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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Corte d'Appello di Venezia, decreto del 27 settembre 2002

 
est. Culot
 

Visto il decreto del Tribunale per i Minorenni di Venezia in data 29.4.2002 notificato il 3.6.2002; visto il ricorso avverso tale decreto in data 24.6.2002; sentito il P.G.;

rilevato in fatto

che sia il minore M.N. n. il 30.9.96, sia i genitori hanno doppia cittadinanza (libanese ed italiana); risulta dagli atti di causa, infatti, che anche la signora Jaffal Iman ha ottenuto la cittadinanza italiana in data 22.5.2000;

che in data 23.2.99 il Tribunale libanese di Tiro sanciva il divorzio affidando il figlio minore al padre con diritto di visita alla madre circoscritto nel solo territorio di Tiro una volta alla settimana;

che in data [...] il Tribunale di Padova ha rigettato la domanda di separazione e contestuale affidamento del minore presentata dalla madre, sul rilievo che la sentenza libanese aveva già piena efficacia nel nostro territorio ai sensi dell'art. 64 legge 31.5.1995, n.218;

che in data 25.1.2000 la Jaffal adiva il Tribunale per i minorenni perché disponesse l'affidamento in suo favore del figlio minore N., sottrattole dal padre che l'aveva portato presso i nonni in Libano, con conseguente ordine di immediato rientro in Italia;

che in data 18.2.2000 il PMM chiedeva l'apertura di una procedura di decadenza della potestà in capo al padre [..], ravvisando un comportamento pregiudizievole del padre nell'aver lasciato il figlio presso i nonni paterni in Libano, mentre sia lui che la madre risiedevano o dimoravano in Italia;

che in data 29/4-1/6.2002 il Tribunale per i Minorenni di Venezia - ritenuta la propria giurisdizione ex art. 36 legge n. 218/95, e la propria competenza vertendosi in tema di ablazione della potestà genitoriale, - rigettava il ricorso ritenendo:

che la madre fosse solo cittadina libanese, e che dovesse pertanto rivolgersi al Tribunale di Tiro, tanto più che, essendo residente in Libano, non aveva interesse a ottenere un affidamento in Italia;

che la condotta del padre non fosse tanto grave da giustificare un provvedimento di decadenza;

osserva in diritto

[...] 2. Quanto alla competenza funzionale del Tribunale per i minorenni, quando si tratta di modificare le condizioni di affidamento della prole stabilite dal tribunale ordinario in conseguenza di separazione e/o divorzio, spetta al suddetto Tribunale decidere su un'istanza diretta a ottenere un intervento ablativo o limitativo della potestà genitoriale ai sensi degli artt. 330-333 c.c. (Cass. Sez. U., 2.3.1983, n. 1551), mentre un mera richiesta di cambio di affidamento doveva essere vagliata dal Tribunale ordinario;

nel caso di specie la [...], col proprio ricorso del 25.1.2000, non aveva chiesto la decadenza della potestà paterna, richiesta solo dal P.M. in data 18.2.2000 e alla quale la Jaffal ha aderito solo in comparsa conclusionale; pertanto, applicando il disposto dell'art. 5 c.p.c. - non avendo rilevanza rispetto alla competenza i successivi mutamenti, - il Tribunale per i minorenni avrebbe dovuto immediatamente declinare la propria competenza rispetto alla domanda della [...]. Tuttavia, non essendo stata sollevata alcuna eccezione di parte, non avendo il Tribunale rilevato d'ufficio la propria incompetenza, e costituendo la questione competenza una criterio "debole", la causa resta radicata davanti al Tribunale per i minorenni (art. 38 c.p.c.), e conseguentemente avanti a questa Corte, ove non è più possibile riesaminare oggi d'ufficio la questione della competenza. Del resto, se nel nostro ordinamento i giudici sono tutti uguali e si distinguono solo per la diversità delle funzioni, una volta che si è adito un giudice e questi si è ritenuto competente, non giova al principio costituzionale della ragionevole durata del processo mantenere artificiosamente in vita questioni di competenza solo per disquisizioni giuridiche tutte opinabili.

