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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Tribunale di Pordenone, decreto del 14 agosto 2003

 
est. Zaccardi
 

Sul ricorso ex art. 13 comma 8 d.lgs. 286/1998, proposto da [...], nato a Tirana il 7.8.1974, contro il decreto di espulsione con accompagnamento alla frontiera, emesso dal prefetto della provincia di Pordenone e notificato all'interessato il 3.6.2003.

Fatto

Con ricorso depositato il 2.8.2003, [...], cittadino albanese, ha chiesto annullarsi, previa sospensione, il decreto di espulsione adottato nei suoi confronti dal prefetto della provincia di Pordenone e notificato al medesimo opponente il 3.6.2003. Il ricorrente ha premesso di essere entrato in Italia nel 1993, di avere riportato una condanna (in contumacia), pronunciata dal tribunale di Teramo, sezione distaccata di Giulianova il 29.9.1999, alla pena della reclusione di mesi nove e di vecchie lire 300.000 di multa, pena non sospesa (fatti del 23.10.1995); di essere stato, in corso di espiazione, affidato al servizio sociale con ordinanza del tribunale di sorveglianza di Udine del 12.3.2002, nonché che il magistrato di sorveglianza di Udine, con provvedimento del 10.4.2002, aveva autorizzato lo stesso Vehbi ad uscire dalla propria abitazione per recarsi sul luogo del posto di lavoro. La difesa dell'opponente ha poi prodotto copia dell'attestato, rilasciato dall'amministrazione penitenziaria in data 11.1.2003, dal quale si evince la cessazione del periodo di pena e la conclusione dell'affidamento. Il procuratore del Vehbi, poi, ha rilevato come il fatto, per il quale l'attuale ricorrente era stato condannato, fosse di lieve entità, trattandosi di un furto di buste di plastica contenenti abiti usati. Dal momento della commissione del reato, 23.10.1995, poi, è trascorso un lungo lasso di tempo, durante il quale il cittadino albanese, lungi dal perpetrare altre condotte illecite, ha tenuto una condotta ineccepibile, procurandosi un impiego regolare, stipulando un contratto di locazione, debitamente registrato, per un alloggio (di soggiorno, due camere e servizio oltre accessori) adibito ad abitazione propria e della famiglia (composta da madre, padre e fratello). Infine, la procuratrice dell'opponente ha dedotto che questi sarebbe in procinto di sposarsi con Letizia Casiello, cittadina italiana, recentemente divorziata con sentenza per la quale si sarebbe in attesa dell'annotazione allo stato civile (incombente che condiziona l'effettuazione delle pubblicazioni di matrimonio).

Tutto ciò esposto, il ricorrente ha aggiunto che, a causa della sopra menzionata condanna penale, la questura di Pordenone ha rigettato l'istanza di rinnovo di permesso di soggiorno, con atto notificato il 12.3.2003 ed impugnato al competente tribunale amministrativo regionale per il Friuli Venezia Giulia e che il prefetto, fondandosi su tale rigetto, ha espulso lo stesso Vehbi con decreto del 3.6.2003, eseguito con accompagnamento alla frontiera.

La difesa dell'opponente ha censurato il provvedimento espulsivo, essenzialmente, per illegittimità derivata da quella che vizia il rifiuto di rinnovo del permesso di soggiorno. In proposito, le doglianze contro l'atto presupposto si riferiscono: a) alla violazione dell'art. 8 Convenzione Europea dei Diritti dell'uomo, perché l'autorità amministrativa avrebbe sacrificato illegittimamente il diritto all'unità familiare, senza procedere ad una valutazione di comparazione tra le esigenze di protezione sociale dello Stato e quelle individuali del ricorrente medesimo: b) all'ulteriore violazione del diritto all'unità familiare, poiché gli atti censurati precluderebbero il matrimonio con la cittadina Casiello Letizia.

Il Prefetto è comparso, per tramite di funzionario della questura, il quale si è richiamato ad una nota del 14.4.2003 della questura di Pordenone, ufficio immigrazione, diretta all'Avvocatura distrettuale di Stato ed ha ribadito il carattere di atti dovuti, proprio sia del rifiuto di permesso di soggiorno, sia del decreto di espulsione.

Nella camera di consiglio del 7.8.2003, sentite le parti, ciascuna come sopra rispettivamente rappresentata, il giudice si è riservato.

Motivi della decisione

Preliminarmente deve rilevarsi la pregiudizialità, rispetto al presente procedimento, del giudizio dinanzi al T.A.R., avente ad oggetto il ricorso proposto dal Vehbi avverso il rigetto del rinnovo del permesso di soggiorno.

