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Corte d'Appello di Venezia, sentenza del 9 gennaio 2006

 
est. Lanza
 

[...]. §.1) Causa dell'evento mortale.

L'appellante difesa segnala che la causa della morte della giovane non fu determinata in modo diretto dalle percosse e bastonate, ma fu l'evento (disvoluto ed indotto) della "inalazione del vomito" della vittima stessa, deceduta appunto per asfissia meccanica violenta da soffocazione interna, innescata dalla perdita di coscienza. [...].

Siffatto apparato critico dei motivi di gravame impone un riordine delle questioni proposte, per analizzarne la portata a livello scalare, partendo dal delitto di omicidio volontario, in quanto, solo dalla non-verifica degli elementi soggettivi ed oggettivi di tale delitto, è possibile passare alle ipotesi gradate di maltrattamenti seguiti da morte (art. 572 co. 2 c.p., pena da 12 a 20 anni di reclusione), oppure di omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p., pena da 10 a 18 anni di reclusione).

Nessuna delle opzioni alternative, come già puntualmente motivato dal giudice dell'udienza preliminare, ha possibilità di essere accolta, precisandosi subito ed in via preliminare che le ipotizzate concause dell'evento mortale (morte: non per le lesioni ma per asfissia meccanica da soffocamento; morte sopravvenuta: per intempestivo intervento delle forze dell'ordine e dei presidi sanitari), non svolgono alcun ruolo efficace nella presente vicenda.

§.2) L'elemento psicologico dell'azione e la qualificazione giuridica del fatto.

Il primo giudice con un argomentare lineare ed immune da censure in punto di logica e di diritto ha sostenuto la sua motivazione con le seguenti sei consecutive e ragionevoli proposizioni: la reiterazione dei colpi inferti con diversi corpi contundenti, tra cui un bastone o pezzo di bastone appuntito, durante un considerevole lasso temporale, la determinazione nel colpire la povera ragazza, nonostante gli inviti dei familiari a desistere, le sedi colpite, alcune vitali, tra le quali il capo, sono tutti elementi rivelatori di una volontà omicidiaria seppure nella forma del dolo indiretto.

L'accusato, preso da una furia incontenibile e da una rabbia crescente, a fronte della conferma che la figlia aveva avuto una relazione con un giovane connazionale conosciuto in Italia e a fronte dell'ostinato rifiuto di costei di dirgli se avesse avuto con quel ragazzo rapporti sessuali, ebbe a colpire la figlia sempre più forte, anche mentre si trovava a terra accovacciata, piegata su se stessa con le mani protese in avanti come per proteggere il capo. Ed infatti sulle mani sono state trovate lesioni da difesa.

Tale condotta dimostra la consapevole accettazione da parte del Lhasni della eventualità che dalla stessa potesse derivare la morte della figlia. A nulla rilevando che le singole lesioni, autonomamente considerate non fossero idonee a cagionare la morte, dovendosi avere riguardo all'azione nel suo complesso. Il Lhasni non poteva, infatti, non rappresentarsi la possibilità che tutti quei colpi, alcuni diretti anche al capo, determinassero un trauma cranico od una sofferenza diffusa con conseguenze letali.

Va esclusa, quindi, anche l'ipotesi dell'omicidio preterintenzionale nel quale la volontà dell'agente è diretta esclusivamente a percuotere o ferire la vittima con esclusione assoluta di ogni previsione dell'evento morte. Non si è trattato infatti di semplici percosse, ma di un violento pestaggio motivato da ragioni di profondo rancore, avendo la figlia disobbedito al padre, intrattenendo una relazione con un giovane, nonostante in Marocco fosse già stata data in sposa dal padre ad altro uomo.

L'imputato, che non poté non rappresentarsi la possibilità che dalle violente percosse inferte potesse derivare la morte della figlia, ciò nonostante continuò a picchiarla, finché cadde a terra esanime, nonostante gli fosse stata fatta più volte presente dai familiari la necessità di smettere.

Esclusa la fattispecie di cui all'art. 584 c.p., va altresì a fortiori esclusa l'ipotesi dei maltrattamenti seguiti da morte p. e p. dall'art. 572, co. 2, c.p. Infatti, per la sussistenza di tale reato l'evento morte deve essere conseguenza involontaria dei maltrattamenti. Quando invece l'agente abbia avuto l'intenzione di ledere l'integrità fisica della vittima si realizza un reato autonomo in concorso con quello di maltrattamenti. Sicché quand'anche si inquadrasse l'episodio nell'ambito del clima vessatorio instaurato dal padre nei confronti della moglie e dei figli, risultante peraltro dalle dichiarazioni di familiari e vicini di casa, non potrebbe comunque escludersi, date le modalità della condotta su riferite, la sussistenza di una volontà omicida, seppure nella forma del dolo indiretto.

