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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Corte d'Appello di Torino, decreto del 30 maggio 2007

 
rel. Manna
 

Nel procedimento camerale per reclamo iscritto al n. 148/07 R.G.V. promosso da [...] contro il Ministero degli affari esteri.

1. Con ricorso depositato il 12.7.2006 [...], cittadino marocchino titolare di carta di soggiorno, residente in Italia insieme con la moglie [...], sua connazionale, esponeva di aver ottenuto il 4.4.2005, con sentenza del tribunale di prima istanza di Berrechid, del Regno del Marocco, l'affidamento a sé della nipote [...], nata il [...], figlia del fratello [...], residente in Marocco; di aver ottenuto il 24.10.2005 dalla prefettura di Torino il nulla osta per il ricongiungimento familiare in favore di quest'ultima; precisava che, però, il Consolato generale d'Italia a Casablanca con provvedimento 9.5.2006 aveva negato il visto d'ingresso, ritenendo che secondo la legge italiana la situazione prospettata dall'istante non corrispondesse né all'adozione, né all'affidamento di minore. Ritenendo illegittimo tale rifiuto, chiedeva al tribunale di Torino il rilascio del visto d'ingresso, ai sensi dell'art. 30 d.lgs. n. 286/98. Il Ministero degli affari esteri, tramite l'avvocatura distrettuale dello Stato, si opponeva all'istanza. Deduceva, al riguardo, che l'affidamento della minore disposto dalla autorità marocchina era riconducibile all'istituto di diritto islamico denominalo kafalah, non assimilabile ad alcuna delle figure di protezione del minore conosciute dall'ordinamento interno, considerato che la legge coranica non prevede l'adozione con effetti legittimanti. In forza di tale istituto, precisava l'avvocatura dello Stato, una famiglia diversa da quella naturale può farsi carico di un minore in stato di abbandono o i cui genitori non siano in grado di provvedere al mantenimento, senza che ciò determini né l'instaurarsi tra il minore e l'affidatario di un rapporto di filiazione, né l'acquisto di diritti ereditari, effetti, invece, tipici dell'adozione. Conseguentemente, la kafalah si configura come una delegazione temporanea dell'autorità parentale, revocabile in qualsiasi momento dai genitori e destinata comunque a cessare col raggiungimento della maggiore età.

Il provvedimento del tribunale marocchino invocato dal ricorrente, inoltre, non era atto a soddisfare le condizioni previste dagli artt. 65 e 66 legge n. 218/95 per l'automatica efficacia in Italia, quali la provenienza da un'autorità statuale competente e la conformità ai principi dell'ordine pubblico interno, in quanto la kafalah - ed ogni altro istituto ad essa assimilabile - era disposta da un'autorità pubblica dotata di soli poteri "notarili", operava a tempo indeterminato, non presupponeva necessariamente la mancanza di un nucleo familiare idoneo, né l'accertamento dell'effettiva attitudine dell'affidatario, non prevedeva il mantenimento di contatti con la famiglia d'origine e non contemplava alcuna indicazione dei doveri dell'affidatario nei confronti del minore.

Con decreto 19-25.1.2007 i1 tribunale rigettava il ricorso. Il giudice di prime cure, premesso che ai sensi dell'art. 29, co. 2 d.lgs. n. 286/98 lo straniero può chiedere il ricongiungimento familiare per i figli minori o maggiorenni e per i minori adottati, affidati o sottoposti alla sua tutela, i quali sono equiparati ai figli, osservava che nel caso specifico non erano chiare le norme in base alle quali fosse stato emesso il provvedimento di affido. Senz'altro esclusa era l'applicazione della legge marocchina in materia di minori abbandonati, di cui non apparivano i presupposti di fatto, atteso che nel provvedimento straniero non vi era alcun riferimento alla incapacità o all'inidoneità dei genitori ad assolvere i propri obblighi, ma al contrario si dava unicamente atto del consenso di questi ultimi a che la figlia fosse collocata presso lo zio. Tale sola condizione dell'affidamento, però, non poteva ritenersi compatibile con l'ordinamento interno, perché ai sensi dell'art. 2 della legge n. 184/83 l'affidamento non è mai fondato sul semplice consenso dei genitori, ma è finalizzato ad ovviare alla mancanza di un ambiente familiare idoneo, ovvero è preordinato all'adozione, presupposti, questi, non riscontrabili nel caso di specie, ove l'interesse della minore era stato ravvisato nel semplice e solo fatto che il ricorrente fosse in grado di mantenerla.