Le censure mosse dall'attuale opponente contro il provvedimento espulsivo, si appuntano, in realtà contro l'atto presupposto, lamentandosi l'illegittimità di quello consequenziale, costituente oggetto del presente gravame, soltanto in via derivata dai vizi che inficiano il provvedimento in tema di soggiorno. In tale situazione, appare evidente come, nell'iter logico che deve condurre alla decisione sul ricorso avverso l'espulsione, si debba previamente valutare la legittimità del rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno. Sussistono quindi i presupposto per disporre la sospensione del presente giudizio.

Tale provvedimento non preclude l'esame dell'istanza cautelare avanzata dall'opponente, il quale domanda la sospensione del decreto impugnato.

Secondo la giurisprudenza, anche di questo tribunale, infatti, nel corso del procedimento di cui all'art. 13 d.lgs. 286/98 è consentito al giudice di adottare i provvedimenti cautelari atipici di cui all'art. 700 c.p.c., idonei ad evitare che la parte che domanda giustizia sia pregiudicata dalle more del processo. Deve quindi procedersi all'esame dei presupposti per la concessione dell'invocata sospensione.

Manifesto è il pericolo di un pregiudizio grave ed irreparabile, poiché il ricorrente è stato già accompagnato alla frontiera e, in tale situazione, oltre all'allontanamento dal nucleo familiare insediato nel nostro territorio, appare esposta a rischio anche il mantenimento del posto di lavoro.

Venendo al requisito della probabile fondatezza del ricorso, va considerato da accogliere, compatibilmente con la natura sommaria dell'accertamento consentito in fase cautelare, del primo motivo di gravame, con il quale si lamenta il sacrificio dell'interesse all'unità familiare del ricorrente, effettuato dall'autorità amministrativa senza una previa comparazione tra gli interessi pubblici affidati all'amministrazione degli Interni e quelli individuali dell'opponente.

In proposito la parte resistente, nel negare il rinnovo del permesso di soggiorno, ha fatto applicazione dell'art. 4, comma 3, ultimo periodo del d.lgs. 286/98, come modificato dall'art. 4 legge 30.7.2002 n. 189, a norma del quale "...Non è ammesso in Italia lo straniero... che risulti condannato ... per reati previsti dall'art. 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale". In altri termini, in presenza di una condanna definitiva per furto, delitto incluso tra quelli di cui all'art. 380 c.p.p., automaticamente si dovrebbe rigettare l'istanza di concessione del rinnovo del permesso di soggiorno. La prefettura, quindi, sposa la tesi della vincolatività dell'atto di diniego, a fronte del semplice accertamento del presupposto di fatto.

Ritiene il giudice che tale interpretazione non possa essere condivisa. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, innovando ad un precedente orientamento (sentenza 28.5.1985, fra le altre) più incline al riconoscimento della possibilità degli stati aderenti di tutelare appieno le proprie istanze di protezione sociale, ha affermato, nella pronuncia 2.8.2001, richiamata da entrambe le attuali parti, che i provvedimenti di espulsione degli stranieri sono legittimi solo allorché si tratti di misure che, in una società democratica, siano essenziali per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere economico del paese o per la prevenzione dei reati. Seguendo il ragionamento della Corte, l'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, impone all'autorità pubblica di valutare se l'adozione dell'interferenza nella vita (e nella sfera degli interessi primari) dell'individuo sia indispensabile per la tutela dei fini propri dello Stato sopra menzionati. E, appare evidente, lo stesso giudizio deve compiersi in tema di soggiorno, atteso il rapporto sopra illustrato tra atto di rifiuto del permesso di soggiorno (o del suo rinnovo) ed espulsione, provvedimenti avvinti da un nesso di consequenzialità e dalla funzionalità di protezione, comune ad entrambi, dei medesimi interessi statali, afferenti alla disciplina dell'ingresso, della permanenza e dello stabilimento degli stranieri (non comunitari) in Italia.

Ora, quanto all'efficacia, nell'ordinamento giuridico interno, dell'art. 8 menzionato, si richiama l'indirizzo della Corte di cassazione (sez. I, sentenza 8.7.1998 n. 6672, sez. unite, sentenza 6.5.2003 n. 6853), secondo il quale le norme contenute nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in quanto recepite dalla legge di esecuzione, da questa derivano la propria forza normativa di rango legislativo primario. Anzi, nel sistema delle fonti, la legge contenente l'ordine di esecuzione si qualifica come fonte atipica (dotata, cioè, di una forza attiva e passiva diversa, nella specie maggiore, rispetto a quella propria delle fonti appartenenti allo stesso tipo, ossia delle leggi formali e degli atti aventi valore di legge); dalla predetta atipicità, la Corte di cassazione ha tratto la conseguenza, a giudizio del tribunale ineccepibile sul piano della teoria delle fonti, che la legge successiva italiana non è dotata di capacità di innovare l'assetto normativo introdotto con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Non può, in conclusione, la legge nazionale contenere modifiche od abrogazioni della disciplina che lo Stato si è data in attuazione dei propri obblighi internazionali.

