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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Tribunale di Monza, ordinanza del 23 gennaio 2003

 
est. Lo Gatto
 

Il giudice, pronunziando nel procedimento n. [...] a carico di [...] arrestato in flagranza del reato di cui all'art. 14 co. 5 ter d.lgs. n. 286/1998 così come modificato dall'art. 13, co. 5 ter e quinquies legge n. 189/2002; sciogliendo la riserva assunta in data 9.1.2003 in ordine alla illegittimità costituzionale della norma sopracitata sollevata dal Pubbblico ministero alla predetta udienza laddove, al comma 5 quinquies prevede l'arresto obbligatorio in caso di flagranza di reato per violazione degli artt. 3 e 13 della Costituzione; sentite le osservazioni del difensore dell'imputato che si è associato, rileva quanto segue.

1) La questione di illegittimità sollevata dal Pubblico Ministero.

La questione sollevata, oltre ad apparire rilevante perché deve trovare concreta applicazione nel presente giudizio, appare anche non manifestamente infondata.

Infatti l'art. 13 della Costituzione, secondo la lettura che ne è stata sempre data dalla Corte costituzionale (si vedano per tutte le pronunce n. 173 del ‘71 e n. 503 dell'89) e dalla Corte di cassazione (ad es. sentenza n. 297 del ‘73), legittima il potere di limitazione della libertà personale da parte dell'autorità di pubblica sicurezza solo in quanto anticipazione e supplenza del potere dell'autorità giudiziaria.

Per questo ai sensi dell'art. 386 c.p.p. la polizia giudiziaria di ogni arresto deve dare immediata notizia al Pubblico ministero, cui deve porre a disposizione l'arrestato al più tardi entro 24 ore; d'altra parte il Pubblico ministero ha il potere/dovere di sindacare immediatamente l'operato della polizia giudiziaria, sia sotto il profilo della legittimità che sotto quello delle esigenze cautelari, ex art. 389 c.p.p. e 121 disp. att. c.p.p.

Nel caso di specie, è invece attribuito alla polizia giudiziaria il dovere di procedere all'arresto - obbligatorio - dell'indagato per un illecito contravvenzionale, cui non può seguire quindi l'applicazione di alcuna misura cautelare (ex art. 272 e segg. c.p.p., ed in mancanza di previsione speciale).

Viene così, in contrasto con l'art. 13 co. 2 Cost., riconosciuto in materia di libertà personale alla polizia giudiziaria un potere autonomo e superiore rispetto a quello di cui dispone l'autorità giudiziaria.

L'art. 14 co. 5 quinquies d.lgs n.286/98 prevede altresì che si proceda con rito direttissimo: con ciò parrebbe risultare limitato il potere/dovere del P.M. di porre immediatamente in libertà l'indagato ex art. 121 disp. att. c.p.p. (infatti nel caso in esame non esercitato), in contrasto con il dovere di controllo dell'operato della P.G. ex art. 13 co. 2 Cost.

Inoltre si viene a creare una ingiustificata disparità di trattamento fra coloro che, indagati per la contravvenzione in questione, possono vedere limitata la propria libertà personale fino ad un massimo di 48 ore, e coloro che, arrestati per reati anche molto più gravi, possono essere comunque rimessi immediatamente in libertà secondo i principi generali.

In particolare è stridente la disparità di trattamento in relazione a quanto previsto dall'art. 13 co. 13 ter d.lgs. n.286/98, che non impone l'arresto obbligatorio dello straniero espulso che rientri nel territorio dello Stato (ed è punito con pena identica a quella prevista per lo straniero che non ottempera all'ordine di allontanarsi), neppure se l'espulsione era stata disposta dall'autorità giudiziaria (delitto per il quale è prevista una pena ben più grave e che consente l'applicazione di misure cautelari).

