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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Corte d'Appello di Catania, decreto del 22 marzo 2002

 
est. Morgia
 

Letti gli atti relativi all'affare civile n. 8/2002 R.g. avente per oggetto il reclamo proposto da [...] nato in [...] Srilanka il [...] avverso il decreto del tribunale di Catania in data 7.1.2002 che ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale il predetto aveva impugnato, ex art.1 del d.l. 30. 12. 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, nella legge 28.2.1990, n. 39, il provvedimento della Commissione centrale per il riconoscimento dello stato di rifugiato emesso in data 14.3.2001 con il quale la suddetta Commissione aveva deciso di non riconoscere lo stato di rifugiato all'odierno reclamante;

letta la memoria difensiva depositata dalla Presidenza del consiglio dei ministri, in persona del Presidente del consiglio pro-tempore, organicamente rappresentata dall'avvocatura distrettuale dello Stato di Catania;

sentite le parti all'udienza camerale del 22.2.2002 (alla quale è comparso solo il difensore del reclamante) e sciogliendo la riserva in quella sede formulata, osserva quanto segue.

1. Per motivi di ordine logico - processuale occorre, in primo luogo, esaminare la doglianza relativa alla declaratoria di inammissibilità pronunciata dal primo giudice sulla scorta della considerazione che "nessuna norma consente di proporre la domanda di cui sopra con ricorso di volontaria giurisdizione, dovendo, invece, essa essere proposta con atto introduttivo di un giudizio contenzioso ordinario".

La doglianza è fondata. Invero, l'art. 1.6 del d.l. 30.12.1989, n. 416, convertito, con modificazioni, nella legge 28.2.1990, n. 39, testualmente prevede che "attraverso la decisione di respingimento (dell'istanza volta ad ottenere lo status di rifugiato) presa in base ai commi 4 e 5 è ammesso ricorso giurisdizionale". Al riguardo la Suprema corte ha avuto, di recente, modo di statuire che "la qualifica di rifugiato politico ai sensi della Convenzione di Ginevra del 29.7.1951 costituisce, come quella di avente diritto all'asilo (dalla quale si distingue perché richiede quale fattore determinante un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito non richiesto dall'art. 10, co. 3, Cost.), una figura giuridica riconducibile alla categoria degli "status" e dei diritti soggettivi, con la conseguenza che tutti i provvedimenti assunti dai competenti organi in materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva, e le controversie riguardanti il riconoscimento della posizione di rifugiato (così come quelle sul riconoscimento del diritto d'asilo) rientrano nella giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, una volta espressamente abrogato dall'art. 46 legge n. 40 del 1998, art. 5, d.l. n. 416 del 1989, convertito con modificazioni della legge n. 39 del 1990 (abrogazione confermata dall'art. 47 del testo unico d.lgs. n. 286 del 1998), che attribuiva al giudice amministrativo la competenza per l'impugnazione del provvedimento di diniego dello status di rifugiato" (Cass. S.U. 17.12.1999, n. 907).

Ora, poiché proprio con riferimento ai procedimenti in materia di famiglia e di stato delle persone (titolo II del libro IV del c.p.c.) - ma non soltanto in relazione ad essi - il capo VI del medesimo libro detta la disciplina generale dei procedimenti di camera di consiglio (artt. 737-742 bis), e poiché proprio l'art. 737 pone la regola che tali procedimenti - come molti altri previsti da leggi speciali - vadano proposti con ricorso (diversamente dai giudizi contenziosi ordinari che vanno, di regola, proposti con citazione), non par dubbio che il ricorso avanzato al tribunale civile di Catania da [...] avverso il provvedimento negativo della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato sia stato correttamente proposto, in rito, anche perché i predetti articoli (737 e segg. c.p.c.) sono, comunque, definiti come disposizioni comuni ai procedimenti in camera di consiglio, senza distinzione tra procedimenti volontari o contenziosi, ed anzi il legislatore ha soppresso ogni riferimento alla volontaria giurisdizione, di cui faceva, invece, parola l'art. 778 del codice di rito del 1865. A conferma di ciò basti considerare che, concordemente, dottrina e giurisprudenza prevalenti attribuiscono natura di volontaria giurisdizione ai procedimenti di separazione consensuale tra coniugi e divorzio su ricorso congiunto nonché, almeno in parte, ai procedimenti di interdizione e inabilitazione.