Dalla particolare natura della legge di esecuzione e dall'efficacia delle norme da questa poste, si devono trarre alcune inevitabili conclusioni: a) ove il d.lgs. 286/1998 avesse inteso regolare diversamente (rispetto alla Convenzione europea) il regime del diritto all'unità familiare, in assenza di una modifica pattizia alla Convenzione, le norme di produzione nazionale e derivazione non pattizia, non sarebbero dotate di effetto abrogante, ponendosi, in buona sostanza, in situazione analoga a quella che ricorre allorché il legislatore interno torni a disciplinare rapporti già attratti nell'orbita della disciplina comunitaria esecutiva; b) il giudice, il quale rilevasse un conflitto tra la legge di esecuzione della Convenzione ed il d.lgs. 286/98, dovrebbe applicare senz'altro la prima, senza nemmeno sollevare questione di legittimità costituzionale, posto che, come rilevato, la norma successiva statale risulterebbe inuliter data; c) ove l'interprete si imbattesse in disposizioni del d.lgs. 286/98 di dubbia interpretazione, tali, cioè da ingenerare il quesito circa la sussistenza di contrasti con il regime della Convenzione, dovrebbe optare per una soluzione esegetica orientata secondo il rispetto della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Nella fattispecie, ritiene questo giudice che ricorra la terza ipotesi.

La disposizione dell'art. 4 comma 3 ultimo periodo d.lgs. 286/98, nel testo vigente, recita sì che "...Non è ammesso in Italia lo straniero... che risulti condannato ... per reati previsti dall'art. 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale", ma tale formulazione della disposizione, per il semplice dato di fatto di essere espressa con l'indicativo presente, non può bastare a connotare in termini di vincolatività l'operato dell'autorità amministrativa. Il modo ed il tempo del verbo usato, infatti, costituiscono elementi neutri al fine di qualificare il potere come discrezionale o vincolato. Allo scopo di tale qualifica, assume rilievo decisivo, semmai, l'impegno internazionale assunto con la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, recepito con legge di esecuzione del Trattato, avente, si ripete, valore di fonte legislativa atipica, ossia insuscettibile di abrogazione in assenza di modifiche (tra stati) alla Convenzione o di altri meccanismi, di diritto internazionale, in virtù dei quali l'Italia possa dirsi non più obbligata sul piano internazionale (al riguardo potrebbero avere effetto, ad esempio, l'invocazione della clausola rebus sic stantibus o la denunzia della Convenzione).

Peraltro, proprio l'art. 4 comma 3, letto nella sua completezza ed unitarietà, mostra la consapevolezza del legislatore dell'esigenza di rispettare gli obblighi internazionali, laddove contiene, nel primo periodo, la clausola di assoggettamento delle regole interne sul soggiorno "all'...armonia con gli obblighi assunti con l'adesione a specifici accordi internazionali..." (ed è appena il caso di osservare che la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, seppur plurilaterale ed aperta, è pur sempre una fonte particolare e non generale del diritto internazionale, quindi un accordo specifico ai sensi della norma).

Per i motivi esposti, non può dubitarsi che l'autorità amministrativa, chiamata ad applicare la norma interna in tema di soggiorno od espulsione, la quale esclude il diritto alla permanenza in Italia dello straniero che abbia riportato una condanna per uno dei reati di cui all'art. 380 c.p.p., non può astenersi dal procedere ad una valutazione di comparazione tra gli interessi statali connessi alla regolazione dei flussi di ingresso ed alla permanenza degli stranieri, da una parte, i bisogni e le esigenze individuali dell'interessato dall'altra.

Nella fattispecie in esame, poi, un'ulteriore ragione giuridica imponeva alla prefettura (in sede di espulsione ed alla questura in fase di pronuncia sull'istanza di rinnovo del permesso di soggiorno) di procedere alla sopra menzionata ponderazione.