Trattasi di struttura argomentativa indenne, come già detto, da vizi logico-giuridici e per ciò stesso non modificabile dal giudice del gravame. Invero è noto che la prova della volontà omicida, in mancanza di confessione, è prevalentemente affidata alla ricerca delle concrete circostanze che abbiano connotato l'azione e delle quali deve essere verificata la oggettiva idoneità a cagionare l'evento, in base ad elementi di sicuro valore sintomatico, valutati sia singolarmente sia nella loro coordinazione.

Orbene nella specie il giudice dell'udienza preliminare risulta aver attentamente valutato tutti gli elementi soggettivi ed oggettivi ed ha riconosciuto la sussistenza dell'animus necandi, nella forma del dolo indiretto, apprezzando positivamente la detta idoneità del comportamento alla stregua del mezzi adoperati e delle modalità di accadimento della aggressione.

Né a contrarie conclusioni è possibile pervenire dalla valutazione del tenore dell'appello il quale, sul punto del ritenuto dolo indiretto, ne sostiene l'insussistenza derivandola: dalla causale dell'azione: la punizione della disubbidienza; dall'indole del reo: era abituato all'uso di una violenza contenuta; dal mezzo usato: un bastone, calci e pugni, e non armi o strumenti di per sé letali; dalla condotta post crimen patratum: l'imputato ha indicato alla polizia giudiziaria subito il luogo di celamento del bastone; non si è allontanato; ha ammesso i fatti.

Il difensore peraltro in tale sua costruzione di realtà sembra dimenticare che nella specie, come normalmente accade in contesti di omicidi in famiglia, la volontà criminosa si è connotata per un crescendo inarrestabile di intensità, rispetto ad una prima ed originaria programmazione violenta. [...].

Per rendere palese l'intenzionalità repressiva, l'uomo, prestante e robusto, si munisce di un bastone, si apparta con la figlia nel piano superiore della casa e si accinge ad interrogare e a percuotere. A questo punto le percosse (con gli arti e con il bastone) proseguono con una barbara e consapevole sistematicità ("una serie di calci e pugni" ...  "l'ho picchiata, picchiata, picchiata"), interrotta da quella che il Procuratore generale ha definito "una pausa di ristoro" per fumare una sigaretta, il tutto nell'indifferenza alle grida di dolore della vittima ed ai timorosi, reiterati quanto inutili, interventi dei familiari. [...]. Se quindi il movente iniziale era quello "pedagogico" della punizione di una disobbedienza, e se nella specie si trattava di violenza già sperimentata e mai portata a conseguenze letali, la valutazione analitica e complessiva dell'agire successivo del reo dimostra invece, al di là di ogni ragionevole dubbio, che in quella circostanza il livello di violenza esercitata non era quello usuale, ma stava progressivamente e consapevolmente trasmodando in comportamenti dai quali non si poteva che indurre, anche in soggetti scarsamente dotati sul piano psichico ed emotivamente turbati, l'evenienza altamente probabile di uno sviluppo mortale.

E l'imputato, continuando ad agire, con pugni, calci e bastonate, su di un corpo ormai inerme e a terra, ha accettato il rischio di tale evento letale. E' noto peraltro che l'azione posta in essere con accettazione del rischio dell'evento può implicare, per l'autore, un maggiore o minore grado di adesione della volontà, a seconda che egli consideri maggiore o minore la probabilità di verificazione dell'evento.

Correttamente pertanto il giudice dell'udienza preliminare, nella fattispecie ed in relazione a tali diversi gradi di intensità, ha qualificato come "indiretto-eventuale" il substrato psicologico dell'agire del reo, trattandosi di ipotesi di mera accettazione del rischio, e non di evento perseguito come scopo finale, connotazione psichica questa che avrebbe integrato il diverso dolo "intenzionale".

§.3) Esclusione delle ipotesi ex art. 584 c.p. e 572 co. 2 ultima parte c.p.

Siffatta conclusione esclude a fortiori l'ipotizzabilità sia del delitto ex art. 584 c.p. sia del delitto ex art. 572 co. 2 ultima parte c.p. [...].

