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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, ordinanza del 10 maggio 2005

 
est. Renoldi
 

Nel procedimento di sorveglianza nei confronti di [...], nato il 12.3.1956 in Nigeria, già detenuto presso la casa di reclusione di Isili ed attualmente domiciliato presso la Comunità "Il Samaritano" in Arborea, località Sassu, condannato alla pena di anni otto di reclusione inflitta - per il delitto di cui agli artt. 73, 80 comma 2 T.U. 9.10.1990, n. 309, commesso in Somma Lombardo in data 4.1.1999 - con sentenza emessa dalla Corte d'appello di Milano in data 16.2.2000 (Ord. es. n. 258/2000 R.E.S. Proc. Rep. c/o trib. Busto Arsizio), avente ad oggetto l'applicazione della misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale; sentiti il Procuratore generale e il difensore;

osserva

1. Con sentenza della Corte d'appello di Milano pronunciata in data 16.2.2000, [...] fu condannato alla pena di anni otto di reclusione siccome riconosciuto colpevole del delitto di cui agli artt. 73, 80 comma 2 T.U. 9.10.1990, n. 309.

2. Ristretto dal 4.1.1999, il condannato mantenne, per l'intera durata dell'esecuzione della pena, una condotta costantemente conforme alla disciplina penitenziaria, partecipando con profitto al trattamento rieducativo, anche attraverso la positiva fruizione di diversi permessi premio. Con istanza pervenuta in data 7.2.2004, [...] chiese la concessione della misura dell'affidamento in prova al servizio sociale, allegando, a sostegno dell'istanza di misura alternativa, la possibilità di essere assunto - in qualità di socio-lavoratore impiegato nel settore agricolo - presso la Comunità "Il Samaritano", sita in Arborea, località Sassu.

3. In assenza di concreti elementi dai quali inferire la sussistenza di attuali collegamenti con la criminalità organizzata ed in considerazione dell'ineccepibile percorso detentivo del condannato, che era stato evidenziato nella relazione di sintesi inviata dalla casa di reclusione di Isili, con ordinanza n. 1010/04 emessa da questo tribunale in data 18.5.2004, Raufu Emiola veniva ammesso alla misura alternativa invocata.

Secondo l'opinione nell'occasione espressa dal tribunale, non poteva ritenersi che il mancato rinnovo del permesso di soggiorno da parte del ristretto potesse precludere l'accesso alla misura alternativa, dal momento che l'assenza di un titolo che abilitasse, sul piano amministrativo, alla presenza sul territorio dello Stato doveva ritenersi "compensata" dal titolo giudiziario che incardina l'esecuzione penale, secondo un'interpretazione sostenuta, in giurisprudenza, da trib. sorv. Milano in data 15.7.2003, cond. Primo Robson Roberto e pacificamente ammessa anche dall'autorità amministrativa, che ha specificamente disciplinato le modalità di avviamento al lavoro dei condannati in misura alternativa (si vedano al riguardo: circolare del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del 23.3.1993; circolare del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - ufficio IV - divisione III - trattamento e lavoro - datata 16.3.1999 prot. 547899; circolare del Ministero dell'interno 2.12.2000 n. 300; circolare del Ministero dell'interno del 4.9.2001 P.N. 300/C/2001/3595/A/L264/1^ DIV).

4. Avverso l'ordinanza di concessione dell'affidamento, ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d'appello di Cagliari, deducendo il vizio della violazione di legge con riferimento a quanto stabilito dagli artt. 4, 5, 5 bis, 9, 22, comma 12 d.lgs. 286/98, 47 ord. pen. nonché il vizio di mancanza di motivazione.