Il Vehbi, infatti, era stato condannato nel 1999 per un fatto commesso nel 1995. Passata in giudicato la condanna, l'attuale ricorrente aveva espiato la pena, ottenendo l'affidamento in prova al servizio sociale, completando la prova e lavorando durante la stessa. Ora, come noto, l'art. 27 della Costituzione assegna alla pena la finalità rieducativa. Lo Stato, tende, in altri termini, attraverso l'applicazione delle sanzioni penali, non soltanto ad assicurare il perseguimento della prevenzione generale, bensì anche a consentire al reo di reinserirsi nel contesto sociale, dopo un percorso che la Costituzione vuole mirato (anche) a far riacquisire al condannato la capacità di vivere, sviluppando la propria personalità senza ulteriormente offendere i beni giuridici protetti dal diritto penale. Se così è, un'interpretazione dell'art. 4 comma 3 d.lgs. 286/98, tale da attribuire alla norma l'effetto di comportare l'automatico e doveroso rifiuto del soggiorno per una condanna, anche quando la stessa sia stata scontata prima della domanda di concessione del permesso di soggiorno (o del suo rinnovo), urterebbe insanabilmente con l'art. 27 citato. Ciò per l'evidente paradosso che si manifesterebbe di fronte, da un lato, ad un sistema correttivo finalizzato al reinserimento del reo, affiancato, dall'altro, da una previsione di legge che, una volta esaurito il percorso rieducativo, imporrebbe l'espulsione dal soggetto dal nostro contesto sociale ed ambientale, così vanificando la rieducazione.

E, poiché, in presenza di una possibile interpretazione costituzionalmente orientata, deve il giudice ordinario astenersi dal sollevare la questione di legittimità costituzionale, interpretando la norma in senso conforme a Costituzione, anche per il richiamo all'art. 27 quale chiave di lettura dell'art. 4 comma 3 d.lgs. 286/98, deve affermarsi che la pubblica amministrazione ha l'obbligo di procedere alla verifica della permanenza, anche dopo l'espiazione della pena, delle ragioni di ordine pubblico o sicurezza pubblica tali da legittimare il sacrificio delle esigenze individuali dello straniero.

Nel caso di specie la questura prima, la prefettura poi, hanno omesso di procedere alla comparazione tra bisogni della collettività affidati alle loro cure e pretese del singolo.

Il Vehbi, dopo la condanna, ha stipulato un contratto di formazione lavoro, modalità contrattuale che comporta una rilevante probabilità, o comunque una seria prospettiva di trasformazione in rapporto a tempo indeterminato; conduce in locazione un'abitazione composta da soggiorno, due stanze ed accessori; non ha più delinquito, od almeno non risulta nulla agli atti (la questura dà conto di altre pendenze penali). Percepisce un reddito ben superiore al minimo sociale (oltre € 1.200 mensili), cosicché, anche volendo attribuire peso all'elemento, a volte utilizzato per sostenere la sussistenza di esigenze cautelari, della mancanza di un reddito idoneo a consentire il sostentamento dello straniero, nella specie mancherebbe il presupposto di fatto per tale argomentazione. Dinanzi a tali condizioni soggettive, non poteva l'amministrazione esimersi dal rappresentare, nel percorso motivo dei propri provvedimenti, le ragioni che facevano apparire tuttora esistenti esigenze di protezione sociale tali da giustificare il rifiuto del soggiorno richiesto dal Vehbi e la conseguente sua espulsione.

Per tutti i motivi  che precedono, sospeso il giudizio, va sospesa l'efficacia del decreto di espulsione del 3.6.2003 emesso dal prefetto di Pordenone nei confronti di Vehbi Ervin, notificato il 3.6.2003 all'interessato ed eseguito mediante accompagnamento alla frontiera.

In considerazione della materia e della natura del procedimento, non si provvede in ordine alle spese. Essendo la materia attribuita tabellarmente ad altro giudice di questo tribunale, spiegandosi l'assegnazione del presente procedimento a questo giudice a cagione del periodo feriale, si dispone la trasmissione del fascicolo al presidente del tribunale per l'assegnazione al giudice designato, nella tabella dell'ufficio giudiziario, per la trattazione dei procedimenti in materia di immigrazione. Sarà il giudice così designato a decidere nel merito ed in ordine alla domanda di cui all'art. 142 d.lgs. 115/2002.

P.Q.M.

il giudice, sospende il processo e sospende l'efficacia del decreto di espulsione del 3.6.2003 emesso dal Prefetto di Pordenone nei confronti di [...], notificato il 3.6.2003 all'interessato ed eseguito mediante accompagnamento alla frontiera. Dispone la trasmissione del fascicolo al presidente del tribunale per l'assegnazione ad altro giudice.