§.4) La ritenuta sussistenza delle aggravanti; l'applicato giudizio di equivalenza tra circostanze e l'entità della pena.

Con ulteriore motivo l'appellante contesta la sussistenza della doppia indicata aggravante ex art. 577 co. 1 c.p. (fatto commesso contro il discendente) rispetto alla previsione dell'art. 576 n. 2 (fatto commesso contro il discendente nel concorso della circostanza aggravante ex art. 61 n. 4 dell'abiezione o futilità dei motivi), realtà questa che è impedita dal principio di specialità ex art. 15 c.p.

Il motivo è fondato: l'aggravante rubricata in imputazione, quale violazione dell'art. 577 comma 1 n. 1 e n. 4 c.p., va correttamente e diversamente qualificata come violazione dell'art. 576 comma 1 n. 2 c.p.

Motivi abietti.

Parzialmente fondata invece è la critica alla ritenuta aggravante della abiezione dei motivi. Il giudice dell'udienza preliminare in proposito ha così motivato: "L'azione delittuosa sopra descritta appare sproporzionata al motivo e nel contempo rivela altresì un motivo abietto (picchiare a sangue la figlia non solo per sapere se la relazione con [...] durava ancora, ma anche per indurla ad accettare con tutte le conseguenze del caso un matrimonio che la ragazza non aveva voluto e che era stato combinato per mero interesse).

In proposito va ricordato che motivo abietto è quello che rivela nell'agente un tale grado di perversità da destare un profondo senso di ripugnanza e disprezzo in ogni persona di moralità media, è quello turpe e ignobile, che si radica in una particolare perversità e malvagità del reo, così da suscitare un profondo senso di ripugnanza e di disprezzo in ogni persona di media moralità. Deve quindi trattarsi di motivo spregevole e vile, che denota ripulsione ed è ingiustificabile per la sua abnormità di fronte al sentimento umano.

Ritiene peraltro il Collegio che con tale connotazione non sia etichettabile il comportamento reattivo del Lhasni. L'imputato ha oggi chiaramente proposto alla Corte lagunare il suo modo di intendere e gestire la famiglia, l'onore familiare, il rispetto della parola data: circostanze tutte che, pur inidonee a escludere la futilità (per le ragioni che si diranno), sono sicuramente sufficienti ad escludere il giudizio di abiezione in quanto fondato su sensazioni di ripugnanza, turpitudine e spregevolezza, che nella specie non ricorrono.

Sul punto un favorevole punto di riferimento va anche recuperato dal nuovo codice della famiglia vigente in Marocco dal 16.1.2004, nel quale, in tema di contratto matrimoniale si prevede ancora la figura della tutela matrimoniale della donna (Wilaya), con il padre "tutore".

Motivi futili

Per il giudice dell'udienza preliminare, pur valutando il substrato culturale e l'ambiente in cui vive ed ha agito l'autore del fatto, la futilità dei motivi deve essere affermata.

La conclusione del primo giudice va condivisa da questa Corte, considerato che costituisce motivo futile la determinazione criminosa che trova origine in uno stimolo tanto lieve, quanto sproporzionato, da prospettarsi più come un pretesto che non una causa scatenante della condotta antigiuridica. Ne consegue che la peculiare caratteristica del motivo futile, il quale non attiene alla sfera intellettiva o volitiva, bensì a quella morale, è data dalla enorme sproporzione tra il motivo e l'azione delittuosa.

In termini la Corte non può che richiamarsi, facendole proprie, alle ragionevoli considerazioni del primo giudice il quale ha testualmente sostenuto quanto segue: "Nel caso di specie trattasi di persona di cultura mussulmana che, col pretesto di una apparente legittimazione derivante dalla religione islamica, aderisce a modelli di vita in cui vi è una disparità di trattamento tra uomo e donna, essendo quest'ultima per consuetudine, secondo regole arcaiche, assoggettata all'arbitrio della famiglia patriarcale tribale che dispone di lei come una proprietà e non la considera come persona. Tale situazione però è oggi sempre più rara in ambienti islamici moderati, come il Marocco, essendoci un lento processo di occidentalizzazione, favorito anche dai mass media che tendono alla globalizzazione. Un cittadino marocchino, dopo alcuni anni trascorsi nel nostro Paese, pur avendo mantenuto dei legami con il Paese d'origine, è dunque perfettamente in grado, pur conservando la propria cultura e le proprie origini, di rendersi conto dell'insopprimibilità in un Paese civile di alcuni diritti fondamentali della persona umana, quali l'autodeterminazione. Se ciò nonostante egli reagisce con inaudita violenza a fronte di una ribellione allo stato di soggezione, della figlia, la sua condotta diventa non già espressione di una cultura arcaica, ma di uno spirito punitivo nei confronti della vittima, della quale non tollera l'insubordinazione (si veda il riguardo Cass, sez. I, 25.10.1997). E' il caso di Lhasni Mohammed, considerato dai familiari e dai conoscenti, persona, prepotente, assai reattiva e violenta. (cfr anche s.i. rese dai coniugi Veliu)".

