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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Tribunale di Reggio Emilia, ordinanza del 12 luglio 2007

 
est. Gattuso
 

Il Giudice, letto il ricorso che precede [...],

Osserva

La sig.ra [...], ha presentato ricorso avverso provvedimento della questura di Reggio Emilia emesso in data 4.2.2006 con il quale è stata respinta la sua istanza di permesso di soggiorno per ragioni familiari.

Dalla lettura del provvedimento impugnato si evince che la signora era già titolare di permesso di soggiorno rilasciato dalla questura di Savona [...] e che il permesso di soggiorno era stato rilasciato per essere la stessa coniugata con un cittadino italiano.

Il provvedimento di diniego è motivato in ragione della carenza del requisito della convivenza tra i coniugi atteso che il marito "per ammissione della stessa [...] abita stabilmente in Savona e solo sporadicamente si reca in Reggio Emilia per incontrarla". Tale decisione è stata impugnata dalla ricorrente tanto per ragioni di merito che per dedotte irregolarità sotto il profilo procedurale.

La signora ha dichiarato nel ricorso d'avere contratto matrimonio nell'agosto del 2001; d'avere stabilmente convissuto con il marito per quattro anni, d'essersi spostata in Reggio Emilia per ragioni di lavoro, mantenendo comunque una stabile relazione col coniuge, tant'è che il medesimo l'avrebbe accompagnata in più occasioni a Reggio Emilia e lei stessa avrebbe fatto rientro ogni fine settimana e festività a Savona per stare con il marito; d'essere stata quindi assunta dal marzo 2005 a Reggio Emilia [...] con contratto di collaborazione a progetto. Con il medesimo ricorso la [...] ha chiesto altresì che in alternativa al richiesto permesso di soggiorno per ragioni familiari sia concesso il permesso di soggiorno per ragioni comprovate di lavoro.

La sig.ra [...] alla scorsa udienza è comparsa avanti al giudice dichiarando d'avere conosciuto il marito nei primi mesi di permanenza nel nostro paese, tramite alcuni amici; d'avere concordato con il marito il suo trasferimento a Reggio Emilia al fine di cercare un lavoro e d'avere mantenuto per un certo periodo stabili rapporti con il medesimo, sino a che, negli ultimi mesi, i rapporti si sono diradati anche in conseguenza di un cattivo rapporto con la madre di lui, che ancora vive con il figlio. La signora ha chiarito che questo diradamento dei rapporti ha avuto luogo soltanto nell'ultimo periodo e dunque dopo il diniego del permesso di soggiorno avvenuto nel febbraio del 2006. L'avvocatura dello Stato, regolarmente citata, non si è costituita.

1. La questura ha motivato il rigetto rilevando che la ricorrente non abita a Savona con il marito ma per sua stessa ammissione si è trasferita a Reggio Emilia e che "il presupposto dell'effettiva convivenza matrimoniale è richiesto quale elemento indispensabile per procedersi al rilascio del titolo di soggiorno", in applicazione dell'art. 30 co. 1 bis T.U. per il quale "il permesso di soggiorno ... è immediatamente revocato qualora sia accertato che al matrimonio non è seguita l'effettiva convivenza".

Diverse ragioni in diritto portano però a dubitare che l'interpretazione della norma operata dalla questura di Reggio Emilia sia corretta, atteso in primo luogo che per orientamento consolidato l'obbligo dei coniugi di convivere deve essere inteso non come indispensabile coabitazione ma come comunione spirituale ed affettiva. Ciò in conformità con l'art. 45 c.c. che prevede la possibilità di una diversa abitazione ("ciascuno dei coniugi ha il proprio domicilio nel luogo in cui ha stabilito la sede principale dei suoi affari") e dell'art. 41 disp. att. c.c. che regola la competenza territoriale dell'autorità giudiziaria in caso di residenza in due diversi luoghi. E' pacifico che quando i coniugi mantengono residenze autonome l'unità della famiglia non sia comunque compromessa, almeno finché permanga l'intento di dare vita ad una piena unione (cfr. Corte di cassazione 11.4.2000 n. 4558, che ha escluso una violazione degli obblighi derivanti dal rapporto di coniugio nell'ipotesi della moglie che rifiuti di seguire il marito nella città di lavoro).