3. Stabilita la competenza di questa Corte, però, resta assodato che anche il giudice libanese mantiene intatta la sua competenza; e in proposito va subito rilevato che non sono sufficienti a risolvere il caso né le leggi interne, né le norme di diritto internazionale privato, né le convenzioni internazionali (dalle informazioni assunte a Roma presso il Ministero degli Affari Esteri risulta che non è in vigore alcuna Convenzione fra Italia e Libano in tema di diritto di famiglia).

A. Ai sensi dell'art. 42 legge n. 218/95 la protezione dei minori è regolata in ogni caso dalla Convenzione dell'Aja del 1961. Tale convenzione si applica - anche d'ufficio, quando il giudice italiano ha avuto anche solo notizia del caso del minore da proteggere - perfino quando il minore si trova in uno Stato non contraente (art. 42 co. 2 legge n. 218/95), sì che a nulla rileva che il Libano non l'abbia sottoscritta.

In realtà la Convenzione dell'Aja del 5.10.61 (legge 24.10.80 n. 742) mirerebbe proprio a stabilire un criterio di competenza giurisdizionale fra giudici dei diversi Stati coinvolti nelle vicende del minore. La Convenzione prevede l'istituzione, la modifica e la cessazione delle misure di protezione del minore: ogni Stato di residenza del minore (e in caso d'urgenza di domicilio del minore) può prendere - anche d'ufficio, come si è detto - gli opportuni provvedimenti per la sua protezione. In ogni caso il principio di residenza abituale subisce deroghe basate sul principio della cittadinanza.

L'art. 3 riconosce che un rapporto di autorità risultante di pieno diritto dalla legislazione interna di uno Stato di cui il minore è cittadino è riconosciuto negli altri Stati: col che il provvedimento di affidamento stabilito dal Tribunale di Tiro è riconosciuto in Italia.

Non si versa, dunque, in tema di sottrazione internazionale di minori (come, invece, sostiene la Jaffal nel suo ricorso del 25.1.2000), perché l'affidamento del piccolo N. è stato fatto con regolare provvedimento del giudice. Errati dunque sono anche i richiami (p.12 reclamo) alla Convenzione di Lussemburgo del 30.5.1980 e dell'Aja del 25.10.1980 (legge15.1.1994, n. 64) che mirano a tutelare i trasferimenti di minori da uno Stato all'altro in violazione di una decisione di affidamento, e quindi in danno del genitore che esercitava legalmente la potestà.

Non solo: stabilisce l'articolo 5 che in caso di trasferimento dallo Stato in cui il minore è cittadino, le misure di protezione rimarranno in vigore anche nello Stato di nuova abituale residenza: ne consegue che se il piccolo N. (cittadino libanese) tornasse in Italia, il provvedimento libanese rimarrebbe in vigore.

Stabilisce l'art. 8 della Convenzione che, nonostante le disposizioni precedenti, lo Stato di residenza abituale del minore può adottare misure di protezione fin tanto che lo stesso è minacciato da un pericolo serio alla sua persona: non essendo il minore residente abitualmente in Italia, lo Stato italiano non può prendere, dunque, provvedimenti ai sensi dell'art. 8. Analogo discorso vale per l'art. 9, che autorizza ciascun Stato a prendere provvedimenti urgenti solo se il minore si trova sul suo territorio.

L'unica norma che si potrebbe invocare a favore della tesi della madre è quella prevista dall'art. 4 co. 1, secondo cui, se l'autorità dello Stato di cui il minore è cittadino (nel caso di specie anche l'Italia) giudicano che l'interesse del minore lo esige, esse possono, dopo aver informato lo Stato di residenza abituale (nel caso di specie il Libano) adottare misure di protezione del minore. Ma nel caso di specie manca la prova che l'interesse del minore sia quello di vedere dichiarata la decadenza della potestà in capo al padre, oppure di essere affidato alla madre e di venire in Italia (fra l'altro non si sa neanche se la madre ha un lavoro in Italia, dove alloggerebbe e chi curerebbe il figlio durante l'orario di lavoro della madre: la stessa, infatti, oggi non si è presentata in udienza per poter chiarire questi aspetti).