4.1 Secondo quanto evidenziato dal ricorrente, infatti, la permanenza nel territorio dello Stato del cittadino non appartenente ad un Paese dell'Unione europea é subordinata al rilascio della carta di soggiorno ovvero del permesso di soggiorno (a sua volta condizionato dalla stipula di un contratto di soggiorno per motivi di lavoro previsto dall'art. 5 bis del citato decreto). In assenza di un siffatto titolo abilitativo, la permanenza sarebbe pertanto preclusa non ravvisandosi, nel vigente quadro normativo, alcuna ulteriore e specifica disposizione autorizzativa, e non potendosi attribuire - in difetto di una norma ad hoc - una siffatta valenza ad alcun provvedimento giudiziario. In particolare, la tendenziale irrilevanza della pendenza di un procedimento giudiziario sarebbe dimostrata dalla disciplina dettata dall'art. 13, a mente del quale lo straniero che si trovi nelle condizioni poste dall'art. 13, comma 2 d.lgs. 286/98 (e segnatamente: gli stranieri che si siano introdotti clandestinamente nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli alla frontiera; coloro i quali vi siano entrati regolarmente e non abbiano chiesto il permesso di soggiorno nel termine di otto giorni salva l'ipotesi di forza maggiore; quanti non abbiano chiesto il rinnovo del permesso di soggiorno o ne abbiano patito la revoca o l'annullamento) deve essere necessariamente espulso, previa acquisizione dell'obbligatorio nulla osta da parte dell'autorità giudiziaria, salvi i casi, del tutto eccezionali, di prevalenti esigenze investigative o di cautela sociale.

Inoltre, in caso di concessione del beneficio, attraverso l'autorizzazione alla permanenza nel territorio dello Stato, verrebbe ad essere sostanzialmente formalizzata, lamenta ancora il ricorrente, una evidente disparità di regime a favore dello straniero irregolare condannato, al quale sarebbe incomprensibilmente riservato un trattamento più favorevole rispetto a chi non avesse riportato alcuna condanna, nei confronti del quale l'espulsione sarebbe inevitabile.

A ciò si aggiunga, ancora, che la possibilità di permanere e di lavorare in Italia verrebbe a realizzarsi, senza alcuna possibilità di regolarizzazione, con modalità sostanzialmente derogatorie rispetto alla disciplina dettata in tema di accesso al lavoro, peraltro presidiata dalla sanzione penale nei confronti della parte datoriale che impieghi un dipendente privo del permesso di soggiorno.

4.2 Sul versante del difetto di motivazione, il ricorso infine rilevava l'inadeguata analisi del profilo personologico del detenuto, autore di un grave reato, privo di dimora e portatore di un concreto interesse a rendersi irreperibile al fine di sottrarsi all'esecuzione della misura e all'eventuale espulsione a pena espiata.

5. Con sentenza in data 22.12.2004, la Suprema Corte di cassazione ha disposto l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata, recependo integralmente i motivi del ricorso dedotti dal Procuratore generale presso la Corte d'appello di Cagliari.

5.1. Secondo quanto ritenuto dai giudici di legittimità, infatti, la concedibilità delle misure alternative alla detenzione é subordinata - oltre che all'esistenza delle condizioni per ciascuna di esse specificamente previste - al rispetto del limite di legalità estrinseca dell'ordinanza concessiva del beneficio, costituito dalla assenza di contrasto con norme imperative. Conseguirebbe a tale ricostruzione che essendo "indubitabilmente contra legem la permanenza nello Stato di uno straniero che [...] non ha rinnovato il permesso di soggiorno", l'esecuzione della pena in regime di misura alternativa non potrebbe che avvenire, nel caso di specie, con violazione o comunque elusione delle regulae iuris che statuiscono tale carattere di illegalità. Pertanto, dovrebbe concludersi nel senso della "ontologica incompatibilità tra misure alternative extramurarie ed esecuzione della pena nei confronti dello straniero privo di permesso di soggiorno", avuto riguardo alla "radicale incompatibilità delle loro modalità esecutive con l'osservanza delle norme che disciplinano l'ingresso, il soggiorno e l'allontanamento dallo Stato di cittadini appartenenti a Paesi extracomunitari contenute nel d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 e successive modifiche".

A ulteriore sostegno di tale ricostruzione sistematica, la Suprema Corte rileva altresì che l'art. 16 del predetto testo legislativo prevede che nei casi considerati l'unica sanzione sostitutiva alla detenzione, in relazione all'espiazione di pene brevi, sia costituita dall'espulsione del condannato, escludendo pertanto la sua permanenza nel territorio dello Stato. Ed ancora, che la soluzione accolta nell'ordinanza impugnata comporterebbe una deroga surrettizia e arbitraria alle norme che disciplinano la costituzione e l'esecuzione del rapporto di lavoro, garantendo "un'area di impunità" a favore della parte datoriale nei casi in cui lo straniero si trovasse in esecuzione di pena.

6. All'esito dell'odierna udienza il Procuratore generale concludeva chiedendo il rigetto dell'istanza di affidamento in prova.

