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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, ordinanza del 21 gennaio 2003

 
est. Renoldi
 

Il magistrato di sorveglianza, visti gli atti del procedimento (omissis) nei confronti di A. P. J. A., nato a Viterbo Caldas (Colombia) il 26 agosto 1977, detenuto nella Casa di reclusione di Isili in espiazione pena di quattro anni, due mesi e venti giorni di reclusione e di 54.000.000 di lire di multa inflitta con sentenza della Corte d'Appello di Milano in data 28 settembre 1991 (omissis), con fine pena al 12 agosto 2004, avente ad oggetto l'espulsione dal territorio dello Stato ai sensi dell'art. 16 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 come modificato dall'art. 15 l. 30 luglio 2002, n. 189;

osserva

Con sentenza della Corte d'Appello di Milano in data 28 settembre 1991, J. A. A. P. è stato condannato - per il delitto di importazione illecita di sostanze stupefacenti (art. 73, comma 1 T.U. 9 ottobre 1990, n. 309) - alla pena di quattro anni, due mesi e venti giorni di reclusione e di 54.000.000 di lire di multa, con inizio pena al 24 maggio 2000 e fine al 12 agosto 2004. La residua pena espianda è pertanto inferiore a due anni di reclusione. Dal complesso delle acquisizioni istruttorie è emerso che il detenuto si trova nelle condizioni di cui all'art. 13, co. 2 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Secondo quanto riferito dalla Questura di Nuoro, infatti, egli è di nazionalità colombiana e non risulta avere mai regolarizzato la propria posizione di soggiorno (v. nota informativa, in atti). Inoltre, non sono stati acquisiti elementi significativi che inducano ad affermare la sussistenza di alcuna delle condizioni ostative all'espulsione previste dall'art. 19 del T.U. delle leggi sull'immigrazione. Per tali motivi, essendo egli stato condannato per un delitto diverso da quelli contemplati dall'art. 407, comma 2, lettera a) cod. proc. pen., ovvero dai delitti previsti dal testo unico delle leggi sull'immigrazione deve ritenersi, conclusivamente, che rimanga perfettamente integrata la fattispecie prevista dall'art. 16, co. 5 e seguenti del T.U. citato, così come modificato dalla legge 189/2002.

Ritiene tuttavia questo Giudice che rispetto alla suddetta fattispecie possa fondatamente ipotizzarsi una censura di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 27, co. 3 e 111 Cost., in relazione ai profili di seguito individuati.

1) Per quanto attiene al ritenuto contrasto con l'art. 27, co. 3 Cost., ovvero con il principio del c.d. finalismo rieducativo della pena, si osserva preliminarmente che l'espulsione prevista dalla disposizione censurata appare sicuramente ascrivibile al novero delle sanzioni penali.

Al riguardo non può ritenersi persuasiva, a parere del remittente, la tesi pur autorevolmente sostenuta (cfr. sent. Corte Cost. 62/1994) secondo cui la fattispecie in esame sia più correttamente ricostruibile come un'ipotesi di sospensione dell'esecuzione della pena: ciò che, all'evidenza, condurrebbe ad escludere che l'istituto debba necessariamente proiettarsi verso una prospettiva di rieducazione del sottoposto.

Sul punto occorre muovere l'analisi ricostruttiva dal riconoscimento della natura, non soltanto sanzionatoria, ma altresì palesemente afflittiva dell'espulsione dal territorio dello Stato.

Circa il carattere di sanzione in senso tecnico, cioè di meccanismo attraverso cui la norma giuridica pone le condizioni per la propria osservanza, esso è del tutto ovvio e non sembra abbisognare di particolari argomentazioni, salvo che per un aspetto che apparirà comunque significativo nel proseguo del discorso: l'espulsione mira a realizzare la tutela dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice attraverso l'allontanamento coatto del soggetto dal territorio dello Stato, così impedendo - o comunque circoscrivendo - il rischio di condotte recidivanti (soddisfacendo, per questa via, un'esigenza di "prevenzione speciale").