2) Altre questioni di illegittimità sollevate d'ufficio

Ritiene altresì il giudice di dovere sollevare altre due questioni di illegittimità costituzionale, la prima con riferimento alla fattispecie incriminatrice oggi in contestazione e la seconda relativa al nullaosta all'espulsione che il giudice penale deve rilasciare all'esito del giudizio di convalida.

3) L'illegittimità della fattispecie incriminatrice oggi contestata

L'art. 14 co. 5 ter d.lgs. 286/98 (introdotto dall'art. 13 legge 30 luglio 2002 n. 189) così stabilisce: "Lo straniero che senza giustifìcato motivo si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5 bis è punito con l'arresto da sei mesi ad un anno. In tal caso si procede a nuova espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica".

La norma solleva dubbi di legittimità costituzionale per violazione degli articoli 25 (principio di tassavità), 3 (principio di ragionevolezza), 27 (funzione rieducativa della pena), 13 (libertà personale) e 24 (diritto di difesa), Costituzione.

Il primo dei motivi di contrasto con la Carta Costituzionale sorge per l'estrema indeterminatezza della fattispecie. Infatti, il legislatore non si limita a sanzionare la condotta dello straniero che non ottemperi tout court al provvedimento del Questore, ma la condotta di colui che ponga in essere tale comportamento "senza giustificato motivo".

Invero, nessuna indicazione ermeneutica viene fornita sul significato da attribuire ai "giustificati motivi" che esonerano lo straniero rimasto sul territorio dalla sanzione penale. Nel vuoto legislativo appare quindi concreta la reviviscenza della fattispecie di cui all'art. 7 bis della legge Martelli (decreto legge 30.12.1989 n. 416, convertito, con modificazioni dalla legge 28.2.1990 n. 39) che puniva, con la reclusione da 6 mesi a 3 anni, lo straniero destinatario di un provvedimento di espulsione che non si "adoperava" per ottenere dalla competente autorità diplomatica o consolare il rilascio del documento di viaggio; disposizione che la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima con sentenza n. 34 del 1995.

Invero, l'espressione impiegata dal legislatore nell'art. 14 co. 5 ter cit., in mancanza di parametri oggettivi di riferimento, impedisce di stabilire con precisione quando l'inerzia del soggetto che si sia intesa sanzionare raggiunga la soglia penalmente apprezzabile.

Tale indeterminatezza, da un lato pone il soggetto destinatario del precetto nell'impossibilità di rendersi conto del comportamento doveroso cui attenersi per evitare di soggiacere alla conseguenze della sua inosservanza, tanto più che il precetto è rivolto esclusivamente a stranieri, e, d'altro canto, non consente all'interprete di esprimere un giudizio di corrispondenza sorretto da un fondamento controllabile nella operazione ermeneutica di riconduzione della fattispecie concreta alla previsione normativa.

Per tali ragioni la norma impugnata non è rispettosa del "principio di tassatività della fattispecie contenuta nella riserva di legge in materia penale, consacrato nell'art. 25 della Costituzione" (sent. n. 86 del 1981), rimanendo la sua applicazione affidata all'arbitrio dell'interprete.

Il principio secondo cui appartiene alla discrezionalità del legislatore la determinazione della quantità e qualità della sanzione penale costituisce un dato costante della giurisprudenza costituzionale: non spetta infatti alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, né stabilire quantificazioni sanzionatorie. Tuttavia, come è stato sottolineato soprattutto nella giurisprudenza più recente, alla Corte rimane il compito di verificare che l'uso della discrezionalità legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza.

In particolare, con la sentenza n. 408/89 la Corte ha definitivamente chiarito che "il principio di uguaglianza, di cui all'art. 3, comma 1, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; ... le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere censurato, sotto il profilo della legittimità costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza" (Cfr., nello stesso senso, sentenze Corte costituzionale nn. 343 e 422 del 1993).

