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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Tribunale di Milano, decreto del 30 maggio 2008

 
est. Bianchini
 

CGIL comprensorio di Milano, Funzione pubblica CGIL; CISL comprensorio di Milano; FPS CISL comprensorio di Milano con l'intervento volontario di [...] contro l'Azienda ospedaliera San Paolo di Milano [...].

I ricorrenti, cui ha aderito con il suo intervento volontario, la sig.ra [...], hanno avanzato ricorso ex art. 44 d.lgs. 286/98 chiedendo al giudice di dichiarare il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalla convenuta e consistente nel non ammettere i dipendenti extracomunitari (o in subordine i soli dipendenti extracomunitari con qualifica di infermieri professionali o titolari di permesso di soggiorno UE di lungo periodo) già assunti con contratto a termine o con contratto di collaborazione coordinata e continuativa alle procedure di stabilizzazione previste dalle norme contrattuali e di legge e di ordinare all'Azienda ospedaliera di cessare tale comportamento discriminatorio.

L'Azienda ospedaliera si è costituita contestando le domande avanzate di cui chiedeva il rigetto.

Va preliminarmente respinta l'eccezione di carenza di giurisdizione sollevata dalla convenuta. Le posizioni giuridiche fatte valere sono qualificabili come diritti soggettivi dal momento che a fondamento del ricorso è stata posta la violazione da parte della Azienda ospedaliera di un diritto fondamentale della persona quale quello al riconoscimento della pari dignità sociale ed alla non discriminazione nell'accesso al lavoro. L'art. 43 d.lgs. citato, ma soprattutto l'art. 3 Cost. affermano il principio di pari dignità sociale e di uguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.

In particolare l'art. 43 afferma al co. 1 che "ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica" ed al co. 2 lett. e) che "costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa".

L'art. 2 d.lgs. n. 215/2003 di attuazione alla direttiva CE n. 43/2000, a sua volta, ravvisa una discriminazione indiretta allorquando "una disposizione, un criterio, una prassi, un patto, un comportamento apparentemente neutro può mettere una persona appartenente ad una razza o ad una etnia in posizione svantaggiosa rispetto ad altre".

In questo caso il comportamento che viene indicato come discriminatorio è riconducibile alla scelta dell'Azienda ospedaliera di non inserire i lavoratori con contratto a tempo determinato extracomunitari, regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale (alcuni dei quali anche muniti di carta di soggiorno), nelle procedure di "stabilizzazione" del personale assunto a termine previste dalla l. n. 296/06 (legge finanziaria per il 2007) e ribadite dalla l. 244/2007 (legge finanziaria per il 2008) essendo essi privi della cittadinanza italiana.

A ciò va aggiunto che gli artt. 43 e 44 d.lgs. 286/98 prevedono che l'azione venga esercitata innanzi al giudice ordinario; nello specifico, trattandosi di questione attinente i rapporti di lavoro i ricorrenti hanno correttamente adito il giudice del lavoro.

Nessuna incertezza si pone in relazione alla legittimazione ad agire delle organizzazioni sindacali atteso che l'art. 44 al co. 10 prevede che "qualora il datore di lavoro ponga in essere un atto o un comportamento discriminatorio di carattere collettivo, anche in casi in cui non siano individuabili in modo immediato e diretto i lavoratori lesi dalle discriminazioni, il ricorso può essere presentato dalle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentativi a livello nazionale [...]". Ricorre infine l'attualità del comportamento ritenuto discriminatorio atteso che questo si è palesato in maniera concreta con la lettera del 24.9.2007 con la quale il direttore generale dell'Azienda ospedaliera ribadiva, ad una specifica richiesta avanzata dalla CISL territoriale, che non si sarebbe proceduto all'assunzione a tempo indeterminato del personale extracomunitario perché privo della cittadinanza italiana; ribadiva tale posizione all'atto dell'elaborazione dei prospetti dei precari ove tra il personale avente diritto alla stabilizzazione era escluso quello di provenienza non comunitaria (doc. 4 atti ric.); confermava tale posizione in sede di interrogatorio libero allorquando il rappresentante della convenuta spiegava che per esempio nel caso degli infermieri professionali il numero degli aventi diritto era stato calcolato togliendo dal numero degli incaricati a tempo determinato gli extracomunitari. A ciò va aggiunto che la sig.ra [...] ha riferito che trovandosi nella busta paga di febbraio 2008 la comunicazione con cui si avvisava il personale a tempo determinato che l'Azienda stava attivando le procedure selettive inerenti il processo di stabilizzazione del personale precario, recatasi agli uffici amministrativi per avere informazione, si sentiva dire che era inutile che presentasse domanda in quanto era sprovvista della cittadinanza italiana, circostanza non smentita dalla convenuta. Quanto infine alla considerazione che non si potrebbe parlare di comportamento discriminatorio in quanto la convenuta si sarebbe limitata ad applicare le disposizioni di legge vigenti e che tale comportamento sarebbe pertanto privo di quei caratteri di intenzionalità e volontà lesiva, la stessa appare ininfluente.