Quanto al carattere afflittivo dell'espulsione non pare condivisibile il rilievo secondo cui, accompagnandosi essa ad una sorta di rinuncia all'esecuzione della pena principale, finirebbe per tradursi, concretamente, in una misura di favore, in una sorta di beneficio. Come noto, tale impostazione, è alla base della censura di incostituzionalità per violazione dell'art. 3 Cost. sollevata con le ordinanze di rimessione pronunciate dai Tribunali di Bergamo e di Roma in data 15 luglio e 15 ottobre 1993, con riferimento alla disciplina, ora abrogata, dettata dai commi 12 bis e ter dell'art. 7 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

La tesi ora esposta non sembra tuttavia persuasiva. Pur correttamente prospettabile in relazione alle ipotesi di mera sospensione dell'esecuzione della pena (come, ad esempio, nel caso della sospensione condizionale disciplinata dagli artt. 163 ss. cod. pen.) essa non pare accoglibile in riferimento alla fattispecie che ci occupa.

Al riguardo deve preliminarmente rilevarsi che l'analisi della natura del meccanismo sanzionatorio da essa delineato deve essere compiuto in astratto, cioè in relazione al dato ontologico della sua modalità di esecuzione e degli interessi su cui l'espulsione incide. Diversamente opinando, si giungerebbe all'assurdo di considerare come un beneficio finanche la pena detentiva in tutti quei casi in cui l'ingresso del condannato nel circuito penitenziario lo sottragga ad una condizione di marcata emarginazione socio-ambientale (si pensi al caso, tutt'altro che infrequente e ben conosciuto dagli operatori del settore, in cui l'entrata in istituto finisca per assicurare al detenuto un alloggio, un'alimentazione e un'assistenza sanitaria altrimenti inadeguati).

Proprio l'astratta disamina del meccanismo sanzionatorio conduce ad affermarne l'intrinseca afflittività, atteso che il coattivo accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica (v. l'attuale comma 7 dell'art. 15 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) concretizza, per citare quanto la Corte costituzionale ha affermato nella sentenza n. 105/2001 in relazione alla diversa ipotesi del trattenimento dello straniero nei centri di permanenza, "quella mortificazione della dignità dell'uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all'altrui potere e che è indice sicuro dell'attinenza della misura alla sfera della libertà personale". In altri termini l'afflittività deriva specificamente dalla immediata incidenza dell'espulsione sulla libertà personale, attuata attraverso l'allontanamento coatto dal territorio dello Stato. Ciò che peraltro può comportare la infrazione coattiva del complesso di relazioni socio-ambientali, non tutte necessariamente illecite, poste in essere e magari consolidate da parte dello straniero nel territorio italiano.

Non sembra pertanto condivisibile l'opinione, espressa in occasione delle menzionate ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale, secondo cui l'espulsione possa essere qualificata come un beneficio (sul presupposto che la sua esecuzione favorisce il condannato, ovvero - nel caso che qui interessa - del detenuto, il quale in tal modo si sottrae di fatto all'esecuzione della pena, atteso che dopo il decorso del termine previsto dal comma 8, senza che il soggetto sia rientrato nel territorio dello Stato, essa si estinguerebbe). Anche a voler prescindere dall'evidente assurdità di voler qualificare come misura favorevole un intervento limitativo della libertà personale, dovrebbe in tal caso consentirsi al "beneficiario" di rinunciarvi: ciò che, come si dirà, non avviene nel caso di specie, dovendo il Giudice procedere ex officio. E ad a sostegno della prospettiva qui accolta milita, del resto, la considerazione, che la stessa Corte costituzionale ha evidenziato - nella già citata sentenza n. 64 del 1996, su cui si ritornerà - che a garanzia "di un diritto inviolabile dovrebbe prescriversi che l'espulsione sia ancorata all'iniziativa del condannato". Ciò che all'evidenza ne conferma, conclusivamente, il carattere afflittivo.