Posto che per i cittadini italiani non si pone un obbligo di coabitazione in senso stretto, ad analogo esito si deve necessariamente giungere quando gli stessi abbiano contratto matrimonio con cittadini non dell'U.E. Non può revocarsi in dubbio infatti che sussista un diritto, d'ordine anche costituzionale, di chi sposi un cittadino non dell'Unione alla parità di trattamento rispetto a quanti siano coniugati con cittadini di paesi aderenti alla stessa. Non è irrilevante che l'art. 29 della Carta costituzionale, per il quale deve essere tutelata la "famiglia come società naturale fondata sul matrimonio", è stato sancito dal legislatore costituzionale proprio al fine di prevenire quelle limitazioni del diritto alla libertà matrimoniale che erano state indotte autoritariamente durante il regime precedente per ragioni, tra l'altro, di cittadinanza (cfr. Atti dell'Assemblea Costituente, 3227, ove fu ricordato che il matrimonio con lo straniero era stato sottoposto al preventivo consenso del Ministero dell'interno ed interdetto senza eccezioni ai dipendenti pubblici). L'art. 29 escludendo disparità di trattamento nell'accesso al diritto di formare e mantenere una famiglia sulla base oltre che di presupposti razziali o di religione anche di cittadinanza, assicura parità di trattamento al cittadino italiano che sposi uno straniero e garantisce per conseguenza il diritto a conservare la relazione coniugale anche in mancanza di stretta coabitazione. Avendo la ricorrente allegato il mantenimento di una stabile relazione, il decreto nella parte in cui da atto che "il marito [...] per ammissione della stessa [...] abita stabilmente a Savona e solo sporadicamente si reca a Reggio Emilia per incontrarla" non appare già in una prima battuta sufficientemente motivato in ordine all'interruzione della comunione spirituale ed affettiva tra i coniugi.

2. Si deve rilevare pertanto che il provvedimento appare illegittimo in riferimento all'allegata situazione di fatto (non smentita dai fatti riportati in motivazione) al momento della sua emanazione, febbraio 2006. Si deve osservare d'altro canto che alla luce dei chiarimenti forniti dalla ricorrente alla scorsa udienza, la situazione di fatto pare radicalmente mutata allo stato attuale, poiché non sussiste più alcuno stabile rapporto tra i coniugi, così da configurare una condizione di separazione di fatto. Si pone quindi il problema dell'attuale persistenza dei presupposti per il rinnovo del permesso di soggiorno.

Com'è noto in ipotesi di separazione legale, scioglimento del matrimonio o morte del coniuge, l'art. 30 co. 5 T.U. espressamente prevede che il permesso di soggiorno per ragioni familiari possa essere convertito in permesso di soggiorno per ragioni di lavoro. Nulla dispone invece in ipotesi di mera separazione di fatto. Ad avviso di questo giudice, tuttavia, dalla lettura delle norme che regolano la materia non è dato evincere che presupposto per la concessione od il rinnovo del permesso di soggiorno per ragioni di famiglia sia, oltre al matrimonio, anche la perdurante convivenza tra i coniugi, tale per cui la stessa sarebbe preclusa in ipotesi di successiva separazione di fatto.

È pur vero che la Corte di cassazione con la sentenza del 22.5.2003 n. 8034 ha rilevato che "anche nell'originaria formulazione dell'art. 30, il matrimonio contratto con un italiano non attribuiva senz'altro allo straniero il diritto di ottenere il permesso di soggiorno, perché mirando a tutelare l'unità familiare, il rilascio di quest'ultimo presupponeva la instaurazione di un'effettiva convivenza fra i coniugi", ma la necessità di tale presupposto si impone esclusivamente al fine d'evitare che attraverso matrimoni simulati si realizzi una frode alla legge, mentre non può essere interpretato nel senso che per i coniugi sussista un obbligo perpetuo di convivenza in costanza di matrimonio. Milita in tale senso il tenore letterale della norma ("qualora ... al matrimonio non è seguita l'effettiva convivenza") ed anche la collocazione della stessa nel titolo "matrimoni contratti al fine di eludere le norme sull'ingresso e sul soggiorno dello straniero". Così come pare confermare tale ratio anche il recente decreto legislativo 8.1.2007, n. 5 ("attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare") che al detto articolo 30, co. 1 bis, ha aggiunto il seguente periodo: "La richiesta di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero di cui al co. 1, lettera a), è rigettata e il permesso di soggiorno è revocato se è accertato che il matrimonio o l'adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di permettere all'interessato di soggiornare nel territorio dello Stato". Se, peraltro, l'assenza di coabitazione dovesse essere assunta anche al di là della funzione testé individuata d'evitare matrimoni in frode alla legge, ravvisando in essa un presupposto oggettivo che deve accompagnare per questi soggetti il matrimonio per tutta la sua durata, verrebbe legittimato un "principio di dipendenza" dei diritti fondamentali di una persona dalle scelte di un terzo, di problematica compatibilità con il principio di autonomia e dignità della persona.