Il legislatore configurando anche le ipotesi di discriminazione indiretta ha infatti voluto far riferimento a quei comportamenti che per quanto privi da parte del soggetto agente di un intento discriminatorio vengono comunque ad assumere tale connotato. L'elemento soggettivo non ha pertanto alcuna valenza, cosi come analogamente è stato affermato in relazione al contenuto antisindacale di un comportamento, atteso che ciò che rileva è l'esito finale costituito dall'obiettiva condizione di trattamento disuguale sulla base esclusivamente dell'essere o meno cittadini.

Per quanto attiene al merito si rileva quanto segue.

Ai fini di un inquadramento della questione, va premesso che la l. 296/2006 l'art. 1 co. 565 ha previsto per gli enti del SSN, nell'ambito degli indirizzi fissati dalle Regioni per il conseguimento degli obiettivi di contenimento della spesa, la possibilità, individuata la consistenza dell'organico del personale assunto a tempo indeterminato e di quello assunto con contratto a termine o con contratto di collaborazione, di predisporre un programma per la trasformazione delle posizioni di lavoro coperte da personale precario in posizioni di lavoro dipendente a tempo indeterminato nel rispetto dei criteri e delle modalità previste dai commi dal 513 a 543.

A ciò seguiva un protocollo di intesa regionale, sottoscritto dalle parti il 3.8.2007, nel quale erano individuati i precari coinvolti nel processo di stabilizzazione e le procedure da applicare.

In particolare veniva specificato che erano interessati: l) i soggetti in servizio alla data del 31.3.2007 che avevano maturato a tale data un'anzianità di servizio di almeno tre anni nel quinquennio precedente anche se non continuativi; 2) i soggetti in servizio con un contratto stipulato entro la data del 29.9.2006 che avevano maturato successivamente un'anzianità di servizio di tre anni computandosi eventuali servizi prestati in quinquennio precedente anche non continuativi; 3) i soggetti in servizio nel quinquennio precedente al 31.3.2007 che avevano maturato alla stessa data un'anzianità di servizio di almeno tre anni nel quinquennio anche non continuativi presso la stessa Azienda o altre Aziende del SSN.

In merito alla procedura da adottare il protocollo stabiliva che in via prioritaria dovevano essere assunti a tempo indeterminato i precari di cui al punto l) già inseriti in valida graduatoria di concorso pubblico secondo l'ordine della medesima; in riferimento al personale precario di cui ai nn. 1, 2 e 3 non inserito in graduatorie valide di pubblico concorso era quindi prevista l'attuazione per ogni profilo di una procedura selettiva riservata. Con la legge finanziaria del 2008 la procedura di stabilizzazione era ribadita tant'é che al co. 94 era previsto che le amministrazioni pubbliche predisponessero, sentite le OO.SS., i relativi piani di assunzione.

In tale direzione procedeva anche l'Azienda ospedaliera San Paolo la quale, in attuazione del protocollo regionale, avviava le procedure tant'è che individuava in una tabella (doc. 4 atti ric.) il personale da stabilizzare dal quale escludeva tutti i precari extracomunitari e comunicava a tutto il personale, con un avviso consegnato insieme alla busta paga del mese di febbraio 2008, l'attivazione di dette procedure con l'indizione di avviso interno per 50 posti di operatore sociosanitario e con la prossima indizione di ulteriori concorsi per i diversi profili.

L'art. 2 del d.lgs. n. 286/1998 garantisce allo straniero comunque presente sul territorio nazionale (e quindi anche quello clandestino) il godimento dei diritti fondamentali della persona previsti dal diritto interno, dalle Convenzioni internazionali e dai principi internazionali. Nei commi successivi prevede, a favore degli stranieri regolarmente soggiornanti, il godimento dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano; la parità di trattamento e della piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani in conformità alla Convenzione OIL 143/1975 ratificata con l. n. 158/1981; il diritto alla partecipazione alla vita pubblica; la parità di trattamento con il cittadino per la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi e nei rapporti con la P.A. e nell'accesso ai servizi pubblici. In particolare, per quanto attiene l'accesso e l'esercizio del diritto al lavoro, il co. 3 afferma la parità di trattamento e la piena uguaglianza con il cittadino italiano senza alcuna limitazione di sorta e senza richiamare alcuna disposizione riduttiva.