Riconosciuta l'afflittività della sanzione dell'espulsione appare necessario procedere alla sua qualificazione dogmatica, non per ragioni di mera esercitazione speculativa, ma perché dal suo esatto inquadramento può conseguire, appunto, la soggezione o meno all'art. 27, comma 3 Cost. ed al principio del finalismo rieducativo.

Sul punto non pare esservi dubbio che ci si trovi in presenza di una sanzione penale. Ciò è evidente nell'ipotesi prevista dal comma 1 dell'art. 16 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. In tal caso, anche a voler prescindere dal dato formale del nomen juris adoperato nella rubrica (ovvero quello di "sanzione sostitutiva" della detenzione), si è in presenza di una conseguenza affittiva che il giudice applica, in esito ad un processo penale, una volta riconosciuta la responsabilità dell'imputato, in sostituzione di una pena detentiva (reclusione o arresto) non superiore ai due anni. E dal momento che l'ipotesi prevista dal successivo comma 5 differisce da quella appena descritta solamente per la fase in cui è emessa (e cioè successivamente al passaggio in giudicato della sentenza) e per l'organo giudiziario competente (nonché, di riflesso, per il tipo di procedimento e di provvedimento che dispone la sanzione), ma non per contenuto e funzione, non vi è ragione di dubitare che essa presenti la medesima natura giuridica di quella.

Orbene, nel nostro sistema giuridico-penale - fondato sul regime del c.d. doppio binario - le sanzioni penali possono essere ricondotte esclusivamente a due tipologie fondamentali, diverse per funzione e per presupposti applicativi: la pena e la misura di sicurezza.

Nel primo caso lo strumento sanzionatorio deve necessariamente orientarsi, come noto, verso una prospettiva di rieducazione del condannato (e quindi di acquisizione, da parte dello stesso, del senso del disvalore della condotta di reato e, al contempo, del senso del valore attribuito dall'ordinamento all'interesse tutelato dalla norma incriminatrice).

Nel secondo caso, l'afflizione (realizzata attraverso una limitazione dei diritti di libertà, o patrimoniali, del sottoposto) è invece esclusivamente finalizzata a circoscrivere il rischio di nuovi episodi di reità da parte di un soggetto socialmente pericoloso.

Ogni sanzione penale deve necessariamente essere ricondotta a questi due paradigmi. In caso contrario si consentirebbe al legislatore di eludere i vincoli posti dalla Costituzione in materia di pene e di misure di sicurezza (posti, ad esempio, dall'art 25 Cost.) attraverso una sorta di "truffa delle etichette" realizzata con la previsione di un tertium genus di sanzioni penali atipiche comunque incidenti sulla libertà personale.

Tanto premesso non sembra realisticamente ipotizzabile un inquadramento della fattispecie in esame nel novero delle misure di sicurezza (nel cui catalogo sono peraltro previste, come noto, alcune ipotesi di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato); soluzione che pure rappresenterebbe - a parere di questo giudice - l'unica opzione ricostruttiva idonea a renderla compatibile con il vigente assetto costituzionale.

L'esclusione di una siffatta ipotesi esegetica si impone, infatti, in considerazione dell'assenza di un qualsiasi riferimento all'accertamento della concreta pericolosità sociale del soggetto, ora assolutamente necessaria - a mente dell'art. 31 legge 10 ottobre 1986, n. 663 - ai fini dell'applicazione di ogni misura di sicurezza. Sarebbe inoltre del tutto irragionevole, in rapporto alla funzione tipica di questa categoria di sanzioni penali, che l'espulsione sia obbligatoria per i reati più lievi e non sia, invece, consentita per i reati più gravi, tendenzialmente rivelatori di una maggiore pericolosità del colpevole.

Consegue all'analisi che precede che l'espulsione prevista dall'art. 16 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 sia qualificabile necessariamente come pena: ciò che ulteriormente conduce a ritenere indispensabile la sua conformità al principio posto dall'art. 27, comma 3 Cost.; conformità che - per le ragioni più sopra esposte - deve, al contrario, ragionevolmente escludersi.