La pena di cui all'art. 14 co. 5 ter cit. in relazione ai principi delineati dalla nostra Carta costituzionale, è assolutamente sproporzionata in eccesso: di qui il sospetto di una violazione dell'art. 27, co. 3 Cost., poiché l'irrogazione di pene sproporzionate al grado di effettivo disvalore dei fatti, comprometterebbe la finalità rieducativa della pena.

Il principio di proporzione costituisce per la Corte costituzionale uno dei criteri guida che presiedono allo stesso esercizio della potestà legislativa, vincolando il legislatore nell'attività di predeterminazione del tipo e della misura edittale della pena.

In tal senso si esprime anche quella parte della dottrina secondo cui la minaccia di una pena troppo severa corre il rischio di suscitare "sentimenti di insofferenza nel potenziale trasgressore e alterare nei consociati la percezione di quella corretta scala di valori che dovrebbe riflettersi nel rapporto tra i singoli reati e le sanzioni corrispondenti".

Il giudizio di proporzione tra fatto tipico e sanzione penale viene quindi a costituire "una premessa ineliminabile dell'accettazione psicologica di un trattamento diretto a favorire nel condannato il recupero della capacità di apprezzare i valori tutelati nell'ordinamento" (tale principio di proporzionalità viene quindi a costituire il limite logico-giuridico del potere punitivo dello Stato). In applicazione di questi principi la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittime, come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali giudicando che la loro manifesta mancanza di proporzionalità rispetto ai fatti-reato si traduceva in arbitrarie e ingiustificate disparità di trattamento, o in violazione dell'art. 27, co. 3, Cost.. In particolare, la sentenza n. 343 del 1993 ha affermato che "la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale" provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell'illecito "produce una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall'art. 27, co. 3, Cost., che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione".

Relativamente alla violazione dell'art. 13 Cost., la Corte costituzionale ha affermato in tema di diritti dello straniero sul territorio dello Stato alcuni principi di cui bisogna tener conto. Al riguardo si fa distinzione tra il diritto dello straniero in ordine alla permanenza nello stato italiano ed il suo diritto alla libertà personale in senso stretto, quale diritto inviolabile dell'uomo. Quanto al primo profilo, la Corte costituzionale con la sentenza n. 244 del 1974, ha affermato che "la mancanza nello straniero di un legame ontologico con la comunità nazionale e, quindi, di un nesso giuridico costitutivo con lo Stato italiano conduce a negare allo stesso una posizione di libertà in ordine... alla permanenza nello stato italiano, dal momento che egli può soggiornarvi solo conseguendo determinate autorizzazioni ....". La ponderazione degli svariati interessi pubblici che presiedono a tali determinazioni "spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità alla Costituzione, soltanto dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente irragionevoli".

Quanto al secondo profilo, la stessa Corte, con la sentenza n. 62 del 1994 (che si rifà a quella testé citata) ha peraltro precisato che "quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell'uomo, quale è nel caso la "libertà personale", il principio costituzionale di uguaglianza in generale non tollera discriminazioni tra la posizione del cittadino e quello dello straniero".

Il legislatore, infine, con la fattispecie in esame sembra aver trascurato che il reato di cui all'art. 14 co. 5 ter cit. non consente, in virtù della pena edittale (da sei mesi ad un anno di arresto), l'applicazione di misure coercitive e che, pertanto, nell'impossibilità di presentare (da parte del Pubblico ministero) richieste in tal senso, lo straniero arrestato deve immediatamente essere liberato ai sensi dell'art. 121 disp. att. c.p.p. (udienza di convalida, quindi, con indagato libero, giudizio direttissimo). In questo caso, l'espulsione verrebbe quasi sicuramente a precludere al soggetto la possibilità di difendersi davanti al giudice e di avanzare richiesta dei c.d. riti alternativi, così subordinando la garanzia di difesa di cui all'art. 24 della Costituzione alle esigenze poste alla base del provvedimento di espulsione

Ed infatti la possibilità per lo straniero espulso di rientrare in Italia per partecipare al processo, prevista dall'art. 17 d.lgs. 286/98 diventa, nel caso che ci occupa, inevitabilmente e assolutamente impraticabile.

