi è stata sostenuta (tale affermazione, che si ricorda è anche confessoria con riferimento alle precedenti condotte, è stata resa dall'imputato in modo convincente e argomentato fin dal primo momento in cui ha avuto la possibilità di difendersi, cioè all'udienza di convalida) sia nel dato oggettivo secondo cui, da un certo momento in poi, l'imputato ha dichiarato le stesse generalità in tutte le occasioni in cui gli è stato chiesto di declinarle (non solo il 5.9.2008 ma già il 6.12.2007 e poi l'8.9.2008 davanti al GIP).

Alla luce delle considerazioni fino ad ora esposte, dunque, l'imputato deve andare assolto dal delitto contestato in rubrica limitatamente alle generalità declinate il 5.9.2008, per insussistenza del fatto, mentre deve essere dichiarato colpevole e condannato in relazione alle condotte realizzate in data 16.2.2004, 18.1.2007 e 13.4.2007.

Tali condotte sono state poste in essere prima dell'entrata in vigore della legge 24.7.2008 n. 125 (D.L. 23.5.2008 n. 92 convertito con legge 24.7.2008 n. 125), che all'art. 1 lett. b) ter ha inasprito il trattamento sanzionatorio del reato di cui all'art. 495 c.p. e, all'art. 1 lett. f) ha introdotto l'aggravante di cui all'art. 61 n. 11 bis c.p.: ne consegue che, ai sensi dell'art. 2 c.p., all'imputato, in relazione alle condotte realizzate in data 16.2.2004, il 18.1.2007 e il 13.4.2007, deve applicarsi l'art. 495 c.p. nella formulazione antecedente a quella introdotta dalla citata legge 24.7.2008 n. 125 e non può applicarsi l'aggravante di cui all'art. 61 n. 11 bis c.p. [...].