Tale disposizione mal si concilia tuttavia con quanto affermato, in materia di accesso al pubblico impiego, dal d.p.r. n. 487/94 con il quale si pone in evidente contrasto laddove quest'ultimo prevede il requisito della cittadinanza italiana per accedere agli impieghi civili nella P.A., disposizione richiamata dal d.lgs. n. 165/2001 che al co. 13 dell'art. 70 ha affermato che "in materia di reclutamento le P.A. applicano la disciplina prevista del d.p.r. n. 487/1994 per le parti non incompatibili con quanto previsto dagli artt. 35 e 36 [...]".

Ritiene questo giudice, richiamando la giurisprudenza di merito sviluppatasi sull'argomento (cfr. Corte appello Firenze 2.7.2002; trib. Firenze 14.1.2006; trib. Imperia 12.9.2006; trib. Perugia 6.12.2006; trib. Bologna 7.9.2007) e discostandosi dalla sentenza della Corte di cassazione n. 24170/06, che il requisito della cittadinanza italiana, ai fini dell'accesso nella P.A., possa essere ancora validamente richiesto solo in quanto riferito allo svolgimento di determinate attività, quali quelle comportanti l'esercizio di pubblici poteri o di funzioni di interesse nazionale, venendo diversamente ad assumere un connotato discriminatorio comportando un trattamento disuguale e più svantaggioso per il non cittadino in assenza di una differenziazione oggettiva tra le due posizioni.

In questo caso infatti la limitazione subita dallo straniero non è dettata da alcuna ragione concreta, obiettiva e specifica ed il disuguale trattamento dovuto alla mera assenza della cittadinanza si configura come ingiustificato ed arbitrario.

Emerge con evidenza che lo svolgimento di mansioni di operatore sanitario o infermiere professionale presso una struttura pubblica è del tutto identico allo svolgimento di tali mansioni presso una struttura privata: non è ravvisabile alcuna differenza né al dipendente pubblico, in quanto tale, viene richiesto di possedere caratteristiche specifiche non possedute dallo straniero.

Il requisito della cittadinanza italiana nell'acceso alla P.A. trova il suo fondamento nel principio secondo il quale gli impiegati pubblici sono al servizio esclusivo della nazione e sono pertanto tenuti ad un "obbligo di fedeltà" che si ritiene che non possa essere assicurato da chi, essendo straniero, non ha un legame con il paese cosi intenso come chi vi appartiene in qualità di cittadino.

Attualmente tuttavia tale contenuto ha perso rilievo e pregnanza tant'è che lo stesso legislatore ha in più occasioni consentito che uno straniero possa essere assunto da una struttura pubblica con contratto a tempo determinato; contratto che a volte, per effetto di proroghe e rinnovi, ha una durata superiore di alcune assunzioni a tempo indeterminato. Non si vede peraltro come il contratto a termine possa differenziarsi sotto il profilo degli obblighi "di fedeltà" dal contratto a tempo indeterminato. Il lavoratore assunto a termine è infatti tenuto al rispetto degli stessi doveri di diligenza e correttezza del collega assunto a tempo indeterminato ed è soggetto alle stesse disposizioni regolatrici questo secondo tipo di contratto.

La situazione è tipica proprio nel settore sanitario dove, avendo il legislatore bloccato le assunzioni a tempo indeterminato per anni per ragioni di bilancio, le Aziende pubbliche hanno continuato a ricorrere ai contratti a termine per far fronte alle necessità di organico e poter cosi garantire il servizio; assunzioni che hanno spesso interessato proprio cittadini extracomunitari. Tale circostanza sottolinea ulteriormente come il contratto a termine sia divenuto una delle tante forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale delle quali anche la P.A. si serve per il perseguimento dei propri fini.