Deve ritenersi allora che la separazione di fatto non comporti comunque il venir meno delle ragioni per il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi familiari. Si deve peraltro osservare che il recente citato decreto legislativo 6.2.2007, n. 30, al co. 2 dell'art. 12 ("mantenimento del diritto di soggiorno dei familiari in caso di divorzio e di annullamento del matrimonio") prevede che "il divorzio e l'annullamento del matrimonio con il cittadino dell'Unione non comportano la perdita del diritto di soggiorno dei familiari del cittadino dell'Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro a condizione che essi abbiano acquisito il diritto al soggiorno permanente di cui all'articolo 14 o che si verifichi una delle seguenti condizioni: a) il matrimonio è durato almeno tre anni, di cui almeno un anno nel territorio nazionale, prima dell'inizio del procedimento di divorzio o annullamento". Alla luce della nuova normativa l'odierna ricorrente, il cui matrimonio ha già avuto durata superiore ai tre anni, avrebbe dunque maturato in ogni caso il diritto al soggiorno permanente anche se all'attuale separazione di fatto avesse fatto seguito l'inizio di un procedimento di divorzio.

3. Si deve infine dare conto di un ulteriore argomento in ordine all'interpretazione del citato art. 30 co. 1 bis T.U., che è stato già posto in evidenza in giurisprudenza (cfr. in particolare l'ordinanza del tribunale di Padova - sez. Cittadella - del 18.3.2005)[1] con argomenti tratti dall'interpretazione sistematica dello stesso T.U. e che porterebbe ad escludere in radice la necessità del presupposto della convivenza.

La citata norma di cui all'art. 30 co. 1 bis deve essere coordinata infatti con il disposto di cui all'art. 28 co. 2 dello stesso T.U. per il quale "ai familiari stranieri di cittadini italiani o di uno Stato membro dell'Unione europea continuano ad applicarsi le disposizioni del decreto n. 1656 del 1965, fatte salve quelle più favorevoli della presente legge o del regolamento di attuazione". Tale d.p.r. n. 1656 del 1965 è stato abrogato e sostituito dal d.p.r. 18.1.2002 n. 54, il cui articolo 3 in determinate condizioni riconosce senza menzionare il presupposto della convivenza il diritto a soggiornare in Italia ai coniugi dei cittadini di altri paesi dell'Unione europea. Non è chi non veda, allora, l'assurdità di un'interpretazione che richiedesse il presupposto della convivenza soltanto per i coniugi degli italiani e non per i coniugi dei cittadini degli altri paesi dell'Unione europea. Avremmo, nel nostro paese, una tutela dei cittadini europei non italiani rafforzata rispetto alla tutela ammessa per gli stessi cittadini italiani. Ne discende con tutta evidenza la necessità di ricondurre la lettura del Testo unico a principi di ragionevolezza, tali da escludere ipotesi di "discriminazione invertita" per gli stessi cittadini italiani.

Quest'argomento posto in luce dalla citata giurisprudenza di merito appare oggi confermato in ragione della riforma del febbraio u.s. poiché il d.lgs. 6.2.2007, n. 30 ("attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri"), all'art. 2 definisce "familiare" (come tale - ricorrendo le ipotesi indicate all'art. 7 - titolare del diritto di soggiornare stabilmente in Italia) il coniuge (oltre che il partner registrato, i discendenti e gli ascendenti) ed all'art. 3 richiede espressamente l'ulteriore presupposto della convivenza solo per ogni "altro familiare" non definito dal detto art. 2.

4. La particolarità della controversia, stanti anche le obiettive difficoltà interpretative, la sussistenza di contrastanti precedenti giurisprudenziali e la novità delle questioni trattate, induce a ritenere congruo compensare le spese

P.Q.M.

accoglie il ricorso e per l'effetto annulla il decreto emesso dalla questura di Reggio Emilia in data 4.2.2006 e dispone che alla medesima sia rinnovato il permesso di soggiorno. [...].