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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Tribunale di Latina, ordinanza dell'1 luglio 2008

 
est. Di Nicola
 

[...], nell'ambito del procedimento penale contro [...] "imputati del delitto di cui agli artt. 110, 61 n. 11 bis e 614 co. 1 e 4 c.p., perché, in concorso tra loro si introducevano all'interno della villa sita in Sabaudia strada Lungomare senza numero civico di proprietà di [...], dopo avere forzato il cancello di ingresso e una delle finestre dell'immobile. Con l'aggravante di aver commesso il fatto con violenza sulle cose e da parte di soggetti che si trovano illegalmente sul territorio nazionale. In Sabaudia in data 16.6.2008".

Il 16.6.2008 i tre imputati sono stati tratti in arresto dai Carabinieri di Sabaudia nella flagranza del delitto di violazione di domicilio aggravato.

Nel corso dell'udienza di convalida, celebratasi il giorno successivo, il verbalizzante ha dichiarato che, [...], custode dell'abitazione di proprietà di [...], posta sul Lungomare di Sabaudia, aveva notato che la catena e il lucchetto che chiudevano l'ingresso della villa erano stati rotti e sostituiti con altri senza che il proprietario - debitamente contattato - ne sapesse nulla, cosicché aveva chiesto l'intervento dei Carabinieri. Giunti sul posto gli operanti avevano rilevato sia quanto segnalato dal [...] sia il danneggiamento della finestra-persiana della camera da letto della villa ed evidenti segni di effrazione cosicché, dopo avere rotto la nuova chiusura, erano entrati nello stabile dove avevano trovato disordine in tutte le stanze, utilizzo della rete elettrica nonostante il generatore fosse stato precedentemente staccato dal custode e i tre imputati nascosti.

Nell'interrogatorio [...], tutti sprovvisti di documenti e di permesso di soggiorno, hanno ammesso il fatto sostenendo però di essersi introdotti nell'abitazione di [...] senza alcuna violenza sulle cose in quanto avevano trovato la stessa accessibile a chiunque stante la precedente rottura, da parte di terzi, della porta-finestra.

Il tribunale di Latina, in composizione monocratica, sentite le parti, con ordinanza emessa all'esito dell'udienza di convalida, ha ritenuto che sussistessero i presupposti dell'arresto, indipendentemente dalla contestazione dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 11 bis c.p. e, come richiesto dal P.M., ha applicato al [...], pregiudicato, sedicente, senza fissa dimora e gravato già da decreto di espulsione, la misura cautelare della custodia in carcere, mentre ha disposto la rimessione in libertà di [...] perché incensurati rinviando all'udienza odierna per definire il processo nelle forme del giudizio abbreviato, come richiesto personalmente dagli imputati.

All'esito della discussione delle parti, il tribunale ritiene che debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 61 n. 11 bis c.p., introdotto con l'art. 1 lett. f) del D.L. 23.5.2008 n. 92, per violazione degli artt. 3, 13, 25 co. 2 e 27 co. 1 e 3 della Costituzione, in quanto rilevante e non manifestamente infondata.

Va premesso che oggetto della presente questione di legittimità costituzionale è una norma contenuta in un decreto legge del quale allo stato, pur se approvato al Senato nello stesso testo, si ignora se verrà o meno convertito, con o senza modificazioni, ai sensi dell'art. 77 Cost.

Malgrado tale incertezza oggettiva questo giudice ritiene di dovere comunque sollevare la questione di legittimità costituzionale e di non potere attendere l'eventuale stabilizzazione, modifica o perdita, degli effetti giuridici del decreto legge, proprio per evitare di emettere una pronuncia nel merito che possa condurre alla formazione del giudicato in forza di una norma della cui legittimità costituzionale si dubita.

Né, d'altra parte, la condizione di restrizione cui è soggetto l'imputato [...] consentirebbe di rinviare il processo nell'attesa della definitiva stabilizzazione della disciplina in materia riservando solo allora una eventuale impugnazione della norma.