Non è, pertanto, vietato al legislatore ordinario di disporre, in base ad una valutazione anche politica della vicenda, l'applicazione del procedimento camerale che si concluda con l'emanazione di un provvedimento avente contenuto decisorio, quando ritenga che l'impiego di tali forme sia più rispondente all'esigenza di una sollecita ed equa applicazione delle norme di diritto sostanziale nel caso concreto. Ciò che il legislatore ordinario non può, invece, fare è di precludere, con tale mezzo, il ricorso per cassazione, che realizza la più completa tutela del diritto, ed a ciò provvede il precetto dell'art. 111, comma secondo, della Costituzione, che si sostituisce anche ad una (eventuale) espressa disposizione contraria del legislatore comune.

Peraltro, proprio i provvedimenti riguardanti lo status della persona sono normalmente emessi, anche in considerazione dell'evidente interesse pubblico ad essi connesso, in esito ai procedimenti aventi la natura di volontaria giurisdizione i quali, tra le altre caratteristiche, presentano quella dell'impulso sostanzialmente ufficioso, con una prevalenza dei poteri del giudice che accentua il carattere inquisitorio del procedimento di camera di consiglio e la parziale inapplicabilità del principio iuxta alligata et probata, risultando così non certo esclusa ma almeno attenuata la sfera di applicabilità delle regole generali concernenti l'onere della prova.

Se ancora ve ne fosse bisogno, a conferma della natura di volontaria giurisdizione del presente procedimento, sta la pregnante considerazione - ritenuta uno dei principali discrimini tra procedimento contenzioso e procedimento di volontaria giurisdizione - che l'interesse fatto valere dall'odierno reclamante volto ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato non assurge al grado di diritto soggettivo e, comunque non da luogo a posizioni subiettive contrapposte in relazione all'emanazione del provvedimento richiesto, in quanto manca il conflitto di diversi e contrapposti interessi correlativi ad una pretesa e ad una soggezione scaturenti da un diritto e da un obbligo che, com'è noto, caratterizza ogni procedimento contenzioso.

A ben vedere, anzi, la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato (che ha, peraltro, natura dichiarativa e non costitutiva) non consente neppure di individuare un qualsiasi vero controinteressato in quanto non configura neppure un interesse autonomo e tutelato in modo diretto dalla legge ma, in qualche modo, pur sempre (anche indirettamente) collegato alla posizione giuridica di un altro soggetto (il c.d. controinteressato, appunto) che potrebbe risentire, direttamente o indirettamente, degli effetti del provvedimento chiesto da altri e che, perciò, potrebbe avere valide ragioni contrarie alla sua emanazione anche se il provvedimento stesso è, per sua natura, diretto a regolare un unico interesse. E, ad esempio, sono, in tal senso, controinteressati (in vario grado e sotto vari profili) l'interdicendo e l'inabilitando, l'amministratore condominiale di cui si chiede la revoca, il conservatore dei registri immobiliari che si è rifiutato di eseguire la cancellazione di un'iscrizione ovvero gli amministratori ed i sindaci di una società quando siano denunciate gravi irregolarità ai sensi dell'articolo 2409 c.c. in quanto ciascuno di tali soggetti ha comunque da temere, nei sui confronti, ripercussioni di vario genere da provvedimenti che pure sono in linea di principio, volti a soddisfare altri interessi: dei condomini, della società e dei soci o l'interesse generale.