Il difensore, al contrario, insisteva nella richiesta del beneficio, richiamandosi alle memorie illustrative ritualmente depositate, nelle quali venivano in primo luogo rilevate alcune asserite aporie nel ragionamento della Suprema Corte, ovviamente inconferenti nell'ambito di un giudizio di rinvio; e nelle quali, in secondo luogo, si sosteneva che il principio di diritto affermato dai giudici di legittimità si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 3 e 27, comma 3 Cost.

7. Tanto premesso, ritiene il Collegio che l'impostazione ora accolta dalla Corte di cassazione, ovviamente vincolante nel presente giudizio per quanto concerne i principi di diritto colà enunciati, determini un obiettivo conflitto tra l'art. 27, comma 3 Cost. e il combinato disposto degli artt. 47, 48, 50 ord. pen. e 4, 5, 5 bis, 9, 13, 16, 21 e 22 d.lgs. 286/98; un contrasto suscettibile di determinare una censura da parte della Corte costituzionale, chiamata - come noto - a verificare la conformità delle leggi alla Carta fondamentale non soltanto alla stregua della formulazione lessicale della statuizione normativa, ma altresì in relazione al "diritto vivente", ovvero alla sua concreta applicazione giurisprudenziale.

7.1 Sul punto occorre prendere le mosse dal significato che assume, nel vigente ordinamento, il microsistema dei benefici penitenziari extramurari (permessi e licenze premio, misure alternative alla detenzione in carcere, liberazione condizionale) nel quale in parte si invera il principio costituzionale del c.d. finalismo rieducativo della pena.

Con la legge n. 354 del 1975, é stata infatti prevista, innanzitutto, la possibilità che il detenuto possa fruire, nel corso dell'esecuzione della pena detentiva, di misure extramurarie (permessi e licenze premio) la cui funzione, prettamente trattamentale, é quella di consentire, attraverso il mantenimento dei rapporti con la comunità esterna, di favorire il processo di riacquisizione dei valori positivi che la società esprime e al contempo di preparare il detenuto al momento della sua restituzione all'ambiente libero. Una funzione complementare é inoltre attribuita alle c.d. misure alternative alla detenzione, costruite come strumenti di tipo prescrittivo e/o contenitivo attraverso cui governare il percorso di reinserimento sociale, contemperando, con un variabile grado di cogenza, le esigenze di difesa sociale con quelle della rieducazione e del recupero.

Attraverso, poi, l'istituto della liberazione condizionale si consente al condannato che abbia raggiunto una condizione di "sicuro ravvedimento" di accedere ad una condizione si sostanziale libertà, circoscritta unicamente da misure di tipo prescrittivo intese a verificare nel tempo la genuinità del percorso interiore di piena resipiscenza.

Proprio in questa materia, peraltro, si é inteso affermare il principio secondo cui il pieno ravvedimento del condannato, avendo ormai esaurito la precipua funzione della pena, non può consentire la prosecuzione della detenzione, ostandovi una pretesa qualificata, definita dalla Corte costituzionale nei termini di un vero e proprio "diritto per il condannato", a che verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato onde accertare se la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo (sent. 27.6.1974, n. 204). E' solo dinnanzi alla prospettiva di un effettivo reinserimento sociale, quale esito possibile del trattamento penitenziario, che la Consulta ha, del resto, concluso per la compatibilità costituzionale della norma che include l'ergastolo nel catalogo delle pene principali (sent. 21.11.1974, n. 264).

Il sistema fin qui sommariamente tratteggiato, caratterizzato - lo di ripete - da un complesso di strumenti rivolti a individualizzare il percorso rieducativo della pena attraverso misure rispondenti alle concrete istanze di risocializzazione del condannato, non sarebbe viceversa applicabile - secondo l'opinione autorevolmente espressa dalla Suprema Corte - ai detenuti (nonché ai condannati in libertà presentanti istanza di misura alternativa) che dovessero trovarsi nella sfavorevolissima condizione personale di stranieri non appartenenti ad uno Stato aderente all'Unione europea e che, al contempo, si trovassero nelle condizioni previste dall'art. 13, comma 2 d.lgs. 286/98.