Per altro verso, questa possibilità si presenta, anche nella generalità dei casi, come del tutto fittizia e illusoria, assolutamente inadeguata a garantire l'esercizio effettivo del diritto di difesa, per di più limitata dall'art. 17 cit. "per il tempo strettamente necessario per l'esercizio del diritto di difesa, al solo fine di partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza".

4) L'illegittimità costituzionale dell'art. 13 del d.lgs. 286/1998

La previsione di cui all'art. 13 co. 3 d.lgs. 286/1998, così come sostituito dalla legge n. 189/2002, dispone che "quando lo straniero è sottoposto a procedimento penale e non si trova in stato di custodia cautelare in carcere, il questore, prima di eseguirne l'espulsione, richiede il nulla osta alla autorità giudiziaria, che può negarlo solo in presenza di inderogabili esigenze processuali valutate in relazione all'accertamento della responsabilità di eventuali concorrenti nel reato o imputati in procedimenti per reati connessi, e all'interesse della persona offesa". Il comma 3 bis a sua volta prevede che "nel caso di arresto in flagranza o di fermo, il giudice rilascia il nulla osta all'atto della convalida, salvo che applichi la misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell'art. 391 co. 5, del codice di procedura penale, o che ricorra una delle ragioni per il quale il nulla osta può essere negato ai sensi del comma 3".

Dalla rigorosa applicazione del disposto di cui al co. 3 bis dell'art. 13 del d.lgs. 286/1998 consegue l'obbligo, per il giudice che ha convalidato l'arresto, del rilascio del nulla osta al questore affinché venga disposta l'espulsione dell'imputato. Espulsione che, nel caso in esame, consisterà nell'accompagnamento dello straniero alla frontiera a mezzo della forza pubblica.

L'imputato, dunque, ove venisse rilasciato il nulla osta dovrebbe essere immediatamente espulso con accompagnamento alla frontiera.

L'art. 17 del d.lgs. n. 286/1998, intitolato "diritto di difesa" dispone, a sua volta, che "lo straniero parte offesa ovvero sottoposto a procedimento penale è autorizzato a rientrare in Italia per il tempo strettamente necessario per l'esercizio del diritto di difesa, al solo fine di partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza. L'autorizzazione è rilasciata dal questore anche per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare su documentata richiesta della parte offesa o dell'imputato o del difensore".

La disciplina richiamata determina infatti un automatismo nel rilascio del nulla osta, al quale consegue la espulsione immediata dello straniero eseguita dal questore mediante accompagnamento alla frontiera.

Tale disciplina contrasta con la possibilità e il diritto (costituzionalmente garantito) per l'imputato di difendersi, e dunque di fare emergere anche ed eventualmente il proprio diritto ad essere nel territorio dello Stato Italiano.

La questione sollevata deve essere ritenuta, pertanto, rilevante sia con riferimento all'art. 10 della Costituzione, e dunque in considerazione della condizione giuridica dello straniero (soprattutto ove vengano in rilievo, a seguito della applicazione della normativa censurata, lesioni di diritti e libertà fondamentali democratiche garantite dalla nostra Costituzione, e ciò nel senso che una immediata espulsione potrebbe portare il soggetto straniero a rientrare in uno Stato dove appunto per la sua condizione personale tali libertà non siano attribuite e garantite), che con riferimento all'art. 24 ( correlato per i motivi che seguono all'art. 111della Costituzione).

Difatti la applicazione rigorosa della disciplina di legge di cui all'art. 13 del d.lgs. 286/1998 comporterebbe una sostanziale e concreta lesione del diritto dell'imputato in un procedimento penale, qualunque sia la nazionalità dello stesso, ad una piena difesa ex art. 24 della Costituzione e ad un giusto processo (con pieno svolgimento delle funzioni connesse alla difesa) ex art. 111 della Costituzione.