2. Così affermata l'ammissibilità del ricorso presentato dallo [...] e venendo all'esame del merito, rileva la Corte che la normativa nella specie applicabile è quella, sopra richiamata, di cui all'art. 1 del d.l. 30.12.1989, n. 416, convertito, con modificazioni, nella legge 28.2.1990, n. 39 il quale, al fine del riconoscimento dello status di rifugiato fa espresso riferimento alla Convenzione di Ginevra del 28.7.1951, ratificata dall'Italia con la legge 24.7.1954, n.722 il cui art. 1.2 definisce "rifugiato": "colui che, a seguito di avvenimenti verificatisi anteriormente al primo gennaio 1951, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori dal paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese...".

La procedura per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato è, poi, enunciata nel regolamento di cui al d.p.r. 15.5.1990, n. 136. Deve, infine, rammentarsi che la definizione di "rifugiato", originariamente soggetta alla duplice limitazione di ordine temporale (sopra menzionata) e di ordine spaziale dei cui al co. 1 della Convenzione (rifugiati di provenienza europea), ha oramai carattere generale essendo stata la prima limitazione rimossa dal Protocollo di New York del 31.1.1967, reso esecutivo in Italia con la legge 14.2.1970, n. 95, e la seconda dal citato art. 1, primo comma del d.l. 30.12.1989, n. 416, convertito, con modificazioni, nella legge 28.2.1990, n. 39, il quale ha sancito che "dalla data di entrata in vigore del presente decreto cessano nell'ordinamento interno gli effetti della dichiarazione di limitazione geografica e delle riserve di cui agli articoli 17 e 18 della Convenzione di Ginevra del 28.7.1951, ratificata con legge 24.7.1954, n. 722, poste dall'Italia all'atto della sottoscrizione della convenzione stessa". Il quarto comma del medesimo art. 1 stabilisce, inoltre, che "non è consentito l'ingresso nel territorio dello Stato dello straniero che intende chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato quando, da riscontri obbiettivi da parte della polizia di frontiera, risulti che il richiedente: a) sia stato già riconosciuto rifugiato in altro Stato. in ogni caso non è consentito il respingimento verso uno degli Stati di cui all'art. 7, co. 10; b) provenga da uno Stato, diverso da quello di appartenenza, che non abbia aderito alla Convenzione di Ginevra, nel quale abbia trascorso un periodo di soggiorno, non considerandosi tale il tempo necessario per il transito del relativo territorio sino alla frontiera italiana. In ogni caso non è consentito il respingimento verso uno degli Stati di cui all'art. 7, co. 10; c) si trovi nelle condizioni previste dall'art. 1, par. F, della Convenzione di Ginevra; d) sia stato condannato in Italia per uno dei delitti previsti dall'art. 380, co. 1 e 2, del c.p.p. o risulti pericoloso per la sicurezza dello Stato, ovvero risulti appartenere ad associazioni di tipo mafioso o dedite al traffico degli stupefacenti o ad organizzazioni terroristiche."

3. Esaurita, così, una brevissima sintesi dei dati normativi, occorre adesso delineare, se pure ai limitati fini che qui giovano, almeno le essenziali linee guida in tema di individuazione del concetto di rifugiato delineato dalla norma sopra riferita (di cui meglio si dirà nell'esaminare il caso di specie) e, soprattutto, in tema di onere probatorio.

3.1. A questo ultimo riguardo non è, forse, superfluo rammentare, in primo luogo, che il riconoscimento dello status di "rifugiato" ha natura meramente dichiarativa e non certo costitutiva (cfr. anche la sentenza della Suprema corte sopra citata). Infatti, una persona è "rifugiato" ai sensi della Convenzione di Ginevra suddetta quando soddisfa i criteri enunciati nella definizione sopra riportata. Questa condizione si realizza necessariamente prima che lo status di rifugiato sia formalmente riconosciuto. Di conseguenza, la determinazione dello status di rifugiato non ha l'effetto di conferire la qualità di rifugiato ma constata solamente l'esistenza di detta qualità. Una persona non diventa, pertanto, un rifugiato perché è stata riconosciuta tale, ma è riconosciuta come tale proprio perché è un rifugiato.