Comunque, essendo il Libano non solo Stato di residenza, ma a sua volta Stato di cittadinanza, c'è anche il rischio che si venga a instaurare una spirale senza fine con cui l'Italia e il Libano continuano a prendere provvedimenti fra loro contrastanti e opposti in forza del principio di cittadinanza del minore. E' evidente, perciò, che la normativa sopra richiamata costituisce uno strumento inadeguato a risolvere il caso concreto, non risolvendo espressamente il conflitto dovuto alla doppia cittadinanza.

Ritiene, allora, questa Corte che - non potendosi individuare un singolo criterio effettivo per stabilire quale Etat dont le mineur est ressortissant debba prevalere - , si debba risolvere il caso in via interpretativa:

a) Se il Libano non avesse preso alcun provvedimento, spetterebbe sicuramente al giudice italiano provvedere in proposito;

b) Il provvedimento libanese del 1999 è stato preso nei confronti di cittadini libanesi che, al momento della domanda, si trovavano in Libano; il provvedimento libanese non è sicuramente contrario all'ordine pubblico perché prevedeva l'affidamento del figlio a uno de due genitori e il riconoscimento del diritto di visita al genitore non affidatario (che, all'epoca, era residente in Libano e solo domiciliato in Italia);

c) L'affidamento disposto dal Libano deriva da una decisione giudiziaria pienamente efficace anche in Italia (art. 64 legge n. 218/95), come ha già riconosciuto con sentenza passata in giudicato fra le parti il tribunale di Padova, per cui questa Corte non può tornare ad esaminare il punto se l'affidamento è avvenuto in favore del padre solo in odio al sesso della madre (sostiene la Jaffal che l'applicazione della legge libanese [art.1169 c.c. iraniano] che affida automaticamente i figli maschi al padre in conformità alle disposizioni del Corano sarebbe pregiudizievole al figlio e contraria all'ordine pubblico italiano e alle Convenzioni internazionali di tutela dei minori (art. 2 legge n. 218/95);

d) Ogni affidamento comprende la cura della persona del minore e in particolare la potestà di fissare la sua residenza; il fatto che il coniuge affidatario intenda trasferirsi all'estero non è motivo sufficiente per modificare l'affidamento, essendo costituzionalmente garantito (art. 16) il diritto di uscire dal territorio della Repubblica (Cass. I, 17.2.1995, n. 1732); le difficoltà pratiche nell'esercizio del diritto di visita sono dovute a circostanze di fatto (quali la distanza) che si presentano in ogni separazione quando i genitori vanno a vivere in località lontane fra di loro, ma non sono di per sé sole indice di lesione del diritto di visita.

In base alla Convenzione dell'Aja, dunque, risultano presi idonei provvedimenti di tutela del minore, da valere anche in Italia, e non c'è motivo per revocare ab origine il provvedimento libanese in accoglimento delle istanze della madre: la Jaffal, infatti, né ha apportato valide argomentazioni per apprezzare in maniera diversa la decisione del tribunale libanese alla data del 1999, né ha prodotto prove nuove concernenti la stessa situazione iniziale, tali da giustificare una revoca ex tunc.