In particolare, quanto all'art. 10, occorre considerare come sebbene sia stata per lungo tempo sostenuta la teoria del dominio riservato dello Stato quanto alla gestione della condizione giuridica dello straniero, tuttavia tale principio abbia subito una costante e progressiva erosione in virtù di interpretazione sopravvenuta secondo la quale lo Stato Italiano è tenuto a parificare la condizione giuridica dello straniero a quella dei cittadini tutte le volte che ciò non contrasti con i suoi preminenti interessi.

Tale principio è chiaramente deducibile dalla previsione di cui all'art. 10 comma secondo e comma terzo della Costituzione, che richiama la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo e il diritto all'asilo, con l'unico limite rappresentato dalla impossibilità per lo straniero di esercitare diritti e doveri politici, ovvero situazioni giuridiche strettamente connesse alla qualità di cittadino.

Dalla applicazione di tali principi consegue il riconoscimento del diritto dello straniero a soggiornare nello Stato Italiano sia alle condizioni ordinarie previste dalla legge (per effetto del rilascio del permesso di soggiorno) che in considerazione del riconoscimento di eventuale diritto di asilo (o diritto al ricongiungimento familiare o altre ipotesi previste dalla legge).

Tali principi interpretativi risultano tra l'altro recepiti nell'ordinamento giuridico italiano anche nella previsione di cui all'art. 2 del d.lgs. 286/1998, nonché dall'art. 10 comma 4 d.lgs. 286/1998, secondo il quale le norme sul respingimento alle frontiere e sulla espulsione non si applicano nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l'asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero la adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari.

In tal senso si ritiene rilevante la questione di legittimità costituzionale nel senso che occorra verificare la irragionevolezza di una disposizione che mediante un automatismo "irrazionale" (Corte Cost. 174/1997) impedisce al giudice una verifica del bilanciamento degli interessi coinvolti (ovvero gestione efficace dei flussi di immigrazione clandestina e diritto di difesa e partecipazione dello straniero al processo, anche per fare valere la ricorrenza di diritti tutelati ex art. 10 della Costituzione).

Inoltre si valuta in senso positivo la fondatezza della questione sollevata poiché l'automatismo previsto appare limitativo e avulso dal contesto dei diritti fondamentali del nostro ordinamento, mentre sembrerebbe opportuno riscontrare la necessità o meno che sia il giudice in sede giurisdizionale, sulla base del suo apprezzamento prudente, a distinguere le diverse condotte da sussumere nella astratta previsione di legge (Corte Cost. 24/1989), od eventualmente per assicurare in caso di vuoto normativo adeguata tutela dei diritti costituzionali.

In concreto la previsione di cui all'art. 17 del d.lgs. n. 286/1998 non appare adeguata allo scopo di garantire un pieno diritto di difesa del soggetto straniero oggetto di nuovo provvedimento di espulsione (art. 14 co. 5 ter d.lgs. 286/1998): sembra predisporre una garanzia di difesa meramente formale e non volta a rendere possibile una sostanziale ed effettiva difesa e partecipazione del soggetto straniero imputato al processo.

In tal senso non può non essere rilevato come dalla espulsione con accompagnamento alla frontiera conseguano per lo straniero una serie di effetti onerosissimi e tali da rendere di fatto impossibile la partecipazione dell'imputato al processo e la predisposizione di una valida difesa dello stesso.