Analoghe considerazioni valevano, poi, con riferimento alla tutela dei minori (art. 343 c.c.), che pure presuppone che i genitori non possano esercitare la potestà. Né, infine, la situazione prospettata poteva efficacemente ricondursi al c.d. affidamento parentale libero ex art. 9, co. 4 legge n. 184/83, non rilevante ai fini del ricongiungimento familiare, poiché l'art. 29, co. 2 T.U. sulla immigrazione non era estensibile a situazioni di puro fatto.

2. Avverso tale decreto [...] propone reclamo, innanzi a questa Corte, con ricorso depositato il 14.2.2007. Resiste l'avvocatura dello Stato.

3. Sostiene il reclamante che il tribunale, nell'incertezza delle norme di cui l'invocato provvedimento dell'autorità marocchina è applicazione, avrebbe dovuto esperire idonei accertamenti tecnici per individuare l'istituto giuridico di riferimento; e che, in ogni caso, la situazione può essere ricondotta alla figura dell'affidamento parentale libero, come affermato, in fattispecie analoga, da Tar Friuli Venezia Giulia n. 226 del 12.4.2005, che ha ritenuto operante ipso facto, ai fini dell'art. 29, co. 2 d.lgs. n. 286/98, l'affidamento di minore a parente entro il quarto grado, senza necessità dell'intervento di alcun organo giudiziario o amministrativo.

4. Il reclamo è fondato per le diverse ragioni che seguono.

Sebbene dalla traduzione del provvedimento del tribunale di prima istanza di Berrechid non emergano espressi riferimenti normativi o terminologici circa l'istituto applicato, non pare dubbio che la forma di affidamento disposta nella fattispecie contenga gli elementi identificativi della kafalah c.d. pattuita.

4.1. In generale - per quanto è dato di evincere dalla letteratura e dai pochi precedenti giurisprudenziali editi sull'argomento (Cass. n. 21395/05; trib. minori Trento, 5.3.2002; Corte app. Bari, 16.4.2004) - nei paesi dell'area maghrebina con il termine kafalah si individua l'istituto, in parte di origine consuetudinaria, in parte disciplinato dalla legge, secondo il quale un soggetto (kafil) assume in sostituzione dei genitori [o, meglio, del padre, cui gli ordinamenti islamici attribuiscono le responsabilità educative (wilaya)], e non necessariamente per la loro assenza o inidoneità, l'obbligo di provvedere al mantenimento, all'educazione e alla protezione di un minore a lui affidato (makfoul), con attribuzione del solo esercizio della potestà genitoriale, la cui titolarità spetta ad un organo pubblico (wali), che nel caso di trasferimento del fanciullo all'estero viene vicariato dall'autorità consolare competente del Regno del Marocco.

Connotato indefettibile della kafalah è che tra kafil e makfoul non si instaura alcun legame di tipo parentale (se già non preesistente), né sorgono diritti o aspettative successorie o impedimenti matrimoniali, sicché il rapporto del minore con la sua famiglia di origine non subisce cesure e gli effetti della kafalah stessa sono in ogni caso reversibili. Ciò in quanto gli ordinamenti giuridici islamici (salvo alcune eccezioni, tra cui non rientra il diritto marocchino) non prevedono forme di adozione legittimante, essendo considerata contraria alla charia l'equiparazione tra figli biologici e figli (secondo la terminologia di civil law si definirebbero) adottivi.

La kafalah può sorgere sia su base convenzionale, con omologa del tribunale, sia in forma eteronoma, differenziandosi in tal caso durata e possibilità di revoca.

4.1.1. Nel caso di specie, la sentenza del tribunale nordafricano contiene: a) l'assunzione da parte dell'odierno ricorrente, dell'impegno di prendere in custodia la minore, provvedendo al suo mantenimento, vitto, alloggio, cure mediche e istruzione; b) la dimostrazione da parte dell'affidatario di condizioni reddituali e di salute idonee; c) l'autorizzazione dei genitori della minore; d) la previsione della durata dell'affidamento fino al raggiungimento della maggiore età della minore stessa; e) la generica (e in realtà apodittica) affermazione che "la custodia è nell'interesse della minore, in quanto il ricorrente è in grado di mantenerla".