E' peraltro evidente che conseguirebbe a tale impostazione l'impossibilità per tali soggetti di accedere ai permessi premio, al lavoro all'esterno ai sensi dell'art. 21 ord. pen., alle misure alternative previste dall'ordinamento penitenziario (ivi compreso l'affidamento in casi particolari, la cui funzione risponde ovviamente all'esigenza di modulare la risposta terapeutica secondo modalità diverse da quelle del mero intervento riabilitativo intramoeniale) e financo alle misure di sicurezza non detentive (quali la libertà vigilata presso un luogo di cura) in ipotesi ritenute più idonee a soddisfare, rispetto all'ospedale psichiatrico giudiziario, le esigenze terapeutiche del prosciolto per totale infermità di mente o del c.d. seminfermo: ciò che nell'ultima ipotesi considerata configurerebbe un'evidente violazione del diritto costituzionale alla salute (così come del resto avverrebbe se si precludesse l'accesso alla detenzione domiciliare allo straniero che versasse in condizioni di salute particolarmente gravi che richiedessero contatti costanti con i presidi ospedalieri [art. 47 ter comma 1 lett. c]; o nei cui confronti ricorressero i presupposti di cui all'art. 47 ter, comma 1 ter ord. pen. in rapporto agli artt. 146, 147 cod. pen.). Ed é infine ovvio che lo straniero extracomunitario privo di un titolo abilitante alla permanenza nello Stato italiano condannato all'ergastolo, cui é ovviamente inapplicabile l'istituto della espulsione di cui all'art. 16 d.lgs. 286/98, non potrebbe mai vedere riconosciuto quel diritto all'accertamento dell'avvenuta realizzazione del fine rieducativo di cui si é già detto, dal momento che quand'anche tale finalità fosse stata riconosciuta non sarebbe possibile adottare misure quali la semilibertà o la liberazione condizionale che presuppongono la possibilità per il soggetto di permanere nel territorio dello Stato "fuori dal carcere".

La conclusione obbligata di questa ipotesi ricostruttiva é rappresentata dall'ovvia affermazione dell'esistenza di un regime penitenziario speciale applicabile alla categoria di condannati più sopra delineata; un regime del tutto impermeabile al principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena, che postula l'eventuale adozione di misure extramurarie quando queste siano necessarie a meglio governare il percorso di recupero del soggetto. Tale regime speciale, peraltro, sarebbe applicabile ad una categoria di condannati individuati non già alla stregua di indici rivelatori di una particolare pericolosità, come ad esempio avviene nei casi contemplati dall'art. 4 bis ord. pen., quanto piuttosto di un dato del tutto estrinseco e formale, oltreché tendenzialmente immodificabile, quale la presenza o meno di un titolo abilitativo alla permanenza nel territorio dello Stato (permesso o carta di soggiorno).

E' quindi evidente come questa disciplina si ponga in contrasto con l'elaborazione compiuta dalla Corte costituzionale proprio con riferimento alla disciplina dettata dall'art. 4 bis ord. pen.

In particolare con la sentenza 11.6.1993, n. 306, la Consulta ha definito due limiti fondamentali all'azione legislativa in subiecta materia. In primo luogo, ogni misura incidente in senso sfavorevole sul regime penitenziario del detenuto, quale ad esempio la revoca di un beneficio, deve conseguire ad una condotta addebitabile al condannato, quale portato del principio di colpevolezza di cui all'art. 27, primo comma, Cost. che é "criterio garantistico (non solo) dell'irrogazione (ma anche) dell'esecuzione della pena" (sentenza n. 282 del 1989). In secondo luogo, ribadendo quanto già affermato nella sentenza n. 313 del 1990, si é sottolineato che in nessun caso le finalità di prevenzione generale o di difesa sociale della pena può spingersi fino al punto di "autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell'istituto della pena".

In altri termini, secondo la Corte costituzionale, il nostro sistema non ammette l'introduzione di "tipi di autore, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita", atteso che ciò significherebbe affermare l'assoluta irrilevanza dei progressi compiuti dal condannato sul piano trattamentale, in spregio ai principi posti dalla storica sentenza n. 204 del 1974. Viceversa, la deroga, da parte del legislatore, alla disciplina dell'accesso ai benefici penitenziari può consentirsi unicamente in presenza di una concreta condotta, tenuta dal soggetto aspirante alla misura di favore, che dimostri l'assenza di reali progressi sul piano rieducativo (ad es., per rimanere alla materia posta dall'art. 4 bis ord. pen., a causa del perpetuarsi del radicamento del soggetto in un tessuto criminoso cementato dall'omertà e della conseguente risoluzione di non collaborare con la giustizia).