A tali valutazioni si oppone il difensore dell'imputato il quale contesta l'immagine che il primo giudice offre dell'accusato, immagine che non terrebbe conto: della persistenza dei valori atavici e socio-culturali dell'imputato; del forte ed estremizzato senso della famiglia di cui il Lashni era portatore; del concetto di onore, infangato dai comportamenti irregolari della figlia, la quale, pur coniugata in patria, aveva iniziato una relazione adulterina con altro connazionale, pure residente in Italia, senza tener conto delle regole della sua etnia e dei richiami anche violenti del padre.

Ritiene il Collegio, anche ammesso che in Marocco vi sia stata una rituale celebrazione di matrimonio tra la giovane Kaoutari e persona diversa dal connazionale, con il quale la vittima aveva un rapporto sentimentale, e pur apprezzato il rigore educativo, il senso dell'onore e l'estremizzato senso della famiglia dell'imputato, che si versi in una situazione socio-culturale - comunque la si apprezzi anche dall'ottica di un cittadino marocchino - non idonea a ridurre la forbice di valori tra "morte di una figlia disobbediente" e "autorità e cultura paterna violate".

L'abissale  sproporzione tra il motivo e l'azione delittuosa integra, nel nostro sistema repressivo, proprio l'aggravante ritenuta, la quale non può essere affatto scriminata dall'adesione a fedi o a culture "altre".

Emblematico e suggestivo in tale senso è il richiamo alla pratica della "infibulazione": vivere in un Paese diverso da quello della cultura di appartenenza significa infatti accettare, non solo gli elementari principi di base che sostanziano le norme penali e le singole fattispecie incriminatrici, ma anche le regole etico-culturali valutative condivise ed espresse dalla collettività.

Uccidere per affermare il proprio ruolo di padre-decisore delle scelte di vita di una figlia o per sanzionarne i comportamenti irregolari, nel nostro sistema, e per qualunque cittadino di qualunque nazionalità e cultura, è quindi fatto apprezzabile nello schema dogmatico dell'aggravante della futilità dei motivi.

Non a caso lo stesso figlio dell'imputato ha testualmente dichiarato: "ritengo che, come successo in passato, mio padre non avesse un motivo valido per rimproverare e picchiare mia sorella, in quando lo stesso ha un carattere irascibile e violento".

Valutazione comparativa delle circostanze e determinazione della pena

Da ultimo l'appello insiste per un giudizio di prevalenza delle riconosciute circostanze attenuanti generiche ed in ogni caso per la riduzione della sanzione nei minimi edittali.

Il giudizio di comparazione ex art. 69 c.p., per quanto dianzi precisato, va effettuato tra le ritenute circostanze attenuanti generiche da un lato e la futilità dell'omicidio contro discendente dall'altro.

L'elisione dell'abiezione dei motivi e l'assorbimento delle due aggravanti in tema di omicidio (originariamente contestate senza tener conto del criterio di specialità), non modificano in alcun modo il formulato giudizio di equivalenza il quale è corretto e va oggi confermato avuto riguardo al consolidato orientamento giurisprudenziale in relazione all'art. 69 c.p.

P.Q.M.

visto l'art. 605 c.p.p. in parziale riforma della sentenza in data 9.6.2005 del giudice dell'udienza preliminare del tribunale di Padova appellata da Lhasni Mohammed, esclusa la sola abiezione dei motivi e confermato il giudizio di equivalenza tra circostanze, previa precisazione che l'aggravante rubricata in imputazione, quale violazione dell'art. 577 comma 1 n. 1 e n. 4 c.p., va qualificata come violazione dell'art. 576 comma 1 n. 2 c.p., riduce la pena per l'appellante ad anni quattordici di reclusione. Conferma nel resto.