1. Rilevanza della questione proposta

Quanto alla rilevanza si osserva che gli elementi emergenti richiedono, ai fini della affermazione di responsabilità e della configurazione delle aggravanti, l'accertamento anche della ricorrenza dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 11 bis c.p. contestata agli imputati, sprovvisti di regolari documenti di permanenza in Italia e uno dei tre, [...], attinto da ordine di espulsione l'1.2.2008 come emerso pacificamente dagli atti e non contestato dall'imputato.

Né, ai fini della esclusione della rilevanza della questione sollevata, potrebbe assumere valenza l'eventuale giudizio di bilanciamento, ai sensi dell'art. 69 c.p., da operare all'esito (della possibile affermazione di responsabilità e) dell'eventuale concessione di attenuanti(in particolare, quelle ex art. 62 bis c.p.). È evidente, infatti, che proprio per compiere correttamente tale eventuale giudizio occorre valutare, da un lato, le attenuanti, dall'altro, le aggravanti ritenute esistenti, sicché la presenza di una o più aggravanti inciderebbe proprio sull'esito del giudizio e sull'entità della pena da applicare. In definitiva, nell'ipotesi eventuale di condanna, la sanzione da irrogare andrebbe definita nell'ambito della cornice edittale di cui al nuovo testo dell'art. 61 n. 11 bis c.p. del citato D.L. n. 92/2008, nella cui vigenza è stato posto in essere il fatto delittuoso oggetto del giudizio.

2. Non manifesta infondatezza della questione

Con riferimento alla non manifesta infondatezza, questo giudice la ritiene sussistente in base alle considerazioni che seguono.

2.1 Violazione dell'art. 3 della Costituzione e dei principi di ragionevolezza, uguaglianza e proporzionalità così come desumibili dalla giurisprudenza costituzionale in relazione al sistema penalistico dell'istituto delle aggravanti.

Per affrontare il tema oggetto del dubbio di costituzionalità è preliminare accertare sinteticamente la natura giuridica della circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 11 bis c.p. ("se il fatto è commesso da soggetto che si trovi illegalmente sul territorio nazionale").

Com'è noto la ratio essendi delle circostanze del reato è costituita dall'aspirazione del legislatore di adeguare la pena al reale disvalore dei fatti concreti, nella prospettiva di individualizzazione dell'illecito penale e, con esso, della responsabilità dell'agente. Si tratta cioè di uno strumento con il quale si adegua la sanzione al reato e all'agente in un'ottica non solo di prevenzione generale ma anche rieducativa della pena.

Il nostro ordinamento penalistico prevede varie classificazioni delle circostanze ma quelle che in questa sede ci interessano sono le seguenti:

a) circostanze oggettive e circostanze soggettive (art. 70 c.p.);

b) circostanze comuni e speciali.

La circostanza in esame poiché attiene allo status personale di straniero presente illegalmente sul territorio dello Stato non può che essere qualificata come circostanza aggravante di tipo soggettivo connessa alle "qualità personali del colpevole" e poiché è applicabile indistintamente a qualsiasi fattispecie di reato, a prescindere dal tipo e dalle circostanze di fatto che lo caratterizzano - con un aumento di pena generale e costante fino a un terzo ex artt. 64 e 65 c.p. -, deve considerarsi una circostanza aggravante comune, e ciò anche in ragione della sua collocazione entro l'art. 61 c.p.

È proprio sotto i profili di generalità ed automaticità tipici delle aggravanti comuni, collegati però ad una "qualità personale del colpevole", che si evidenziano i più gravi dubbi di legittimità costituzionale.

Lo sforzo di tipizzazione della fattispecie penale, grazie alla previsione di elementi accessori del fatto che consentono l'adeguamento della pena al caso concreto, si materializza solo attraverso l'operazione accertativa del giudice che, come per gli elementi essenziali del reato, deve verificare la presenza delle condizioni di fatto costitutive della aggravante.