L'affermazione, oltre che rilevante in sé, non sembra priva di significato anche sotto il profilo dell'individuazione dell'onere probatorio che caratterizza questa peculiare materia. A tale riguardo né la Convenzione, né la legge n. 39 del 1990, né il relativo regolamento (d.p.r. n. 136 del 1990) stabiliscono regole precise. Soccorrono, in parte, per un verso la stessa definizione del termine "rifugiato" data dal citato art. 1 della Convenzione ("colui che teme a ragione di essere perseguitato per motivi di razza... etc."), nonché il citato comma 5 dell'art. 1 del d.l. 30.12.1989, n. 416, convertito, con modificazioni, nella legge 28.2.1990, n. 39 che, testualmente, recita: "salvo quanto previsto dal comma 3, lo straniero che intende entrare nel territorio dello Stato per essere riconosciuto rifugiato deve rivolgere istanza motivata e, in quanto possibile, documentata dell'ufficio di polizia di frontiera."

La prima considerazione desumibile da tali norme è che il criterio basilare sancito dall'art. 1 della Convenzione (il timore, a ragione, di essere perseguitato) ha, per un verso, una dubbia connotazione soggettiva (il timore di essere perseguitato) ma richiede, per altro verso, una imprescindibile, seppure non stringente, almeno sotto il profilo probatorio, connotazione oggettiva (costituita dall'inciso, a ragione). In favore della non assoluta categoricità di tale connotazione oggettiva (e, quindi, del conseguente "alleggerimento" dell'onere probatorio gravante sull'istante) milita anche il disposto dell'ora ricordato comma 5 dell'art 1 della legge n. 39/1990 il quale, mentre pone l'accento sulla necessità di un'adeguata allegazione (istanza motivata), stempera, invece, l'onere strettamente probatorio posto a carico del richiedente affermando che se la suddetta istanza deve essere motivata, essa deve, però, essere solo "in quanto possibile documentata", ciò che, oltretutto, sembra lasciare aperta, come in tutti i procedimenti officiosi, quanto meno la possibilità di accertamenti disposti dalla competente Commissione e, per gli stessi motivi, anche da parte della autorità giudiziaria in sede di ricorso.

Può dirsi, in conclusione, che se, secondo un principio generale di diritto, l'onere della prova spetta al richiedente, tuttavia, in subiecta materia, accade spesso che il richiedente non sia in grado si sostenere le proprie dichiarazioni con prove documentali o di altro genere: anzi i casi in cui il richiedente può fornire delle prove a sostegno di tutte le sue dichiarazioni costituiscono l'eccezione e non la regola. Nella maggioranza dei casi, infatti, una persona che fugge da persecuzioni arriva sprovvista di tutto e spesso anche senza documenti personali.

Pertanto, quantunque l'onere della prova spetti in linea di principio al richiedente, l'accertamento della valutazione di tutti i fatti rilevanti fanno carico congiuntamente al richiedente e all'esaminatore. In alcuni casi, invero, sarà compito dell'esaminatore utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione per raccogliere le prove necessarie a sostegno della domanda.

Tuttavia, anche questa ricerca indipendente e officiosa potrebbe non essere coronata da successo, come pure talune dichiarazioni potrebbero essere non suscettibili di prova. In tali casi, se il racconto del richiedente appare credibile, anche in base alla notorietà di fatti ed avvenimenti non strettamente personali, a questi bisognerà concedere il beneficio del dubbio a meno di valide ragioni in contrario.