Al contempo, secondo quanto enunciato dalla Corte costituzionale, se per un verso il principio del finalismo rieducativo della pena non può ritenersi, sulla base di "una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte", prevalente su ogni altro valore costituzionale, per altro verso detto principio non può, in ogni caso, essere compresso fino al punto di venire del tutto obliterato. Ne consegue che quand'anche possano venire in gioco importantissime esigenze di ordine pubblico - eventualmente di rango costituzionale - quali quelle sottostanti alla regolamentazione dei flussi dei fenomeni migratori, che si sostanziano in norme che prescrivono la necessarietà di titoli formali abilitanti alla permanenza nel territorio dello Stato, il legislatore non potrà, in ogni caso, dettare una disciplina che attraverso la preclusione definitiva della possibilità di accesso ai benefici penitenziari finisca per minare in profondità le basi stesse del principio rieducativo.

Né appare peraltro conferente, nel caso di specie, il rilievo secondo cui dopo l'entrata in vigore della legge 30 luglio 2002, n. 189, l'unica sanzione sostitutiva alla detenzione applicabile in relazione alle pene brevi sarebbe costituita dall'espulsione del condannato. L'art. 16, infatti, non consente l'adozione di detto provvedimento per coloro i quali, come l'odierno prevenuto, si trovino in espiazione di pena inflitta per uno dei delitti di cui all'art. 407, comma 2 lett. a) cod. proc. pen. Ciò che all'evidenza dimostra come quantomeno per tale categoria di detenuti non possa neanche affermarsi l'esistenza di una, pur unica, misura alternativa alla detenzione.

Consegue al quadro fin qui delineato che il combinato disposto tra l'art. 47 l. 26.7.1975 n. 354 (che disciplina l'affidamento in prova) e le disposizioni che inibiscono la permanenza nel territorio dello Stato in assenza di un titolo abilitativo prescrivendo l'obbligatoria espulsione del soggetto (artt. 5, 5 bis, 9, 13 d.lgs. 286/98) - interpretate alla luce del principio di diritto affermato nella sentenza della Corte di cassazione in data 22.12.2004 - deve ritenersi manifestamente configgente con l'art. 27, comma 3 Cost.. E ad analogo esito ricostruttivo dovrà poi pervenirsi anche con riferimento alla misura contigua dell'ammissione al regime di semilibertà, che il tribunale potrebbe ritenere applicabile nel caso di specie sia pure in via subordinata, qualora non dovesse concedere l'affidamento. In tal caso, peraltro, il contrasto con la norma costituzionale coinvolgerà, oltre agli artt. 48 e 50 ord. pen., anche l'art. 22 d.lgs. 286/98, dal momento che lo svolgimento dell'attività lavorativa costituisce, a differenza di quanto avviene nel caso dell'affidamento, uno dei presupposti per l'ammissione al regime di semilibertà, onde l'affermazione della inderogabilità del divieto penale per il datore di lavoro che impieghi lo straniero irregolare in attività di lavoro subordinato in virtù del citato art. 22 comma 12, configurerebbe un autentico vulnus alla possibilità di accedere al beneficio in questione (e per questa via allo stesso principio rieducativo).

7.2 Per quanto poi concerne il profilo della rilevanza della questione di legittimità costituzionale é evidente che l'eventuale sanzione di incostituzionalità che dovesse colpire le disposizioni più sopra censurate, sarebbe suscettibile di riverberarsi nel presente giudizio, potendo addivenirsi ad un nuovo pronunciamento di favore che consentirebbe all'odierno prevenuto, il quale ha nel frattempo portato avanti la misura in modo del tutto impeccabile, di proseguire nel percorso di reinserimento attraverso l'affidamento o la semilibertà.

8. Per le ragioni più sopra esposte gli atti devono essere inviati alla Corte costituzionale e il presente procedimento deve essere sospeso in attesa delle determinazioni del giudice delle leggi.

P.Q.M.

visti gli articoli 23 ss. l. 11.3.1953, n. 87, 47, 48, 50 l. 26.7.1975, n. 354, 5, 5 bis, 9, 13, 22 d.lgs. 25.7.1998, n. 286, così come modificato dalla l. 30.7.2002, n. 189, 27, comma 3 Cost.; sospende il presente procedimento di sorveglianza avente ad oggetto il nuovo esame sulla concedibilità dell'affidamento in prova al servizio sociale nei confronti di [...]; ordina la trasmissione degli atti del presente procedimento alla Corte costituzionale, disponendone la sospensione in attesa della decisione della Corte. Manda alla cancelleria per le comunicazioni di competenza.