Ad esempio nel caso dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 9 c.p. ("l'avere commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, ovvero alla qualità di ministro di un culto"), qualificata come aggravante comune soggettiva perché concerne la qualità personale del colpevole (Cass. pen. 8.5.1981 su Rep. Foro It. 1981, 391) non basta che il soggetto possieda la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio o di ministro di culto, ma occorre che il giudice accerti anche "l'abuso" e l'intenzionalità dell'agente di usare il potere oltre i limiti legali. La ratio dell'aggravante risiede nell'esigenza di tutela del corretto svolgimento dell'attività, a rilevanza pubblica, svolta da alcuni soggetti.

E ancora, nel caso dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 11 c.p. ("l'avere commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione, o di ospitalità"), anch'essa qualificata come aggravante comune soggettiva, invece, si intende tutelare il dovere di lealtà nei rapporti di lavoro, di convivenza, di famiglia e di ospitalità, cioè in relazioni interpersonali di reciproco affidamento, cosicché al giudice spetta di accertare in concreto non solo la qualità personale dell'agente ma anche l'abuso della stessa e i rapporti tra colpevole e offeso.

Nelle ipotesi esemplificativamente richiamate, quindi, l'applicazione della aggravante comune soggettiva non discende automaticamente dalla condizione o qualità personale dell'agente, ma dalla verifica in concreto che quella condizione abbia effettivamente aggravato la condotta. Solo dopo la valutazione del giudice sul maggiore disvalore del fatto per la sussistenza di tutti i presupposti dell'aggravante si perviene alla applicazione dell'aumento di pena.

L'unico caso assimilabile a quello dell'art. 61 n. 11 bis c.p., in cui invece la applicazione della circostanza discende automaticamente dalla condizione dell'agente, è quello della recidiva prevista dall'art. 70 ultimo comma c.p.

Questo istituto però, non è logicamente e giuridicamente equiparabile alla fattispecie de qua, in quanto la recidiva presuppone la condanna dell'agente per una condotta di per sé, ed autonomamente, illecita sul piano penalistico. Ciò che ne giustifica la automatica applicazione (sul punto vedi infra in relazione al potere discrezionale del giudice e al problema dell'automatismo applicativo), indipendentemente dalla relazione della stessa con la fattispecie astratta di reato cui è connessa, si giustifica in ragione del particolare disvalore attribuito dall'ordinamento a chi abbia già commesso altri illeciti penali, perciò accertati dal giudice.

Ripugnerebbe alla coscienza giuridica e sarebbe in contrasto con il nostro sistema un'ipotesi in cui si stabilisse un'aggravante per la commissione di un mero illecito amministrativo (vedi sent. della Corte cost. 354/02).

Nel caso dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 11 bis c.p. ci troviamo di fronte ad una fattispecie totalmente eccentrica rispetto al sistema e, dunque, irragionevole ai sensi dell'art. 3 della Costituzione, perché non solo non consente al giudice alcuna valutazione in concreto della connessione tra la qualità di straniero illegittimamente presente nello Stato e la condotta criminale per la quale viene giudicato (come invece avviene per le altre aggravanti comuni soggettive), ma riconnette alla condizione personale dell'inottemperanza alla disciplina amministrativa dell'immigrazione una valenza penale, con obbligatorio riflesso sulla pena. Ciò avviene in termini del tutto differenti rispetto al regime previsto nel caso della recidiva - come modificata dalla legge 251 del 2005 - che, come si vedrà oltre, ha indotto il giudice delle leggi (vedi sent. n. 192 del 2007) e il giudice di legittimità (Cass. pen., sent. n. 2606 del 2008) a prospettare una interpretazione che, per essere rispondente alla Costituzione, esclude qualsiasi automatismo ed impone sempre una valutazione discrezionale del caso e della persona in esame con possibilità di evitare l'applicazione della aggravamento sanzionatorio allorché la maggiore pericolosità non sia ravvisata in concreto.

D'altra parte, qualora si ritenesse ammissibile un'aggravante derivante dalla commissione di un mero illecito amministrativo l'ordinamento, irragionevolmente, sanzionerebbe in modo uguale situazioni ontologicamente diverse non graduando la pena tra chi commette un illecito amministrativo (art. 61 n. 11 bis c.p.), anche non formalmente accertato o contestato - si pensi al caso di specie in cui per [...] manca un provvedimento di espulsione -, e chi ha commesso un illecito penale accertato con sentenza passata in giudicato (recidivo).