Giova, infine, notare, che i principi ora esposti hanno non soltanto il conforto di autorevole dottrina ma hanno trovato, in buona sostanza, conferma nelle, sia pure poco numerose, pronunce rese, in materia, da parte dei giudici amministrativi prima che l'art. 46, legge n. 40 del 1998 abrogasse l'art. 5, d.l. n. 416 del 1989, convertito con modificazioni dalla legge n. 39 del 1990, abrogazione poi confermata dell'art. 47 del testo unico d.lgs. n. 286 del 1998, così attribuendo al giudice ordinario la giurisdizione in materia. Invero, quanto all'onere della prova facente carico al richiedente, alcuni tribunali amministrativi regionali hanno avuto modo di precisare che è necessario che il richiedente fornisca elementi tali da giustificare la presenza di un ragionevole fondato timore di subire persecuzioni dirette e personali per motivi di cui all'art. 1 della Convenzione in caso di rientro in patria (Tar Lazio, I sez., 20.6.1994, n. 990, Tar, 1994, I p. 2364). È stato anche precisato che l'onere probatorio dovrà essere assolto "compatibilmente con la pochezza di documentazione che un espatrio affrettato e magari clandestino può giustificare", precisandosi, altresì, che la prova, anche indiziaria, potrà essere data "a mezzo di elementi seri, precisi e concordanti, desumibili da documenti testimonianze, dichiarazioni anche dello stesso interessato che consentono di ritenere, in base al comune buon senso e alle circostanze di tempo e di luogo addotte, l'effettiva sussistenza delle suddette persecuzioni politiche" (Tar Friuli Venezia Giulia, 19.5.1993, n. 244, in Tar 1993, I, p. 2538; Tar Veneto, 6.3.1995, n. 417, in Tar, 1995, I, p. 2307). In altra pronuncia ancora si è riconosciuto come il giudizio sull'esistenza dei requisiti per il riconoscimento dello status possa "raramente basarsi su accurate indagini in ordine di affermazioni fatte dallo straniero richiedente, essendo per lo più forzatamente basato su presunzioni logiche ovvero giudizi di verosimiglianza, fondati sulle stesse dichiarazioni dell'interessato" (Tar Friuli Venezia Giulia, 22.12.1993, n. 633, Tar, 1994, I, p. 669).

4. Ciò posto in linea di principio, rileva, in concreto, il collegio che il provvedimento della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato avverso il quale l'odierno reclamante ha proposto il ricorso e che tale riconoscimento gli ha negato si fonda su due considerazioni: 1) che lo [...] ha, comunque, affermato che "dopo l'ingresso del suo partito in Parlamento la sua posizione personale è più sicura"; 2) che "il (suo) desiderio di ottenere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro è assorbente". Entrambi gli argomenti motivazionali sono, invero, contraddittori, illogici e, comunque, infondati.

4.1. Il secondo per l'evidente motivo che il "desiderio di ottenere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro", non esprime altro che il legittimo ed anzi doveroso intento dell'odierno reclamante di procurarsi un lavoro che gli consenta di mantenere se medesimo qui in Italia e, ove possibile, di contribuire al mantenimento della sua famiglia (una moglie ed un figlio) nel suo paese d'origine. Tale legittimo desiderio non costituisce, infatti, il motivo della sua richiesta di avere riconosciuto lo status di rifugiato ma solo una necessaria conseguenza, quale mezzo - una volta ottenuto il riconoscimento - per la sua sopravvivenza in Italia anche a prescindere da ogni assistenza che fosse prevista per i rifugiati e di cui si fa cenno nel comma 7 del citato art. 1 del d.l. 30.12.1989, n.416, convertito, con modificazioni, nella legge 28.2.1990, n. 39. È, comunque, superfluo ricordare che il diritto al lavoro è uno dei diritti fondamentali dell'individuo e non può certo essere motivo di esclusione dello status di rifugiato ed, anzi, vi confluisce non potendo dubitarsi che al rifugiato debba riconoscersi il diritto al lavoro nel paese che lo ospita.

4.2. Ma anche il primo degli argomenti adottati dalla Commissione ministeriale di cui sopra è meritevole di censura in quanto illogico ed infondato. Infatti, la Commissione, pur senza contestare la gravità e la veridicità dei fatti addotti dal richiedente, ha tuttavia negato allo [...] il riconoscimento dello status di rifugiato sulla base della semplice (e semplicistica) considerazione che il predetto ha - da ultimo - affermato che, "dopo l'ingresso del suo partito in Parlamento, la sua posizione personale è più sicura", considerazione questa che non appare condivisibile per almeno tre ordini di motivi.