B. (...) Né può affermarsi sic et simpliciter che il provvedimento libanese debba essere disapplicato perché permette la separazione fra genitore affidatario e figlio. Il provvedimento è stato legittimamente preso quando il padre si trovava in Libano col figlio. Se la separazione padre affidatario-figlio è circostanza sopravvenuta, non si vede perché la Jaffal non abbia adito il Tribunale libanese, e solo qualora questo avesse statuito che l'affidamento al padre doveva permanere anche se il padre si era volontariamente separato dal figlio, lo aveva collocato volontariamente presso i nonni delegando loro la funzione genitoriale, potrebbe sostenersi che questo nuovo provvedimento viola la Convenzione dei diritti del fanciullo, e quindi si pone in contrasto con l'ordine pubblico italiano. Solo in tal caso, infatti, qualora il giudice libanese sostenesse espressamente di dover applicare una normativa che tollerasse, non sanzionandolo, un comportamento pregiudizievole scientemente posto in essere dal genitore affidatario nei confronti del figlio, la legge libanese non potrebbe trovare applicazione in Italia, stante la solare evidenza della contrarietà di una tale ipotetica legislazione non soltanto rispetto all'ordine pubblico italiano, ma anche e soprattutto rispetto alle Convenzioni internazionali in materia di tutela dei minori che costituiscono norme di applicazione necessaria in Italia.

Si deve infatti sottolineare che la Convenzione delle Nazioni Unite, pur non prevedendo misure concrete di attuazione pratica, enuncia principi fondamentali, dà direttive agli Stati e costituisce un punto di riferimento obbligato per la giurisprudenza.

C. Resta un ultimo punto da affrontare.

Occorre stabilire per quale ragione un provvedimento, legittimamente emesso in Libano e riconosciuto in Italia, non possa essere direttamente modificato dal giudice italiano alla luce delle sopravvenienze, coesistendo (in base al criterio della doppia cittadinanza) sia la giurisdizione libanese che quella italiana. In altre parole deve rispondersi alla domanda se il legislatore italiano abbia voluto lasciare la madre arbitra di proporre il suo ricorso davanti a qualsiasi giudice (italiano o libanese) quando entrambi sono competenti per materia. Come si è visto supra, manca una legge o una Convenzione internazionale che risolva la questione: occorre dunque che la stessa venga risolta attraverso un'opera di interpretazione, coordinamento e raccordo dei vari dati normativi. Ritiene questa Corte che, quando coesistono più ordinamenti applicabili al caso concreto in contemporanea, e non sia previsto un criterio di collegamento per individuare quale dei due ordinamenti debba prevalere, si debba applicare il sistema normativo col quale il caso presenta il collegamento più stretto (art. 18 legge n. 218/95).

Il collegamento più stretto, nel caso di specie, sussiste con l'ordinamento libanese:

1) essendo colà il giudice intervenuto (e legittimamente) per primo,

2) e trovandosi colà il domicilio del minore.

1) Che la priorità sia un criterio interpretativo da applicare anche al caso di specie è confermato da varie disposizioni:

a) ad es. l'art. 7 della legge n. 218/95 prevede che il giudice italiano sospenda il giudizio quando già pende avanti al giudice straniero fra le stesse parti una causa, avente lo stesso oggetto e lo stesso titolo, che poi possa produrre effetto anche in Italia. E' vero che formalmente il procedimento di modifica delle condizioni di affidamento dei figli stabiliti nella sentenza di separazione o divorzio è diverso rispetto al giudizio iniziale. Ma sostanzialmente - quando si controverte sul versante interno della potestà (cioè nell'ambito del rapporto fra genitori e figli) - si finisce col discutere sempre dello stesso diritto-dovere (rectius: dovere e diritto secondo l'art. 30 della Cost.) dei genitori, dovere vincolato - come argutamente sostenuto in dottrina - a garantire al minore l'integrale sviluppo della sua personalità. Pertanto, mentre sul versante esterno l'officium di genitore è rivendicabile come diritto assoluto erga omnes, sì che formatosi il giudicato non si potrà più parlare di stessa causa, sul versante interno la posizione del genitore è gestita, proprio per la sua particolare connotazione di diritto-dovere, come interesse legittimo a fini di attuare il superiore interesse del minore: quindi, si discute sempre dello stesso oggetto e dello stesso titolo, sì che la causa, in realtà, è sempre unica, focalizzandosi sempre sulla gestione della potestà genitoriale, la quale si evolve in continuazione e non può mai cristallizzarsi in un giudicato. Non per niente nel procedimento camerale riguardante la potestà si parla di provvedimento rebus sic stantibus e anche di revoca o modifica del provvedimento iniziale.