Il necessario intervento della valutazione del giudice, tale da garantire il rispetto della norma costituzionale invocata è ulteriormente confermato dalla previsione di talune aggravanti, comuni e speciali, fondate unicamente sulla condizione o qualità personale del colpevole, purché sia però preventivamente intervenuto un provvedimento del giudice che abbia accertato la pericolosità del soggetto in forza di specifici provvedimenti che attestino tale qualità.

Ad esempio nel caso dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 6 c.p. ("l'avere il colpevole commesso il reato durante il tempo, in cui si è sottratto volontariamente alla esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione, spedito per un precedente reato"), comunemente ritenuta di tipo soggettivo, la maggiore gravità del fatto è determinata appunto dalla maggiore pericolosità del soggetto che, "non piegandosi al potere coercitivo dello Stato" (Cass. 29.1.1994 De Feo) si sottrae volontariamente a provvedimenti restrittivi della libertà personale emessi dall'autorità giudiziaria e, contemporaneamente, commette un altro reato.

Lo stesso avviene nel caso delle circostanze aggravanti previste da specifiche fattispecie di reato o da leggi speciali come ad esempio:

- per l'omicidio (576 c.p.) e per le lesioni personali (585 c.p.), le aggravanti di cui agli artt. 576 co. 1 nn. 3 ("dal latitante, per sottrarsi all'arresto, alla cattura o alla carcerazione ovvero per procurarsi i mezzi di sussistenza durante la latitanza") e n. 4 ("dall'associato per delinquere, per sottrarsi all'arresto, alla cattura o alla carcerazione");

- per la rapina l'aggravante di cui all'art. 628 co. 3 n. 3 c.p. ("se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416 bis");

- per l'estorsione le aggravanti di cui all'art. 629 co. 2 c.p. ("La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098, se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente");

- per la persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione, l'aggravante di cui all'art. 7 della legge n. 575 del 1965 ("Le pene stabilite per i delitti previsti dagli artt. 336, 338, 353, 378, 379, 416, 416 bis, 424, 435, 513 bis, 575, 605, 610, 611, 612, 628, 629, 630, 632, 633, 634, 635, 636, 637, 638, 640 bis, 648 bis, 648 ter c.p. sono aumentate da un terzo alla metà e quelle stabilite per le contravvenzioni di cui agli artt. 695, co. 1, 696, 697, 698, 699 c.p. sono aumentate nella misura di cui al co. 2 dell'art. 99 c.p. se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione durante il periodo previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata").

In dette circostanze viene in rilievo il profilo di ragionevolezza sotteso alle aggravanti, consistente nella maggiore offensività della condotta derivante dalla commissione di un reato da parte di soggetto nei cui confronti è stato già emesso un provvedimento giudiziario che ne ha accertato la pericolosità - anche specifica per l'associato per delinquere o per l'associato a sodalizio criminale di cui all'art. 416 bis c.p. - (Cass. 29.1.1994, cit.)

Inoltre è utile aggiungere che il legislatore, al solo fine di garantire le funzioni amministrative preordinate all'espulsione degli immigrati irregolari e di disciplinare in modo rigoroso i flussi migratori, stabilisce che la medesima condizione soggettiva possa simultaneamente essere da un lato elemento costitutivo del reato di cui all'art. 14 co. 5 ter del testo unico dell'immigrazione - fattispecie anch'essa che prescinde da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili - e dall'altro circostanza aggravante, così da duplicare, anche in termini di pena, la stessa condizione soggettiva allorché l'agente si sia reso responsabile sia del reato di inosservanza all'ordine di allontanamento dato dal questore, sia di altro reato aggravato dalla presenza irregolare nello Stato.