4.2.1. Il primo discende dal fatto che il concetto di "persecuzione" di una persona a motivo della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad un certo gruppo sociale o delle sue opinioni politiche delineato dall'art. 1, secondo comma, della Convenzione di Ginevra non può, ovviamente, essere limitato alla sola minaccia alla vita ovvero nello stretto ambito dell'incolumità personale del perseguitato e/o dei propri familiari ma si estende ad ogni forma di lotta radicale e spietata che, per i suddetti motivi, incida in maniera penetrante sui diritti fondamentali dell'individuo. Pertanto il riconoscimento dello stesso [...] in ordine ad un diminuito pericolo circa la sua incolumità personale, oltre che esprimere un concetto relativo che non fa cessare, di per sé, lo stato di persecuzione, non significa, comunque, il venir meno di altre forme di violazione dei diritti fondamentali che - esemplificativamente - vanno dalla interdizione a manifestare e praticare il proprio credo religioso, a gravi atti discriminatori derivanti dall'appartenenza ad una razza o gruppo etnico (nella specie il gruppo etnico tamil), a tutte le forme di limitazione delle libertà individuali e collettive da parte del gruppo di potere dominante verso coloro che appartengono, appunto, a gruppi etnici o linguistici diversi e non necessariamente minoritari, a tutte le discriminazioni poste in essere verso gli appartenenti ad un determinato gruppo sociale, a tutte le forme di repressione nei confronti di coloro che hanno opinioni politiche contrarie o di critica alla politica dell'autorità al potere (nella specie lo [...] ha asserito di far parte del partito di opposizione dello J.V.P. - partito liberazione del popolo -), alle restrizioni del diritto di guadagnarsi la vita.

4.2.2. Il secondo motivo discende dalla pregnante considerazione che, per un verso, lo [...], adempiendo al suo onere di allegazione, ha sicuramente fornito ampia ed adeguata motivazione in ordine di fatti e dettagliate circostanze che hanno indotto in lui non soltanto il fondato timore ma la certezza di essere perseguitato (la sua militanza come attivista nel partito di opposizione dello J.V.P. - partito di liberazione del popolo - , le minacce e le violenze a lui ed alla sua famiglia, l'incendio della sua casa, l'uccisione di uno stretto parente militante nel suo stesso partito, la impossibilità di procurare a se ed alla sua famiglia adeguato sostentamento e, per suo figlio, adeguata istruzione etc.). Per contro, la Commissione ha rigettato la richiesta pur senza nulla eccepire in ordine alla completezza ed adeguatezza della, invero, esauriente allegazione dei fatti posti dallo [...] a sostegno della propria istanza e pur senza mettere in dubbio la veridicità di tali sue affermazioni, tanto da non aver ritenuto necessario o utile esperire alcun accertamento d'ufficio (tramite gli organi istituzionali tra cui, ad esempio, l'Ambasciata italiana a Colombo) in ordine alla veridicità di quanto dedotto dall'odierno reclamante. Se a ciò si aggiunge la considerazione che i fatti attendibilmente rappresentati dallo [...] trovano indiretto ed esterno riscontro nella obbiettiva e ben nota situazione politica e sociale del paese di origine di costui (Sri Lanka), è evidente che, in base ai principi sopra esposti e specie in mancanza di ogni contestazione da parte della Commissione, il limitato onere probatorio posto a carico del richiedente deve ritenersi, anche presuntivamente, assolto. Invero, è noto dalla recente storia e dalle cronache che, ormai da molti anni lo Sri Lanka è in preda a spietate e sanguinose lotte e dissidi interni il più grave dei quali (ma non l'unico) è quello che oppone alla maggioranza singalese (74%) la minoranza indù dei tamil (18%), antichi immigrati dall'India che vivono prevalentemente nel nord del paese e che reclamano l'indipendenza con atti di terrorismo e con un esercito irregolare annidato nella penisola di Jaffna. In ogni caso, apparendo il racconto del richiedente credibile anche in base alla notorietà dei fatti ed avvenimenti non strettamente personali ora succintamente esposti, a questi bisognerà concedere il beneficio del dubbio, a meno di valide ragioni in contrario.