Indicativo in proposito è proprio il caso della sig.ra  [...] la quale ha lavorato per la convenuta in forza di una serie di contratti a termine, quasi senza soluzione di continuità, dal febbraio 2001 ad oggi e nel 2002 partecipava ad un concorso per tre posti di collaboratore professionale sanitario - tecnico sanitario collocandosi al 7° posto, concorso che peraltro consentiva ai classificati progressivamente di stipulare un contratto a tempo indeterminato. Il progressivo affievolimento, in relazione allo svolgimento di quei compiti non comportanti esercizio di poteri pubblici, del significato attribuito al dipendente pubblico quale cittadino italiano emerge anche da una serie di disposizioni normative emanate nel corso degli ultimi anni.

In tal senso vanno ricordati:

l'art 38 del d.lgs. 165/01 che prevede che i cittadini degli Stati membri dell'Unione europea possano accedere ai posti di lavoro presso la P.A. che "non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri ovvero non attengono alla tutela dell'interesse nazionale";

il d.p.r. 394/99 (regolamento di attuazione del T.U. immigrazione cosi come modificato successivamente) che prevede all'art. 40 co. 21 che "le strutture sanitarie, sia pubbliche che private, sono legittimate alla assunzione degli infermieri professionali anche a tempo indeterminato, tramite specifica procedura";

l'art. 22 lett. r) bis d.lgs. 286/98 come modo da l. 189/2002, che prevede la possibilità di ingresso nel territorio nazionale, fuori dall'annuale piano flussi, per gli infermieri professionali assunti presso strutture sanitarie pubbliche o private senza operare alcuna distinzione tra le forme di contratto (a tempo indeterminato o a termine);

l'art. 27 d.lgs. 286/98 che autorizza l'ingresso in Italia dei lettori (ovvero collaboratori esperti linguistici), professori universitari o ricercatori per attività da espletare presso università o istituti) di istruzione o ricerca senza alcuna specificazione in ordine alla natura pubblica o privata delle strutture interessate alla loro attività;

il d.lgs. n. 251/07 che, dando attuazione alla direttiva n. 83/2003/CE relativa alla qualifica di rifugiato, all'art. 25 consente a colui che è titolare di tale status di accedere al pubblico impiego con le modalità e le limitazioni previste per i cittadini dell'Unione europea.

Inoltre sul piano dell'affermazione del diritto alla parità di trattamento dei lavoratori stranieri, regolarmente soggiornanti nel paese, ai lavoratori italiani vanno ricordati:

il d.p.r. n. 220/2001 contenente il regolamento per la disciplina concorsuale del personale non dirigente del SSN che prevede per il settore della sanità il requisito della cittadinanza italiana "salve le equiparazioni stabilite dalle leggi" ed ove tale specificazione non può non riferirsi e quindi ricomprendere anche quanto previsto dall'art. 2 T.U. sull'immigrazione;

il d.lgs. n. 215/2003 che, dando attuazione alla direttiva CE n. 43/2000, afferma la applicazione del principio di parità di trattamento a tutte le persone sia nel settore pubblico che in quello privato e ha chiarito che tale principio deve regolare anche l'accesso all'occupazione ed al lavoro sia autonomo che dipendente compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione (art. 3 co. 1 lett. a).

In proposito è interessante osservare che lo stesso articolo al co. 4 stabilisce che "non costituiscono atti di discriminazione quelle differenze di trattamento che pur risultando apparentemente discriminatorie siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari".

Ne consegue, a parere di chi scrive, che un requisito quale quello della cittadinanza italiana può essere richiesto senza assumere una valenza discriminatoria solo in quanto sia giustificato da specifiche finalità che possono essere solo quelle determinate dallo svolgimento di poteri pubblici o di funzioni di interesse nazionale che per il loro contenuto ed i loro effetti possono essere svolti solo da chi ha con il paese un legame particolarmente forte in quanto ne è cittadino.

Di particolare rilievo è infine la direttiva CE n. 109/2003 relativa ai soggiornanti extracomunitari di lungo periodo che ha previsto che questi godano dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda l'esercizio di un'attività lavorativa subordinata o autonoma purché questa non implichi nemmeno in via occasionale la partecipazione all'esercizio di pubblici poteri.

La stessa ha avuto attuazione con la l. n. 3/2007 la quale prevede che gli stranieri titolari di carta di soggiorno (parificata al permesso di soggiorno CE) possono svolgere nello Stato ogni attività lavorativa subordinata o autonoma salvo quelle che la legge espressamente riserva al cittadino o vieta allo straniero. Disposizione questa che va letta ed interpretata in correlazione con quanto affermato dalla stessa direttiva la quale al co. 3 dell'art. 11 afferma che gli Stati membri possano fissare delle limitazioni di accesso al lavoro subordinato o autonomo nei casi in cui la legislazione nazionale o comunitaria riservi delle attività ai cittadini dello Stato o della UE.