In conclusione, la disposizione impugnata sembra ulteriormente confermare le considerazioni più volte prospettate dalla Corte costituzionale in relazione alla sproporzione e alla irragionevolezza della legislazione interna sulla condizione dello straniero clandestino e si scontra frontalmente con il monito di recente nuovamente espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 22 del 2007, sentenza nella quale, dopo essersi premesso che il controllo dei flussi migratori e la disciplina dell'ingresso e della permanenza degli stranieri nel territorio nazionale è "un grave problema sociale, umanitario ed economico che implica valutazioni di politica legislativa non riconducibili a mere esigenze generali di ordine e sicurezza pubblica né sovrapponibili o assimilabili a problematiche diverse, legate alla pericolosità di alcuni soggetti e di alcuni comportamenti che nulla hanno a che fare con il fenomeno dell'immigrazione", dà atto che le questioni di costituzionalità sollevate con riferimento alla disciplina del testo unico sulla immigrazione, per come modificato dalla legge n. 271 del 2004, in comparazione con altre norme penali "può servire eventualmente al legislatore per una considerazione sistematica di tutte le norme che prevedono sanzioni penali per violazioni di provvedimenti amministrativi in materia di sicurezza pubblica, senza dimenticare peraltro che il reato di indebito trattenimento nel territorio nazionale dello straniero espulso riguarda la semplice condotta di inosservanza dell'ordine di allontanamento dato dal questore, con una fattispecie che prescinde da una accertata o presunta pericolosità dei soggetti responsabili" e conclude con un significativo monito, proprio in relazione al profilo sanzionatorio, in forza del quale: "Occorre tuttavia riconoscere che il quadro normativo in materia di sanzioni penali per l'illecito ingresso o trattenimento di stranieri nel territorio nazionale, risultante dalle modificazioni che si sono succedute negli ultimi anni, anche per interventi legislativi successivi a pronunce di questa Corte, presenta squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi costituzionali di uguaglianza e di proporzionalità della pena e con la finalità rieducativa della stessa".

2.2 Violazione del principio di ragionevolezza anche in relazione all'art. 13 della Costituzione ed alla valutazione della pericolosità sociale.

Il D.L. n. 92 del 2008, con la previsione impugnata, ha ulteriormente aggravato la disciplina sanzionatoria, nonostante l'indicazione contenuta nella sopra citata sentenza della Corte costituzionale, che aveva richiamato il legislatore ad avvedersi degli squilibri denunciati dai giudici remittenti per invitarlo ad "un intervento legislativo che ben più efficacemente potrebbe ripristinare un sistema sanzionatorio dagli equilibri compatibili coi valori costituzionali evocati. In estrema sintesi, la rigorosa osservanza dei limiti dei poteri del giudice costituzionale non esime questa Corte dal rilevare l'opportunità di un sollecito intervento del legislatore, volto ad eliminare gli squilibri, le sproporzioni e le disarmonie prima evidenziate". Infatti l'aggravante contestata sancisce sostanzialmente un'ipotesi di presunzione ex lege di pericolosità del soggetto, tale da imporre un aumento di pena fino ad un terzo rispetto alla pena del reato cui accede e a prescindere da una qualsiasi valutazione in concreto da parte del giudice, cosicché deve essere sottoposta ad uno scrutinio rigoroso di compatibilità anche rispetto all'art. 13 della Costituzione che sancisce un diritto inviolabile dell'uomo, cittadino o straniero che sia (così la sentenza n. 58 del 1995 della Corte costituzionale, al punto 3 del Considerato in diritto, e la sentenza n. 62 del 1994 che, con riferimento alla libertà personale, stabilisce che "il principio costituzionale di uguaglianza in generale non tollera discriminazioni tra la posizione del cittadino e quella dello straniero").

La norma penale, nella specie l'aggravante di cui all'art. 61 n. 11 bis c.p., potrà sacrificare o comprimere detto diritto purché sia sostenuta dal perseguimento o dalla realizzazione di altri interessi di pari rango costituzionale (sentenze della Corte costituzionale 63/1994, 81/1993, 368/1992, 366/91), dei quali, però, nella specie, non si riesce ad intravedere il fondamento.

Il controllo del fenomeno migratorio illegittimo, infatti, ammesso che rientri tra gli interessi di rango costituzionale e non di mera politica del diritto, non sembra comunque equiparabile a quello della tutela della libertà personale in relazione a categorie di soggetti la cui pericolosità sociale non è in alcun modo dimostrata.