In tale atto, ad avviso della Corte, appaiono isolabili gli elementi identificativi minimi ed invariabili della kafalah di origine pattizia, essendo presente l'omologa, ad opera di un tribunale, di un accordo tra i genitori e un terzo, diretto ad attribuire a quest'ultimo la custodia di una minore, con l'obbligo di esercitare nei confronti di lei tutte le incombenze proprie della funzione genitoriale, fino al raggiungimento della maggiore età. Si tratta, pertanto, di una collocazione stabile di una bambina presso un diverso nucleo familiare che assume verso di lei soltanto obblighi, senza che si producano effetti di tipo legittimante.

Così dovendosi interpretare la fattispecie, non occorre procedere agli accertamenti tecnico-giuridici chiesti dal reclamante, essendo di tutta evidenza che si verta in una ipotesi di kalalah (come del resto sin dal primo grado ritenuto dall'avvocatura dello Stato).

4.2. Prodromica alla questione dell'idoneità del provvedimento in questione quale titolo per ottenere il ricongiungimento familiare, è la riconoscibilità di esso a norma delle disposizioni del sistema di diritto internazionale privato, poiché solo in tal caso può formularsi l'ulteriore quesito dell'assimilabilità della kafalah ad alcuna delle situazioni di equiparazione al figlio contemplate dal co. 2 dell'art. 29 T.U. sulla immigrazione.

Contrariamente a quanto ritenuto dal Ministero degli affari esteri, il provvedimento del tribunale marocchino deve considerarsi automaticamente efficace nello Stato, in base alla norma dell'art. 66 legge n. 218/95. Nonostante la forma di sentenza, che nulla di particolare può predicare di per sé, perché non è dato di conoscere i principi del diritto processuale del Regno del Marocco che presiedono alla forma degli atti processuali, la natura del provvedimento è chiaramente non contenziosa ed assimilabile alla categoria della volontaria giurisdizione, con conseguente applicabilità della norma citata.

Ciò posto, ricorrono le condizioni di cui all'art. 65 stessa legge, in quanto il provvedimento in esame proviene dall'autorità competente alla protezione della minore, quale autorità del luogo di abituale residenza di quest'ultima, ai sensi dell'art. 1 della Convenzione dell'Aja 5.10.1961 sulla competenza delle autorità e sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori (resa esecutiva in Italia con legge n. 742/80), richiamata dalla norma di conflitto dell'art. 42 legge d.i.p.; tale autorità ha applicato la propria legislazione interna, di guisa che risulta soddisfatta anche la prescrizione dell'art. 2 della predetta Convenzione. Quanto al requisito della non contrarietà all'ordine pubblico internazionale ed interno, occorre considerare, rispettivamente, che a) la kafalah di diritto islamico è espressamente contemplata dall'art. 20, co. 3 Convenzione di New York. 20.11.1989 sui diritti del fanciullo, tra gli istituti di protezione sostitutiva dell'ambiente familiare del fanciullo di cui questi sia temporaneamente o definitivamente privo; b) l'art. 28, co. 3 d.lgs. n. 286/98 stabilisce che "in tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all'unità familiare e riguardanti i minori, deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse, del fanciullo, conformemente a quanto previsto dall'art. 3, co. 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20.11.1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 27.5.1991, n. 176". Il doppio rinvio della ridetta Convenzione alla kafalah e della legge nazionale alla Convenzione stessa, dimostra senza possibilità di dubbio che tale istituto deve ritenersi (non già implicitamente, ma) espressamente conforme all'ordine pubblico sia internazionale che interno.

4.3. Le considerazioni appena svolte spianano la strada alla soluzione della fattispecie. L'art. 29, co. 2 T.U. immigrazione prevede, come si è premesso, che i minori adottati, affidati o sottoposti a tutela sono equiparati ai figli, ai fini del ricongiungimento.

La disposizione, pur utilizzando categorie di diritto interno, presuppone, per la sua stessa logica, che debbano essere apprezzati e valutati istituti di diritto straniero che siano riconducibili ad alcune delle figure in essa contemplate, poiché trattandosi di un rapporto di diritto personale intercedente tra due stranieri non è possibile ipotizzare l'applicabilità della legge italiana. Pertanto, come non é conforme alla corretta interpretazione della norma limitarsi a riscontrare la non perfetta corrispondenza tra istituto di diritto straniero e correlata disposizione nazionale, così deve ritenersi che non si possano rifiutare aprioristicamente ipotesi terze, i cui identificativi giuridici partecipino in misura più o meno intensa ad alcuna delle ipotesi anzi dette.