Anche in questo caso pertanto viene ribadito il riferimento al fatto che limitazioni possono esserci solo in quanto attribuite a specifiche "attività" e solo in quanto ciò sia determinato da esigenze oggettive e definite.

Non può non essere richiamata in proposito la sentenza della Corte cost. n. 432/2005 che dichiarando la incostituzionalità della legge della Regione Lombardia, che in materia di trasporto gratuito per gli invalidi riservava tale beneficio agli invalidi italiani, pur affermando da un lato che "il principio costituzionale di uguaglianza non tollera discriminazioni tra la posizione del cittadino e quella dello straniero solo quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell'uomo" ha poi aggiunto che "al legislatore è consentito introdurre regimi differenziati circa il trattamento da riservare ai singoli consociati soltanto in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria".

Appare evidente che una tale argomentazione non può non assumere una portata di rilievo con riferimento al diritto al lavoro.

Infine con la sentenza n. 454/98 la Corte costituzionale ha altresì osservato che i lavoratori extracomunitari, una volta autorizzati al lavoro subordinato stabile in Italia godendo di un permesso di soggiorno rilasciato a tale scopo o di altro titolo che consenta di accedere al lavoro subordinato, sono posti a tal fine in condizione di parità con i cittadini italiani e godono di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori italiani, non perdono tali diritti per il fatto di rimanere disoccupati, possono iscriversi nelle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso di soggiorno, possono altresì iscriversi negli elenchi per il collocamento obbligatorio degli invalidi. Se si considera che a tali elenchi fa altresì riferimento la P.A. a mezzo di chiamata numerica previa esclusiva verifica della compatibilità della invalidità con le mansioni da svolgere, non può che trovare ulteriore conferma una interpretazione che limita il requisito della cittadinanza italiana all'accesso nella P.A. solo in quanto questo sia diretto allo svolgimento di pubblici poteri o di funzioni di interesse nazionale.

Le considerazioni fin qui svolte ed i numerosi richiami normativi fatti conducono pertanto ad affermare che in materia di accesso al lavoro, sia esso privato quanto pubblico, vale nell'attuale ordinamento il principio di pari trattamento e di uguaglianza fra cittadini italiani, cittadini comunitari e cittadini extracomunitari dovendo il principio affermato nell'art. 2 T.U. immigrazione trovare diretta ed immediata applicazione "sia in riferimento ai diritti inerenti allo svolgimento del rapporto di lavoro ma anche con riguardo al diritto di aspettativa di occupazione (cfr. ord. trib. Bologna 7.9.2007)". Le disposizioni che richiedono il possesso della cittadinanza italiana, pur mantenendo validità, vanno tuttavia interpretate nel senso di limitare tale requisito solo in quanto riferito allo svolgimento di pubblici poteri o di funzioni poste a tutela dell'interesse nazionale, certamente escluse nel caso di specie dove i lavoratori in questione andrebbero a svolgere mansioni rientranti nel ruolo del personale infermieristico, del personale tecnico sanitario, degli operatori socio-sanitari.

Questa interpretazione appare peraltro essere quella più conforme ai principi costituzionali e l'unica che consente di non ravvisare nell'art. 70 co. 13 d.lgs. 165/2001 quel contenuto discriminatorio costituito da un'esclusione generalizzata di tutti i lavoratori extracomunicati solo in quanto tali da tutte le posizioni della P.A.

Il ricorso deve pertanto trovare accoglimento.

Conseguentemente viene ordinato all'Azienda ospedaliera San Paolo di ammettere i dipendenti extracomunitari già assunti con contratto a tempo determinato o con contratto di collaborazione coordinata e continuativa alle procedure di stabilizzazione, fermi restando gli ulteriori requisiti, diversi dalla cittadinanza, ponendo cosi fine al comportamento discriminatorio.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in € [...] oltre accessori a favore delle OO.SS. ed in € [...] oltre accessori a favore della sig.ra [...].

P.Q.M.

dichiara il comportamento discriminatorio dell'Azienda ospedaliera San Paolo; ordina alla stessa di ammettere i dipendenti extracomunitari già assunti con contratto a termine o con contratto di collaborazione coordinata e continuativa alle procedure di stabilizzazione previste dalle norme di legge e dalle norme contrattuali fermi restando gli ulteriori requisiti diversi dalla cittadinanza. Condanna la convenuta al pagamento delle spese di lite che liquida in € [...]