Che la pericolosità sociale dello straniero illegittimamente presente nello Stato non possa essere presunta è altresì dimostrato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che, nella sentenza n. 58 del 1995 in cui il giudice remittente dubitava della legittimità costituzionale dell'art. 86, co. 1, del d.p.r. 9.10.1990, n. 309 ("nella parte in cui obbliga il giudice a emettere, contestualmente alla condanna, l'ordine di espulsione dallo Stato, eseguibile a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli artt. 73, 74, 79 e 82, co. 2 e 3, precludendogli, in forza dell'art. 164, co. 2, n. 2, c.p., la concessione della sospensione condizionale della pena inflitta"), ha ritenuto irragionevole l'applicazione della misura di sicurezza della espulsione dello straniero "senza l'accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale contestualmente alla condanna" (così nel dispositivo della menzionata pronunzia).

Se, dunque, è stata ritenuta costituzionalmente illegittima la disposizione sopra menzionata perché fondata sul solo presupposto legale della condizione di straniero del condannato per la determinazione presuntiva della pericolosità sociale di questi, a maggior ragione ciò deve valere con riferimento all'ipotesi di specie in cui non viene in rilievo, sulla base del medesimo presupposto, l'applicazione di una misura di sicurezza personale ma la quantificazione stessa della pena.

Sotto il profilo della ragionevolezza va ancora osservato che secondo la Corte costituzionale "la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un'ampia discrezionalità"; ma tale discrezionalità incontra un insuperabile limite "costituito appunto dalla conformità a Costituzione, ovverosia dalla non manifesta irragionevolezza delle scelte legislative operate" (si vedano, per tutte, la sentenza n. 148 del 2008, la sentenza n. 206 del 2006 e l'ordinanza n. 361 del 2007).

La motivazione della richiamata sentenza n. 58 del 1995 della Corte costituzionale consente appunto di affermare che la non ragionevolezza dell'aggravante in esame discende proprio dal profilo aprioristico di pericolosità che introduce, senza alcun accertamento della sua sussistenza in concreto, ragion per cui appare inidoneo il richiamo, a sua giustificazione, di altri "interessi pubblici" da tutelare, quali il presidio della sicurezza dei cittadini o dell'ordine pubblico.

2.3 Violazione dell'art. 25 co. 2 della Costituzione.

Se le circostanze aggravanti comuni costituiscono una variante di intensità dell'offesa al bene giuridico tutelato dalla fattispecie di reato cui accedono, ne consegue che anche rispetto ad esse va accertato se rispondono al principio di offensività (si vedano le sentenze della Corte costituzionale nn. 265 del 2005 e 519 del 2000), di necessarietà e di sussidiarietà del diritto penale intesi come corollari del principio di legalità sancito dall'art. 25 della Costituzione.

A questo riguardo è utile richiamare la sentenza della Corte costituzionale n. 409 del 1989 lì dove afferma che "il legislatore non è sostanzialmente arbitro delle sue scelte criminalizzatrici ma deve, oltre che ancorare ogni previsione di reato ad una reale dannosità sociale, circoscrivere, per quanto possibile, tenuto conto del rango costituzionale della (con la pena sacrificata) libertà personale l'ambito del penalmente rilevante".

Proprio il legame indissolubile che deve sussistere tra sanzione penale e commissione di un fatto offensivo, anche alla luce della "individualizzazione" della pena (vedi infra), impone al giudice la valutazione in concreto della incidenza della qualità personale dell'agente sulle specifiche esigenze dei singoli casi al fine di evitare la punizione di una pericolosità presunta e l'adesione ad una ormai definitivamente tramontata concezione etico-sociale del "tipo normativo d'autore" volta a cogliere la tipologia etico-politica degli autori del fatto-reato rispondendo alle esigenze sentite e rappresentate dalla coscienza sociale.