Sarà difatti estremamente improbabile che i soggetti arrestati, perché nelle condizioni di cui all'art. 14 co. 5 ter d.lgs. 286/1998 come il S. H., riescano ad essere nelle condizioni economiche e materiali necessarie per ottenere il permesso dal questore, mediante rappresentanza diplomatica e consolare e previa adeguata giustificazione, per rientrare in Italia per il tempo strettamente necessario per l'esercizio del diritto di difesa (concetto questo quanto mai vago e con ciò suscettibile di interpretazioni varie e in senso restrittivo quanto al rientro) o per gli altri incombenti previsti dalla norma; l'interprete della norma non può non considerare le condizioni materiali dei soggetti coinvolti e destinatari della disciplina del presente procedimento, e dunque la oggettiva impossibilità degli stessi, una volta espulsi, di trovare adeguata protezione e tutela nel disposto di cui all'art. 17 del d.lgs. 286/2002 contrariamente a quanto previsto per ogni cittadino o straniero comunitario ai sensi dell'art. 24 e 111 della Costituzione.

Le previsioni costituzionali citate appunto prevedono per l'imputato la possibilità di essere informato nel più breve tempo possibile della natura e dei motivi della accusa elevata a suo carico, di avere a disposizione tempo e condizioni tali da rendere possibile una adeguata difesa, di essere interrogato o rendere dichiarazioni al giudice, di interrogare o fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di riuscire ad acquisire ogni altro mezzo di prova a suo favore.

Né si può ritenere concretamente realizzabile una tale ipotesi per il tramite del mandato espletato dal difensore (molto spesso nominato d'ufficio ai sensi della l. n. 60/2001), che dovrebbe dunque assumersi l'onere di ricercare il soggetto imputato (nella maggioranza dei casi privo di fissa dimora e di mezzi di sussistenza), di predisporre i contatti tra lo stesso imputato e la rappresentanza consolare o diplomatica, di apportare una adeguata motivazione allo scopo del rientro con conseguenti oneri economici (che poi probabilmente andrebbero a gravare in capo allo Stato ove lo straniero goda dei requisiti per accedere al patrocinio a spese dello Stato ex art. 1 comma 6 della legge n. 217/1990 e seguenti modifiche, con ulteriore irragionevolezza evidente quanto all'aumento esponenziale dei costi di un tale procedimento penale).

Ancora occorre evidenziare come la disposizione di cui all'art. 17 si presenti in contrasto, e dunque foriera di equivoci e difficoltà per il destinatario quanto all'esercizio del proprio diritto di difesa, con la previsione di cui all'art. 13 co. 13 come modificato dalla legge 189/2002 secondo il quale "lo straniero espulso non può rientrare nel territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministro dell'interno".

Emerge dunque una disciplina ambigua o comunque contraddittoria con la conseguenza che lo straniero potrebbe trovarsi a chiedere la autorizzazione al questore e poi essere ritenuto in difetto e dunque passibile di nuova e più grave sanzione per non aver richiesto la autorizzazione anche al Ministro dell'interno.

Un'ulteriore previsione di legge vale a rendere non manifestamente infondata a parere di questo giudice la questione sollevata quanto all'automatismo del meccanismo di concessione del nulla osta, dal quale consegue la espulsione con accompagnamento alla frontiera.

L'art. 13 co. 3 quater prevede infatti che "nei casi previsti dai commi 3, 3 bis (caso in esame) e 3 ter, il giudice, acquisita la prova della avvenuta espulsione, se non è ancora stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio, pronuncia sentenza di non luogo a procedere".

La norma sembra quasi prevedere un obbligo per il giudice e per il Pubblico ministero di bloccare l'esercizio della azione penale ove sia stata effettivamente eseguita la espulsione, e dunque una impossibilità per lo straniero arrestato di accedere ad un giusto processo quanto ai fatti contestati con chiara violazione dell'art. 111 della Costituzione, dell'art. 24 Costituzione quanto al diritto di difesa, ed ancora dell'art. 3 della Costituzione in relazione al disposto di cui agli art. 5 co. 4 e 6 della legge n. 848/1955 (ratifica della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali), che appunto prevedono il diritto per ogni persona privata della propria libertà con un arresto a presentare un ricorso davanti ad un tribunale affinchè decida sulla legittimità della sua detenzione, ed ancora il diritto a che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole da parte di un tribunale indipendente e imparziale costituito dalla legge quanto al fondamento di ogni accusa penale.