b) Che il criterio di priorità sia elemento determinante nel nostro ordinamento per decidere sulla competenza fra due giudici di Stati diversi parimenti competenti è ulteriormente confermato, ad esempio, dall'art. 11 regol. UE 1347/00 del 29.5.2000 (in G.U. 28.8.2000 n. 66 serie speciale, e relativo alla competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di potestà genitoriale); oppure dall'art. 21 della legge 21.6.1971 n. 804 (Conv. di Bruxelles sulle decisioni in materia civile e commerciale), ove viene espressamente detto che, di fronte a due giudici ugualmente competenti appartenenti a due Stati diversi, il giudice successivamente adito deve dichiarare la propria incompetenza a favore del giudice preventivamente adito.

2) Anche in Italia, nel silenzio della legge, quando più giudici potrebbero essere ugualmente competenti per territorio, la dottrina e la giurisprudenza prevalente applicano, in materia di V.G., il criterio del forum domicilii (cfr. Cass. I, 10.6.1976, n. 2130 - Cass. I, 28.9.1977, n. 4126, che escludono, invece, il collegamento con la residenza di uno dei genitori). Questo criterio è quello che gode di maggiori consensi perché è evidente che il giudice territorialmente più vicino al minore da tutelare è anche quello più idoneo a decidere. Non c'è dubbio, allora, che il giudice libanese, nella cui circoscrizione vive il minore, sia quello più idoneo a valutare le reali condizioni e necessità del minore, sì che anche sotto questo profilo appare opportuno che sia quel giudice ad adottare le misure di protezione per il piccolo N. M. Ne consegue che la Jaffal dovrà adire il giudice libanese per chiedere la modifica del provvedimento del 1999 in base alle sopravvenienze supra evidenziate, e che il giudice italiano potrà essere eventualmente adito solo in caso di contestazione del provvedimento straniero di volontaria giurisdizione, ai sensi degli artt. 66-67 legge n. 218/95. Si ritiene che solo in tal modo si possa evitare coerentemente una duplicazione di attività giurisdizionale che comunque finirebbe col non avere efficacia al di fuori dei rispettivi territori nazionali: è evidente, cioè, che in mancanza di Convenzione bilaterale una eventuale modifica apportata dal giudice italiano al provvedimento libanese non potrebbe essere portata ad esecuzione in Libano; l'ordine di rientro del figlio resterebbe lettera morta, e il padre potrebbe sempre opporre al provvedimento italiano un contro provvedimento libanese che sarebbe di norma automaticamente riconosciuto in Italia ai sensi degli artt. 64 ss. legge n. 218/95, così da sottrarsi ad ogni sanzione da parte dell'ordinamento italiano. Ma in tal modo neanche la madre rimane senza tutela, perché la sua richiesta di modifica da effettuare avanti al giudice preventivamente adito sarà poi sottoposta all'esame del giudice italiano in punto ordine pubblico; e qualora il giudice italiano dovesse rifiutare l'applicazione della norma straniera perché contraria all'ordine pubblico italiano, la madre avrà nei confronti del padre, eventualmente ancora renitente, un concreto strumento di pressione che consiste nell'azione penale, con tutte le conseguenze del caso.

D. Nulla per le spese, posto che nella V.G. non trova applicazione il principio della soccombenza di cui all'art. 91 c.p.c., principio che presuppone una controversia intorno a diritti soggettivi.

P.Q.M.

rigetta il reclamo di [...] avverso il decreto del Tribunale per i Minorenni di Venezia del 29/4-1/6.2002, che per l'effetto resta confermato.