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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Tribunale di Genova, decreto del 15 novembre 2000

 
est. De Gregorio
 

Visto il ricorso presentato dal [...], nato a Milot (Albania) in data [...], ex art. 11, co. 8, l. 6.3.1998 n.40 e 13, co. 8, d.lgs. 25.7.1998 n. 286, [...], avverso il provvedimento di espulsione, n. 0448762/Cat. 11/Div. stran. amm., emesso dal prefetto di Genova in data 6.11.2000 e notificato in pari data, per essersi sottratto ai controlli di frontiera; assunte sommarie informazioni, a scioglimento della riserva presa alla predetta udienza ha pronunziato il seguente decreto.

Le doglianze del ricorrente possono così riassumersi:

1) mancata comunicazione dell'avviso di inizio del procedimento ex art. 7 l. n.241/90;

2) violazione degli artt. 4 e 13 co.2 lett. b) d.lgs. n.286/98, per non esservi atti la prova precisa e rigorosa del comportamento elusivo;

3) difetto di valutazione dell'inserimento sociale del ricorrente;

4) richiesta di riduzione dell'interdizione.

Il motivo sub 1) non è meritevole di accoglimento.

Ritenuto che il motivo addotto pone la questione preliminare dell'applicabilità, al particolare procedimento di espulsione amministrativa previsto dall'art. 13 del d.lgs. n.286/98, dell'art. 7 della legge 7.8.90 n. 241, che, appunto, prescrive l'obbligo della P.A. di comunicare alle parti interessate l'avvio del procedimento "ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento medesimo".

Ritenuto che sul piano teorico non pare esservi alcun motivo per negare tale applicabilità, la stessa non essendo espressamente esclusa né dalla stessa l. n.241/90 (che, pur prevede, all'art. 13, casi di non applicabilità; ma trattasi di legge precedente a quella sugli stranieri), né dalla l. n.40/98 e dal successivo d.lgs. n.286/98 e dovendosi considerare l'art. 7 predetto una norma di carattere generale con valenza di principio generale del procedimento amministrativo. Infatti, la norma in oggetto sembra trovare la sua ratio non solo in ragioni di tutela degli interessi della parte nei cui confronti è destinato a produrre effetti diretti il provvedimento finale del procedimento, ma anche nella opportunità di mettere la P.A., nella condizione di adottare un provvedimento sulla base di tutte le conoscenze utili alla adozione della decisione migliore, molte delle quali possono essere addotte solo dall'interessato, non essendo acquisibili direttamente dall'amministrazione procedente, con ciò contribuendo anche a ridurre il contenzioso giudiziario delle P.A.

Ritenuto che sul piano pratico, tuttavia, è indubbio che la materia delle espulsioni degli stranieri è di per sé connotata, in generale, proprio da quei caratteri di celerità che giustificano l'omessa comunicazione dell'avvio del procedimento, trattandosi, per lo più, di procedimenti che si esauriscono immediatamente con l'emanazione del provvedimento di espulsione contro soggetti spesso non esattamente identificati e privi di stabile residenza, sì da rendere pressoché impossibile l'eventuale notifica successiva del decreto. In una materia che presenta analoghe tematiche, quella del rimpatrio con foglio di via obbligatorio, la Corte cass. è recentemente intervenuta (v. Cass. sez. I, 19/6 - 25/9/98, Cantarella, in Gazzetta giuridica Giuffrè n. 44/98) per affermare che non sussiste l'obbligo di avviso all'interessato del procedimento, "trattandosi di ipotesi in cui - senza adempimenti intermedi - l'avvio del procedimento coincide con lo stesso atto di rimpatrio e l'interessato non ha possibilità di interloquire con memorie e produzioni documentali".

Tuttavia ciò non significa ancora che l'art. 7 l. n. 241/90 sia inapplicabile al procedimento per l'espulsione degli stranieri, esonerando così l'amministrazione dall'obbligo della comunicazione sempre e comunque; l'insussistenza dell'obbligo dell'avviso può derivare dall'applicazione della deroga prevista dall'art. 7 medesimo, il che imporrebbe di valutare, caso per caso, se sussistano o meno le esigenze di celerità del procedimento legittimanti l'omissione in oggetto.

Del resto il fatto che nei procedimenti per espulsioni la regola diventi quella che nei normali procedimenti amministrativi costituisce l'eccezione (particolari esigenze di celerità del procedimento) non pare di per sé solo sufficiente a negare in radice l'applicabilità del principio generale laddove tali particolari esigenze di celerità, sia pure eccezionalmente, non sussistano.

È noto che la tesi opposta sostiene che, nella materia delle espulsioni, sarebbe stato introdotto un meccanismo di tutela delle ragioni dello straniero più rapido ed efficace delle normali vie del ricorso all'A.G. amministrativa: nell'arco di dieci giorni l'A.G. ordinaria deve pronunciarsi accogliendo o respingendo il ricorso presentato dall'interessato ed in tal modo ogni possibilità di difesa dell'interessato sarebbe stata trasferita nel procedimento davanti all'A.G. ordinaria, alla quale sarebbe stato, sia pure implicitamente, conferito il potere, del tutto speciale ed anomalo nel nostro ordinamento giuridico, di annullare o comunque rendere inefficace il decreto di espulsione del prefetto. Secondo tale prospettazione, la specialità di questo procedimento potrebbe giustificare la inapplicabilità al medesimo dell'art. 7 l. n. 241/90, avendo comunque l'interessato la possibilità di far valere le sue ragioni in modo rapido ed efficace.