In sostanza la previsione predetta sembra superare tali principi giungendo tra l'altro a configurare anche una ipotesi di contrarietà alla previsione di cui all'art. 13 della Costituzione ipotizzando un caso di restrizione della libertà personale (arresto obbligatorio) che non trova il suo naturale sbocco nel vaglio giurisdizionale e nell'esercizio della azione penale, che viene invece sostituita da una pronunzia di non luogo a procedere conseguente alla avvenuta esecuzione della espulsione che consegue dal rilascio, obbligatorio e sostanzialmente automatico, del nulla osta da parte della autorità giudiziaria.

La norma predetta poi rivela la sua irragionevolezza e incongruenza, con conseguenti difficoltà applicative e lesione del diritto di difesa, anche in relazione al disposto dell'art. 14 come modificato co. 5 quinquies del d.lgs. 286/1998, il quale prevede che "per i reati previsti ai commi 5 ter e 5 quater è obbligatorio l'arresto dell'autore del fatto e si procede con rito direttissimo. Al fine di assicurare l'espulsione il questore può disporre i provvedimenti di cui al comma 1 del presente articolo".

La scelta del legislatore con la quale si impone la adozione di un anomalo rito direttissimo "obbligatorio" si presenta in contrasto non solo con il principio di uguaglianza come sopra richiamato, ma anche con il diritto di difesa.

La previsione predetta infatti non consente in concreto da una parte l'esercizio della azione penale secondo i canoni ordinamentali generali (il Pubblico ministero ex art. 449 c.p.p. "se ritiene di dover procedere" può presentare direttamente l'imputato in stato di arresto davanti al giudice del dibattimento, cosa che potrebbe anche non accadere ove, acquisite le necessarie informazioni, sentiti i soggetti coinvolti, si renda conto che ricorrono circostanze concrete che possano in effetti far ritenere giustificata la presenza sul territorio dello Stato del soggetto arrestato straniero), e dall'altra un pieno esercizio del diritto di difesa con la conseguente possibilità di svolgere quelle indagini difensive (che trovano poi il loro referente e fondamento normativo nell'art. 111 della Costituzione) che potrebbero condurre la autorità giudiziaria a riscontrare la presenza di una serie di cause giustificative quanto alla imputazione contestata. Quanto osservato evidenzia come la disciplina richiamata si presenti lesiva delle garanzie fondamentali dell'imputato per come sancite dalla Costituzione, situazione certamente aggravata dall'automatismo del meccanismo di concessione del nulla osta e conseguente espulsione dell'imputato.

Ed ancora e a conforto di quanto sopra esposto occorre rilevare come la disciplina di cui all'art. 13 co. 3 quater non appare coordinata con quanto previsto dall'art. 14 co. 3 quinquies in ordine alla eventuale necessità di pronunziare sentenza di non luogo a procedere quando non è ancora stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio.

Appare infatti fuorviante, e certamente crea incertezza, la coesistenza tra questa previsione e la disciplina appena richiamata di rito obbligatorio direttissimo, con la conseguenza che il soggetto straniero imputato ed arrestato si trova a confronto con norme contraddittorie che rallentano la possibilità di un effettivo esercizio del diritto di difesa per come costituzionalmente garantito.

In tal senso e concludendo non può in generale non essere richiamata da questo giudice la irragionevolezza della norma presupposto della disciplina oggetto di questione di legittimità costituzionale; infatti la concessione del predetto nulla osta, in sostanza automatica, consegue alla previsione di una ipotesi di arresto obbligatorio per un reato contravvenzionale (art. 14 co. 5 ter) al quale non potrà mai conseguire alcuna misura cautelare per come previsto dal nostro ordinamento, con l'effetto che l'espulsione dello straniero è una conseguenza necessaria del rilascio sostanzialmente dovuto da parte del giudice del nulla osta con evidente impossibilità per l'imputato di difendersi adeguatamente.