Se, come nella specie, l'aumento di pena è applicato all'agente in forza della sola condizione di straniero presente illegalmente nello Stato, quindi automaticamente in forza di un mero status personale, viene meno il principio verso cui è diretto il nostro sistema penalistico che fonda anche la politica criminale della difesa sociale sulla responsabilità individuale e non su un "a priori" elevato a presunzione di pericolosità sociale. È evidente, infatti, che in concreto il giudice, sulla base dell'art. 61 n. 11 bis c.p., è oggi tenuto ad accertare solo se esista il fatto costitutivo dell'aggravante - il dato oggettivo della presenza irregolare dello straniero nel territorio dello Stato - ma non anche se e come questo incida sulla fattispecie base tanto da aggravarne concretamente l'offesa.

Ad esempio, per i reati contro l'inviolabilità del domicilio (come quello contestato agli imputati del presente processo penale), contro il patrimonio o contro la persona commessi da stranieri clandestini oggi dovrebbe automaticamente ritenersi sussistente la circostanza pur se concretamente l'offesa non risulti aggravata dallo status dell'agente o percepita dalla stessa vittima come più grave, mentre basterebbe tenerne conto in sede di quantificazione della pena ai sensi degli artt. 133 (in particolare il co. 2 n. 4) e 133 bis c.p., allorché la clandestinità sia concretamente incidente sulla gravità del reato e sulla capacità a delinquere dell'agente.

Al riguardo si richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 354 del 2002 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 688, co. 2 c.p. (art. 688 c.p. "1. Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è colto in stato di manifesta ubriachezza è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 51 a euro 309. La pena è aumentata se l'ubriachezza è abituale. 2 La pena è dell'arresto da tre a sei mesi se il fatto è commesso da chi ha già riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l'incolumità individuale».) proprio stigmatizzando in detta disposizione "una sorta di reato d'autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato che, nella sua accezione astratta, costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale posto sotto il presidio di questa Corte (sentenze n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995). Tale limite, desumibile dall'art. 25, co. 2, della Costituzione, nel suo legame sistematico con l'insieme dei valori connessi alla dignità umana, opera in questo caso nel senso di impedire che la qualità di condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non costituiscono illecito penale".

Mutatis mutandis ciò deve valere anche nel caso in esame in cui costituisce aggravante, tale da determinare l'aumento di pena, la condizione di clandestinità dello straniero del tutto sconnessa dal concreto contenuto offensivo del reato base e che finisce col punire non tanto la clandestinità in sé, quanto una qualità personale del soggetto.

Se si volesse ritenere che la condizione di clandestinità dell'autore del reato sia di per sé sufficiente a determinare una maggiore dannosità del fatto si ricadrebbe, come sopra sostenuto, nell'accoglimento della concezione etico-sociale del "tipo normativo d'autore" rifiutata dal nostro ordinamento costituzionale e penale.

2.4 Violazione dell'art. 27 Cost. sotto il profilo del principio della personalità della responsabilità penale, del principio di proporzionalità della pena, del principio rieducativo della pena.

L'art. 61 n. 11 bis c.p. conduce anche a punire diversamente fatti tra loro oggettivamente identici e che si differenziano solo per lo status personale di chi li abbia commessi, cioè solo per la circostanza che l'autore sia, oppure no, uno straniero presente irregolarmente nel territorio italiano. Questo dato contrasta con il principio della personalità della responsabilità penale, della proporzionalità della pena e della sua funzione rieducativi.

Contrasta con il principio della responsabilità penale personale sancito dall'art. 27 Cost. co. 1 in quanto con l'aggravante in esame all'agente si rimprovera non una attitudine delinquenziale ma una qualità personale, punendo più gravemente un tipo di autore: il clandestino.

Se per i motivi sopra esposti si esclude una valutazione in concreto da parte del giudice non può neanche essere sondato il grado di partecipazione psichica del soggetto rispetto alla sua condizione di irregolare presenza in Italia, nonostante la clausola di apertura del "giustificato motivo" contenuta nella disposizione di cui all'art. 14 co. 5 ter T.U. immigrazione e riempita di contenuto dalla giurisprudenza costituzionale.