Anche questa argomentazione non pare, però, convincente, perché - come si è notato più sopra, a proposito della ratio dell'art. 7 citato - tale possibilità offerta allo straniero colpito dal provvedimento di espulsione, non fa venir meno l'esigenza di mettere la P.A. in grado di adottare il "migliore" provvedimento possibile; ed allora non può negarsi l'esistenza di ipotesi in cui è molto probabile che la P.A. non sia a conoscenza di tutto ciò che serve per emettere un provvedimento perfettamente legittimo sul piano formale e sostanziale.

Continua, quindi, a sussistere, anche in questa materia, l'interesse non solo dello straniero colpito dal provvedimento, ma anche della P.A. a conoscere tutti gli elementi utili alla decisione, laddove tale interesse sia concretamente perseguibile per la mancanza di particolari esigenze di celerità del procedimento.

Ritenuto, quindi, di risolvere la questione preliminare nel senso della applicabilità, anche ai procedimenti di espulsione amministrativa, dall'art. 7 l. n.241/90, con la conseguenza che occorre verificare, volta per volta, ai fini della valutazione circa la sussistenza dell'obbligo della P.A. di comunicare l'avvio del procedimento, se ricorrano "ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento".

Ritenuto, infine, che la verifica predetta deve avere, innanzitutto, per oggetto le ragioni dell'espulsione, sicché ipotesi come la pericolosità sociale o la sottrazione ai controlli di frontiera non possono considerarsi come rientranti nell'alveo di quei provvedimenti assistiti da "interessi di dialogo" tra amministrazione ed interessato: trattasi di fattispecie assai semplici, nelle quali, all'accertamento unilaterale dei presupposti, consegue l'emissione del provvedimento, che deve essere emanato con particolare celerità perché non resti svuotato di contenuto.

Su tali premesse, si osserva che il provvedimento impugnato contesta proprio la sottrazione ai controlli di frontiera.

Venendo a considerare il motivo sopra indicato sub 2), va detto che, proprio ai sensi della più volte citata l. n. 241/90, che prevede l'obbligo generale di concludere il procedimento con un provvedimento esplicito e dotato di motivazione, il provvedimento amministrativo può essere dichiarato nullo soltanto se manchi del tutto la motivazione e non nei casi in cui sia insufficiente o contraddittoria; casi nei quali, ove sia previsto, l'atto è semplicemente annullabile per violazione dei limiti interni della discrezionalità. E tale principio vale, ovviamente, solo per gli atti discrezionali.

Ora va osservato come la norma che impone l'espulsione per l'elusione dei controlli di frontiera non preveda alcuna valutazione discrezionale della P.A., che resta obbligata, una volta accertati i presupposti, ad emettere il conseguente provvedimento.

Ma v'è dell'altro. Anzi v'è di più.

L'obbligo di motivazione, nel caso di specie, è riconducibile non solo e non tanto alla legge n. 241/90, ma anche e soprattutto al principio generale di tutela della libertà personale di cui agli artt. 2 e 13 della Costituzione. Ed essendo devoluto al giudice ordinario un sindacato di controllo pieno sulla libertà personale dell'individuo e non ha una mera valutazione della legittimità del provvedimento impugnato, laddove la motivazione sia semplicemente insufficiente o addirittura contraddittoria non si verifica affatto un'ipotesi di annullabilità del provvedimento stesso, potendo (rectius: dovendo) il giudice adito valutare sotto il profilo sostanziale la correttezza dell'esercizio della funzione, integrando, se del caso, la motivazione amministrativa con il proprio redde rationem.

Ciò premesso, si osserva come sia pacifico che il ricorrente sia in possesso di regolare passaporto, ma privo di un visto di ingresso in territorio Schengen.

Ora, è ben vero che il confronto tra il disposto dell'art. 10 e quello dell'art. 13 impone un'interpretazione restrittiva dell'ipotesi legislativa relativa a chi "è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera", essendo evidente che, nel comportamento di chi si sottrae ai controlli, la legge ravvisa qualcosa di più e di diverso rispetto al comportamento di coloro che possono essere respinti alla frontiera perché "si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti". La condotta della "sottrazione" implica, infatti, non la semplice omissione di quanto la legge prescrive, ma un'attività di elusione, un comportamento che consente di sfuggire ai controlli volontariamente ed astutamente (come ad esempio il passaggio della frontiera in punti diversi dai valichi appositamente istituiti, o attraverso i valichi consentiti ma con comportamenti diretti ad eludere i controlli dell'autorità).

È altrettanto pacifico che la condotta di sottrazione può ritenersi ragionevolmente provata anche ex post, da un successivo comportamento dell'interessato che impedisca volontariamente alle autorità nazionali la verifica della regolarità dell'ingresso della persona nel nostro paese. E ritenuto, altresì, che la sussistenza di tale condotta cosciente e volontaria la si ricavi dalle stesse dichiarazioni del ricorrente, che ha ammesso di essere entrato nello Stato nella città di Bari nell'agosto 1999, senza precisare di aver attraversato un valico regolarmente istituito (come era suo onere precisare), e così implicitamente ammettendo di essere presente nel territorio dello Stato da circa 1 anno, lavorando in modo irregolare e senza essersi mai posto il problema della regolarizzazione della sua posizione di extracomunitario.

La richiesta di annullamento del decreto di espulsione va, pertanto, respinta.

Pare, invece, accoglibile la richiesta di riduzione del termine di inibizione dal rientro nel territorio dello Stato ad anni due, atteso che l'espulso ha un parente in Italia e non ha ricevuto contestazione alcuna da parte di chicchessia, con ciò dimostrando l'osservanza delle norme vigenti nello Stato.

P.Q.M.

rigetta la domanda di annullamento del decreto opposto; riduce ad anni due il divieto di rientro nel territorio dello Stato.