In concreto a fronte di una previsione quanto mai anomala che dispone (contrariamente a quanto in generale previsto nel nostro ordinamento) un arresto obbligatorio per un reato contravvenzionale solo perché reato "proprio" dello straniero, il soggetto arrestato avrebbe avuto maggiori possibilità di difesa ove fosse stata prevista anche la applicazione di una misura cautelare, piuttosto che con l'espulsione immediata con accompagnamento alla frontiera.

Ad ulteriore conforto della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione occorre poi ricordare come secondo il disposto di cui all'art. 13 co. 3 d.lgs. come modificato dalla legge n. 189/2002 "il nulla osta si intende concesso qualora l'autorità giudiziaria non provveda entro quindici giorni dalla data del ricevimento della richiesta" (e conseguentemente dalla data dell'arresto per interpretazione analogica e secondo criteri generali della norma).

Quanto alle finalità della normativa citata, e dunque alla efficace realizzazione dell'allontanamento dei soggetti sottoposti a provvedimento di espulsione, si deve osservare come appare suscettibile di considerazione una normativa con la quale nuove ipotesi di reato a carico degli stranieri vengono ipotizzate senza però apprestare quelle forme minima di tutela e garanzie di difesa che il nostro ordinamento attribuisce ad ogni soggetto sottoposto a procedimento penale.

E dunque si pone il problema di una composizione di interessi e finalità ordinamentali sancite sia nella legge che nei principi costituzionali, e relativi da una parte alla concreta ed efficace gestione dei flussi di immigrazione clandestina e dall'altra alla tutela dell'imputato a partecipare al proprio processo e a predisporre una adeguata difesa.

Tale finalità sarebbe ovviamente frustrata a causa dell'automatismo del meccanismo di concessione del nulla osta previsto e oggetto della odierna censura, considerato altresì che al giudice penale adito con rito direttissimo obbligatorio non è presentata la documentazione relativa al provvedimento di espulsione e di tutti gli atti del procedimento relativo, con la conseguente e oggettiva impossibilità di valutarne la legittimità e di rendere possibile al riguardo l'esercizio un completo diritto di difesa.

Da ciò consegue che l'accertamento del giudice designato si risolverebbe nel mero riscontro della ricorrenza di un provvedimento di espulsione e nella impossibilità di vagliare, quale conseguenza dell'esercizio del diritto di difesa, la esistenza di eventuali elementi e cause di giustificazione quanto alle nuove ipotesi di reato introdotte, con emissione obbligatoria del nulla osta e conseguente espulsione dello straniero arrestato.

P.Q.M.

visti gli artt. 134 Cost. e 23 legge n. 87/53 dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 lettere a) e b) del d.lgs. 286/1998 come modificato dalla legge n. 189/2002, laddove prevede l'arresto obbligatorio dell'indagato con riferimento al reato di cui all'art. 14 co 5 ter, per violazione degli artt. 3 e 13 co. 3 della Costituzione; dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 co. 5 ter legge 189/2002, per irragionevolezza della sanzione e per indeterminatezza della condotta in violazione degli articoli 25 (principio di tassavità), 3 (principio di ragionevolezza), 27 (funzione rieducativa della pena), 13 (libertà personale) e 24 (diritto di difesa) della Costituzione . dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 legge 286/1998 co. 3 bis così come modificato dalla legge 189/2002 laddove prevede il nullaosta del giudice all'espulsione per violazione degli art. 3, 10, 24, 111 della Costituzione; dispone la sospensione del procedimento e la immediata trasmissione degli atti del presente procedimento alla Corte costituzionale; dispone la sospensione di ogni effetto e conseguenza allo stato legato alla emissione del nulla osta nei confronti dell'imputato e dispone che del presente disposto venga data immediata comunicazione alla Questura territorialmente competente; [...].