Non sarebbe conferente opinare, al riguardo, che la tesi ora accolta, escludendo ontologicamente la compatibilità tra la pena dell'espulsione ed il principio rieducativo, porterebbe ad escludere tout court la possibilità di conservare la fattispecie in esame nel nostro sistema penale. Al contrario, deve rilevarsi che il legislatore ben potrebbe congegnare l'espulsione come misura di sicurezza, ancorando - beninteso - l'applicazione della sanzione al presupposto-cardine dell'attuale pericolosità sociale del condannato.

2) Nell'applicazione dell'art. 16 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 sorge, inoltre, un dubbio di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 2 Cost., rispettivamente sotto il profilo della ragionevolezza delle scelte del legislatore nella previsione del meccanismo di espulsione e dei relativi presupposti, nonché sotto il profilo della lesione dei diritti inviolabili della persona umana riconosciuti e garantiti dalla Repubblica italiana.

Sul punto, giova senz'altro rilevare - come già ricordato - che la Corte costituzionale ha già avuto modo di prendere in considerazione, in particolare con la sentenza n. 62 del 1994, la questione suddetta in relazione alla fattispecie, ora abrogata, prevista dai commi 12 bis e ter dell'art. 7 T.U. 286/98.

In tale occasione il Giudice delle leggi, dopo aver escluso che il principio di rieducazione venga in considerazione quando, come nel caso dell'espulsione, non si faccia luogo all'applicazione della pena, sibbene alla sua mera sospensione, ha ribadito la legittimità di un sindacato sulla (eventuale) manifesta irragionevolezza della scelta del legislatore di rinunciare alla attuale applicazione della pena. E a tale proposito la Consulta ha precisato che, affinché una scelta siffatta possa ritenersi come non irragionevole vi è comunque la necessità che possa (ragionevolmente) presumersi che la parte di pena espiata abbia già raggiunto (in caso di pena residua) la finalità rieducativa richiesta dalla Costituzione, ovvero (in caso di pena non ancora iniziata) che tale finalità non è necessaria. Una siffatta valutazione, ha continuato la Corte costituzionale, non può ovviamente prescindere dall'acquisizione di adeguate informazioni degli organi di polizia, ma anche - si può ragionevolmente pensare, pur in assenza di un'espressa indicazione in tal senso da parte della Consulta - di ogni elemento utile ai fini del giudizio sulla personalità (e quindi, conseguentemente, ai fini dell'accertamento circa la necessità di un'effettiva rieducazione).

Tanto premesso, occorre muovere dalla considerazione che il meccanismo dell'espulsione ora in esame si fonda su un mero automatismo: una volta accertata la sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma, il giudice deve espellere il detenuto senza avere alcuna alternativa. Ne consegue che al fine di ritenere compatibile la disciplina descritta con il principio di rieducazione sarà necessario ipotizzare che il legislatore abbia formulato una presunzione assoluta di avvenuta rieducazione del detenuto.

Orbene, anche a voler prescindere dalla circostanza che la stessa previsione di una presunzione assoluta appare evidentemente confliggere con l'esigenza di consentire al giudice la concreta valutazione dell'avvenuta rieducazione del condannato, imposta propria dalla giurisprudenza costituzionale, giova altresì rilevare che una siffatta presunzione, tuttavia, non appare fondata su alcuna massima di esperienza verificabile, non ravvisandosi alcuna plausibile giustificazione al fatto che il detenuto non sia "bisognevole" di trattamento rieducativo per il solo fatto che la pena espianda sia inferiore ai due anni di detenzione.