4.2.3. Il terzo motivo che induce a ritenere illogico ed infondato il diniego dello status di rifugiato da parte della Commissione consiste nel fatto di avere recepito acriticamente e senza effettuare alcuna verifica il fatto oggettivo costituito dall'ingresso nel Parlamento dello Sri Lanka anche del partito di cui fa parte lo [...]. Invero, recentissime notizie desunte dal sito web ufficiale dell'Ambasciata d'Italia a Colombo (http://www.italianembassy.lk/, scheda informativa per visitatori temporanei, voce: sicurezza) consentono di affermare che la situazione politica e di sicurezza (anche per turisti ed operatori commerciali stranieri) in quel paese non è affatto normalizzata, né sono prevedibili i tempi di un ritorno ad accettabili condizioni di legalità e sicurezza. Si legge, infatti, in tale sito dell'autorità italiana che "le recenti elezioni, tenutesi (in quel paese) il 5 dicembre ultimo scorso hanno visto l'affermazione dell'opposizione. La formazione di un nuovo Governo e l'avvio di un processo di pacificazione con la guerriglia tamil hanno portato un clima di moderato ottimismo nel paese. Dal periodo natalizio è in vigore un "cessate il fuoco" proclamato prima unilateralmente e dal 23 febbraio concordato in un apposito memorandum d'intesa dalle due parti in causa. Sono quindi diminuiti i posti di blocco sia nella capitale che nel resto del paese e sono state riaperte varie strade di collegamento con le zone del nord - est". Ma si aggiunge, però: "è da verificare se e quando le trattative dirette, che inizieranno entro due - tre mesi con l'ausilio della mediazione del Governo norvegese, porteranno ad una effettiva pacificazione, anche perché iniziative del genere in passato sono fallite dopo qualche tempo". Precedono e seguono pressanti inviti a non entrare nel paese salvo che per motivi di lavoro o altra necessità e, comunque, inviti alla massima prudenza, evitando, in ogni caso, alcune zone del paese, ed "evitando di fare uso di autobus locali, di guidare fuori Colombo non accompagnati, di viaggiare nelle ore notturne. A coloro che per motivi di lavoro o per necessità devono recarsi nel paese, si consiglia di contattare anticipatamente e comunque all'arrivo a Colombo l'Ambasciata d'Italia, segnalando la propria presenza ed attenendosi ai suggerimenti indicati o a quelli che di volta in volta potranno essere aggiornati". Viene, infine, elencata una lunga serie di sanguinosi attentati, anche recenti, che hanno fatto, solo negli ultimi due anni, centinaia di morti e feriti anche tra stranieri. Come si vede, dunque, l'oggettiva situazione di instabilità politica di cui il reclamante si dice vittima non è stata ancora affatto superata.

5. In base a tutte le superiori considerazioni ritiene, pertanto, questa Corte di dovere censurare la impugnata decisione della Commissione centrale per il riconoscimento dello stato di rifugiato in capo a [...]e, conseguentemente, riconoscere a quest'ultimo il suddetto stato di rifugiato.

6. Trattandosi di procedimento di volontaria giurisdizione non avente, dunque, natura contenziosa in quanto non postula la composizione di contrapposte posizioni di diritto soggettivo, non può legittimamente configurarsi per posizione di "parte soccombente" tenuta al rimborso delle spese a favore di "altra parte" (vittoriosa) a norma dell'art. 91 c.p.c. (cfr., tra le tante, Cass. 8.5.2001; Cass. 30.3.2001, n. 4706; Cass. 2.10.1997, n. 9636).

P.Q.M.

In accoglimento del reclamo proposto da [...] avverso il decreto del tribunale di Catania in data 7.1.2002 che ha dichiarato inammissibile il ricorso con il quale il predetto aveva impugnato il provvedimento della Commissione centrale per il riconoscimento dello stato di rifugiato emesso in data 14.3.2001 con il quale la suddetta Commissione aveva deciso di non riconoscere all'odierno reclamante tale stato, la Corte riconosce a [...] lo stato di rifugiato. Nulla sulle spese.