4.3.1. Quanto si è premesso sulla kafalah consente di cogliere in essa aspetti che percorrono in senso trasversale e in forma mediana tutte e tre le predette figure.

Infatti, nonostante il kafil non sia titolare della potestà, è certamente egli a svolgere in concreto l'esercizio, come si evince dalla stessa natura della presa in carico del makfoul, che il kafil deve mantenere, educare e proteggere (da ricordare, inoltre, che anche per l'ordinamento interno la scissione fra titolarità ed esercizio della potestà genitoriale é tutt'altro che ignota: v. artt. 317 e 317 bis c.c,), sicché la previsione di tutela da parte del wali (o del Console del Marocco, in caso di espatrio del minore) non sembra un dirimente elemento di segno opposto, trattandosi, più che altro, dello strumento di controllo attraverso cui é assicurata la permanenza del legame del makfoul con la famiglia d'origine (in tal senso sembra inclinare l'interpretazione di Cass. n. 21395/05, la quale, però, negando che il kafil sia un tutore, non si pone il problema della dissociazione fra titolazione ed esercizio della potestà). Con l'affido familiare la kafalah condivide la funzione educativa tipica e la possibile temporaneità degli effetti, che nell'affido è connaturale, essendo quest'ultimo istituto di protezione finalizzato proprio al rientro del fanciullo nella famiglia d'origine, mentre nella kafalah tale evenienza è solo possibile, posto che, al contrario, vi è una tendenziale proiezione dei suoi effetti fino a che il minore non raggiunga la maggiore età.

Infine, è ben vero che rispetto all'adozione la kafalah presenti marcate differenze, la prima essendo irretrattabile e munita di effetto legittimante, lì dove la seconda può venir meno ed è incompatibile con l'interruzione del rapporto tra il minore e i genitori biologici. Ma a ben vedere, come osservato in dottrina, il predetto istituto di diritto islamico proprio per la sua caratteristica di mandato educativo di durata indefinita, non finalizzato al riavvicinamento del minore alla famiglia d'origine, si approssima all'adozione ben più di quanto non accada per l'affidamento familiare, che ha natura essenzialmente provvisoria. Pertanto (come del resto osservato in dottrina), se il ricongiungimento è consentito nei casi di affidamento di tipo familiare, a maggior ragione esso deve essere ammesso nell'ipotesi della kafalah, la quale realizza una situazione che a) è istituzionalizzata, per effetto del provvedimento dell'organo pubblico che le conferisce efficacia; b) è stabile, perchè nasce sine die e di regola si protrae fino alla maggiore età del minore; e c) è di tipo economico-affettivo-solidaristico, per cui presenta i connotati minimi e indeclinabili delle relazioni intrafamiliari rilevanti per l'ordinamento.

Per le considerazioni esposte, l'assenza di effetti irretrattabili e legittimanti non osta alla considerazione della kafalah quale titolo di ricongiungimento familiare, più di quanto non osterebbe all'affido familiare, che pure è espressamente previsto dall'art. 29, co. 2 T.U. immigrazione.

4.3.2. Né varrebbe replicare che riconoscere la kafalah come titolo di ricongiungimento potrebbe prestare il fianco a sue utilizzazioni di tipo deviante e strumentale, facilitate dalla reversibilità dei suoi effetti, finalizzate al solo ingresso del minore nel territorio dello Stato. L'ordinamento, invero, possiede e prevede espressamente gli opportuni mezzi di controllo per reprimere le elusioni della legge, atteso che lo stesso art. 29 T.U. cit, al co. 9 stabilisce che la richiesta di ricongiungimento familiare è respinta (e dunque, se concesso, il visto d'ingresso può essere revocato) se è accertato che il matrimonio o l'adozione hanno avuto luogo allo scopo esclusivo di consentire all'interessato di entrare o soggiornare nel territorio dello Stato.

5. In conclusione il reclamo deve essere accolto. Conseguentemente, deve disporsi che l'autorità consolare italiana competente rilasci a [...] il visto d'ingresso per il ricongiungimento familiare con la minore [...].

6. Sussistono evidenti giusti motivi, data la novità della questione, per l'integrale compensazione delle spese.

P.Q.M.

la Corte accoglie il reclamo e per l'effetto dispone che l'autorità consolare italiana competente rilasci a [...] il visto d'ingresso per il ricongiungimento familiare con la minore [...]. Spese compensate.