Tale rilievo induce a ritenere l'irragionevolezza della scelta legislativa, tenuto conto del fatto che ove si consentisse al Parlamento di costruire delle presunzioni insuperabili non fondate su una attendibile regola di esperienza, la scelta legislativa diverrebbe logicamente inattaccabile e, come tale, sottratta a qualunque tipo di controllo. Del resto questa esigenza è stata debitamente rappresentata dalla stessa Corte costituzionale allorché, sia pure nella diversa materia tributaria ha precisato che "se è pur lecito formulare previsioni logicamente valide e attendibili, non è peraltro consentito trasformare tali previsioni in certezze assolute, imperativamente statuite senza la possibilità che si ammetta la prova del contrario" (C. Cost. 28 luglio 1976. n. 200).

Né appare in alcun modo giustificabile che una siffatta presunzione possa essere legittimamente circoscritta nei confronti dei soli extracomunitari non aventi titolo di soggiornare nel territorio italiano, a meno di ipotizzare un'irragionevole presunzione secondo cui nei confronti di tali soggetti la rieducazione sia, per qualche oscura ragione, più celere.

Inoltre, equiparandosi, in virtù della descritta presunzione, situazioni potenzialmente diverse - quali ad esempio, quella del detenuto la cui condotta penitenziaria sia stata pessima, e quella, opposta, di chi abbia fruttuosamente seguito il percorso rieducativo - viene all'evidenza violato il principio di uguaglianza.

L'irragionevolezza della fattispecie in esame emerge altresì nitidamente dal divieto di procedere all'espulsione con riferimento ai gravi reati previsti dall'art. 407, comma 2, lett. a) cod. proc. pen. nonché dall'obbligo di disporla per tutti gli altri reati (salvo il rispetto dei già ricordati limiti di pena). Per questa via, mentre nell'ipotesi di condanna per detenzione a fini di spaccio di modeste quantità di sostanza stupefacente l'espulsione è necessitata, viceversa qualora il quantitativo detenuto fosse addirittura ingente (nell'ipotesi delineata dall'art. 80, comma 2 T.U. 9 ottobre 1990, n. 309) l'espulsione in fase esecutiva sarebbe invece preclusa. E qualora, peraltro, il magistrato di sorveglianza dovesse ritenere, a pena espiata, che il condannato non sia persona socialmente pericolosa (ad esempio, per avere egli acquisito una valida opportunità lavorativa o potendo essere inserito in valido tessuto socio-ambientale idoneo al suo reinserimento) non potrebbe neanche farsi luogo all'espulsione ex art. 86 T.U. stupefacenti. Rimane così dimostrata l'irragionevolezza di una disciplina che da un lato prevede il divieto di applicazione di una sanzione afflittiva per alcuni gravi reati e che dall'altro lato obbliga invece il giudice ad applicarla nelle ipotesi più lievi in aggiunta alla residua pena detentiva (che verrà integralmente espiata in caso di rientro nel termine di dieci anni).

Per quanto attiene, infine, al profilo del ritenuto contrasto con l'art. 2 Cost. è già stato rilevato che la natura officiosa del procedimento di applicazione è chiaramente in contrasto con l'esigenza - già rappresentata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 62 del 1994 - che sia previsto, a garanzia "di un diritto inviolabile", l'impulso della parte privata.

3) Le censure di incostituzionalità si estendono altresì, a giudizio del remittente, sul procedimento di applicazione della "sanzione alternativa alla detenzione" in relazione all'art. 111, co. 1 e 2 Cost..