Omettendosi qualsiasi accertamento in concreto viene meno anche "l'uguaglianza di fronte alla pena" intesa come "proporzione" della pena rispetto alle "personali" responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, in violazione dell'esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio che individualizzi le pene inflitte (vedi sent. n. 50 del 1980); al fine di evitare che la funzione aggravatrice della pena possa soddisfare solo esigenze generali di prevenzione e di difesa sociale che prescindono dalla valutazione della personalità del condannato.

Contrasta con il principio rieducativo della pena sancito dall'art. 27 co. 3 della Costituzione nella prospettiva della finalizzazione della sanzione al recupero sociale dell'agente e al suo reinserimento nel circuito della legalità.

Sul punto non vi è dubbio che vi sia un ampio ambito di discrezionalità del legislatore, ma allorché, come nella specie, non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza per le ragioni sopra prospettate, la sanzione diventerà per ciò solo irrazionale ed arbitraria (cfr., tra le numerose decisioni della Corte costituzionale, la sent. n. 72 del 1980 e la sent. n. 103 del 1982).

Prevedere un aumento di pena fino ad un terzo per essere l'autore del fatto uno straniero illegalmente sul territorio dello Stato, senza che ciò determini alcuna maggiore offensività concreta del fatto reato (il cui accertamento è peraltro precluso al giudice) e senza che ciò costituisca un indice concreto di pericolosità dell'agente, frustra la finalità rieducativa della pena perché non vi è un ragionevole rapporto tra maggiore severità della pena ed effettiva entità del reato.

In conclusione l'aggravante in esame da un lato non realizza la finalità retributiva e generalpreventiva perché non consente di adeguare la pena alla specificità del caso concreto e, anzi, impone, un trattamento sanzionatorio sproporzionato ed inadeguato alla gravità del caso; dall'altro lato non realizza la finalità specialpreventiva e rieducativa della pena poiché una sanzione siffatta non agevola il reinserimento sociale dell'agente né lo riconduce nell'ambito della legalità, anche amministrativa.

Ciò vale a maggior ragione nel caso in esame in cui, in violazione anche del principio di uguaglianza di fronte alla pena, il trattamento sanzionatorio astrattamente previsto per [...], illegalmente presenti in Italia ma non attinti da provvedimento espulsivo, è identico a quello previsto per [...] che è anch'egli irregolarmente in Italia ma non ha ottemperato all'ordine di espulsione (reato quello di cui all'art. 14 co. 5 ter T.U. immigrazione non contestato dal P.M.).

Ne deriva un'irragionevole ed ingiustificata disparità di trattamento penale per effetto della quale, in dipendenza della condizione di clandestino in cui versa l'autore, fatti oggettivamente identici o analoghi sono sottoposti a pene sensibilmente diverse e fatti oggettivamente diversi sono sottoposti alla medesima pena. Solo l'adeguamento del trattamento punitivo alla specificità del caso concreto consente di assicurare un'effettiva eguaglianza di fronte alle pene, contribuisce a rendere «personale» la responsabilità penale e a finalizzare la pena alla rieducazione del condannato.

In questa logica è utile ricordare che il Giudice delle leggi con la sentenza 192 del 2007, in relazione al problema della obbligatorietà o meno della recidiva reiterata e del divieto per il giudice di procedere al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti, ha escluso l'automatismo oggetto di censura, fondato su una presunzione assoluta di pericolosità sociale, stabilendo che "conformemente ai criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa", il giudice deve applicare "l'aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo - in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall'art. 133 c.p. - sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo". Se tali sono i caratteri che deve avere il trattamento sanzionatorio delineato dalla Costituzione, l'attuale disciplina dell'art. 61 co. 11 bis c.p. non appare conforme ad essi ed anzi li viola.

P.Q.M.

visto l'art. 23 legge 11.3.1953, n. 87, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza; solleva questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, 13, 25, co. 2 e 27 co. 1 e 3 della Costituzione, dell'art. 61 n. 11 bis c.p. introdotto con l'art. 1 lett. f) del D.L. 23.5.2008 n. 92. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Sospende il giudizio in corso. [...].