A questo riguardo giova preliminarmente rilevare che il procedimento delineato dai commi 5 e ss. dell'art. 16 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 ha natura sicuramente giurisdizionale - avendo ad oggetto l'applicazione, da parte di un giudice ed in sostituzione di una pena detentiva principale, di una sanzione penale - e come tale deve ritenersi riconducibile all'alveo del comma 1 dell'art. 111 Cost., a mente del quale "la giurisdizione di attua mediante il giusto processo regolato dalla legge". Anche il procedimento di espulsione in fase esecutiva, pertanto, deve conformarsi - analogamente ad ogni altro procedimento giurisdizionale - ai principi del c.d. giusto processo, i cui caratteri essenziali ed imprescindibili affinché detto procedimento possa considerarsi conforme al dettato costituzionale, sono indicati dal comma 2 dell'art. 111 Cost., laddove si statuisce che "ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale". Nessun argomento contrario potrebbe trarsi dal mero dato letterale, rinvenibile nel predetto enunciato normativo, laddove viene fatto riferimento alla nozione di "processo"; nozione che se intesa in una stretta accezione processualpenalistica dovrebbe essere circoscritta a quella fase del processo di cognizione (cioè diretto all'accertamento della responsabilità penale dell'imputato) che si incardina successivamente all'esercizio dell'azione penale e che si conclude con la sentenza di condanna o di proscioglimento. Questa ipotesi ermeneutica, che comporterebbe - ad esempio - l'esclusione dall'ambito della norma anche del procedimento di sorveglianza e di quello di esecuzione, contrasta tuttavia con un insuperabile dato sistematico: il secondo comma dell'art. 111 Cost. riprende il termine di "processo", già adoperato dal primo comma nella locuzione di "giusto processo" che, come detto, compendia in termini sintetici i caratteri indefettibili della giurisdizione, cioè di ogni procedimento giurisdizionale.

Consegue alla prospettazione ora accolta che un carattere essenziale di ogni procedimento penale, ivi compreso quello in esame, va necessariamente rinvenuto nel principio del contraddittorio. Detto principio presenta una duplice connotazione funzionale, oggettiva e soggettiva. Esso si configura, in primo luogo, come fondamentale strumento di conoscenza del giudice (profilo oggettivo) in quanto prezioso collettore di elementi e circostanze giuridico-fattuali potenzialmente significativi ai fini della decisione.

La funzione del contraddittorio, peraltro, non si esaurisce in un'esigenza, per così dire, meramente "efficientistica" (nel senso di favorire una decisione qualitativamente migliore, ossia "più giusta") ma è strumentale al soddisfacimento dell'interesse delle parti del procedimento a rappresentare compiutamente il proprio punto di vista ai fini del perseguimento delle diverse istanze di cui esse sono portatori (c.d. profilo soggettivo). Per questa via, ad esempio, la facoltà dell'imputato di contraddire i testi dell'accusa non sarà finalizzata, esclusivamente, a fornire degli elementi utili per l'acquisizione di una verità processuale quanto più vicina possibile alla verità storica, migliorando in tal modo la qualità della decisione del giudice, ma risponderà - ovviamente - soprattutto all'esigenza della parte privata di tutelare adeguatamente il proprio interesse a difendersi dall'accusa di aver commesso un reato. In quest'ultima prospettiva, il contraddittorio è quindi funzionale a garantire il diritto a confrontarsi con l'altra parte. A tale riguardo, deve peraltro sottolinearsi che sebbene la genesi storica della modifica dell'art. 111 Cost. vada sicuramente ricondotta alla necessità di rafforzare i poteri processuali dell'imputato, non può tuttavia dubitarsi che il principio del contraddittorio sia funzionale anche alla tutela delle prerogative processuali del Pubblico ministero cui deve necessariamente consentirsi di esplicare, in condizioni di parità con la difesa, ogni attività procedimentale finalizzata a soddisfare gli interessi istituzionali tipici della propria funzione giudiziaria: il rappresentare l'accusa nel processo di cognizione, ma anche, in ogni altro procedimento penale, l'esercizio del controllo di legalità sull'attività del giudice ex art. 73 Regio Decreto n. 12/1941 (a mente del quale "Il pubblico ministero veglia alla osservanza delle leggi").

Peraltro, e ad ulteriore conferma dell'indefettibilità del contraddittorio, giova rilevare che anche nei casi in cui il vigente sistema processuale sia civile che penale prevede che la decisione possa essere assunta senza contraddittorio (è il caso, ad esempio, dei procedimenti monitori per decreto ingiuntivo e per decreto penale di condanna) essa decisione viene comunque assunta solo provvisoriamente fino all'esito dell'eventuale procedimento di opposizione nel corso del quale il contraddittorio verrà pienamente reintegrato.

A questo riguardo, l'analisi anche sommaria del procedimento delineato dall'art. 16 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 evidenzia come il contraddittorio patisca un vulnus del tutto incompatibile con il dettato costituzionale. E' infatti evidente, che per un verso risulta violata l'esigenza immanente al profilo oggettivo del contraddittorio, atteso che pur in presenza di un potere ex officio del Magistrato di sorveglianza, non rimane comunque soddisfatta l'esigenza di implementare - attraverso la prospettazione delle parti - l'acquisizione degli elementi necessari ai fini di una decisione più consapevole; per altro verso è di tutta evidenza come il profilo soggettivo non venga adeguatamente garantito. A quest'ultimo proposito, va infatti evidenziato che il comma 6 dell'art. 16, limitandosi a prevedere la facoltà di adire il Tribunale di sorveglianza in capo al solo detenuto, non consente al Pubblico ministero di esercitare pienamente quelle attività procedimentali necessarie ai fini del perseguimento delle sue attribuzioni istituzionali, in particolare del controllo di legalità. Se per un verso, infatti, il Pubblico ministero può interloquire in ordine alla legittimità dell'espulsione davanti al Tribunale di sorveglianza adito dal detenuto, per altro verso, qualora il condannato non abbia nessun interesse all'impugnazione (ad esempio perché il procedimento ha tratto l'abbrivio da una sua istanza), il Pubblico ministero si vedrebbe precluso ogni spazio di intervento, non fosse altro in quanto non è previsto alcun obbligo di comunicazione alla Procura e perché l'eventuale ricorso per Cassazione - da ritenersi verosimilmente ammissibile ex art. 113 Cost. vertendosi in materia de libertate - non sospenderebbe l'esecutività del decreto, una volta decorsi i termini di cui al comma 6.

Consegue alla ricostruzione accolta che qualora, per assurdo, il Magistrato di sorveglianza espellesse un detenuto condannato all'ergastolo non vi sarebbero strumenti processuali idonei a consentire al Pubblico ministero di esercitare tempestivamente il controllo di legalità. Con il che la violazione dell'art. 111, comma 1 e 2 Cost. deve ritenersi quantomeno non manifestamente infondata.

Per quanto poi attiene alla rilevanza della questione non sembra potersi sostenere che, non concernendo immediatamente il contenuto della decisione del giudice in quanto inerente al profilo dell'eventuale reclamo del Pubblico ministero, essa sarebbe del tutto irrilevante. Anche a prescindere dal fatto che il concetto di rilevanza accolto in alcune pronunce della Corte costituzionale (cfr. ex plurimis la sentenza n. 148/83) afferisce alla pertinenza dei dati normativi coinvolti nella decisione de qua e che l'eventuale accoglimento della questione da parte della Consulta produrrebbe sicuramente i suoi effetti sulla disciplina applicabile al presente procedimento (ciò che induce a ritenere sussistente la rilevanza della questione anche in riferimento ai profili indicati ai nn. 1 e 2 della presente ordinanza), è appena il caso di sottolineare che il momento immediatamente antecedente rispetto alla decisione del Magistrato di sorveglianza appare come il limite estremo oltre il quale la questione potrebbe non essere più sollevabile, atteso che sia l'impugnazione da parte del detenuto e sia, di riflesso, il procedimento di secondo grado rappresentano ovviamente una mera eventualità, in assenza della quale la lesione del contraddittorio non potrebbe essere eccepita.

4) Per le ragioni più sopra esposte gli atti devono essere inviati alla Corte Costituzionale e il procedimento deve essere sospeso in attesa delle determinazioni del giudice delle leggi.

P.Q.M.

Visti gli articoli 23 ss. l. 11 marzo 1953, n. 87, 13, 16 e 19 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, così come modificato dalla l. 30 luglio 2002, n. 189, 2, 3, 27, co. 3, 111 Cost..

ordina

la trasmissione degli atti del presente procedimento alla Corte Costituzionale, disponendone la sospensione in attesa della decisione della Corte (omissis).