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25.01.2010
 
Prime riflessioni sulla sentenza della Corte europea dei diritti umani sui respingimenti da Lampedusa del 2005
 
a cura della Prof.ssa Chiara Favilli -Ricercatore confermato di diritto dell'Unione europea nell'Università degli studi di Firenze - socia ASGI, 25 gennaio 2010.
 
Sentenza della Corte europea dei diritti umani Affaire Hussun e a. c. Italie, 19 gennaio 2010, n. 10171/05.

La Corte europea dei diritti umani si è pronunciata il 19 gennaio 2010 sui ricorsi presentati nel 2005 (precisamente il 21 marzo, 23 marzo, 1° aprile e 12 maggio) da parte di ottantaquattro cittadini di diversi Stati non parti della Convenzione europea per i diritti dell'uomo (CEDU) (palestinesi, iracheni, algerini, marocchini e tunisini) sbarcati a Lampedusa. Il numero dei ricorrenti, apparentemente elevato, risulta in realtà esiguo se comparato al totale delle persone giunte in quello stesso periodo, in gran parte respinte o espulse verso la Libia, che la stessa Corte europea ha stimato in circa mille e duecento.

I ricorrenti denunciavano la violazione degli artt. 2  CEDU(diritto alla vita), 3 CEDU(divieto di tortura e pene o trattamenti disumani e degradanti), 13 CEDU (diritto ad un ricorso effettivo), 34 CEDU (diritto ad un ricorso individuale) e 4 Prot. n. 4  (divieto di espulsioni collettive).

Eccezion fatta per l'art. 34 CEDU, nessuno di questi aspetti è stato considerato dalla Corte che ha pronunciato una sentenza basata squisitamente su aspetti formali, con un linguaggio criticabile sul piano lessicale (i ricorrenti sono definiti tutti come "clandestini" punto 9), tacendo su aspetti sostanziali della vicenda e, quindi, dei diritti in rilievo, il cui godimento effettivo, spesso sottolineato dalla Corte, non viene mai menzionato. Nonostante tutte le mancanze la Corte ha impiegato tre anni e nove mesi per emettere la sentenza di complessive dodici pagine senza alcun approfondimento o elaborazione giuridica sul merito delle violazioni denunciate.

In gran parte questo sembra dipeso dai dubbi sull'autenticità delle procure rilasciate ai legali da parte dei ricorrenti, dubbi sollevati dal Governo italiano e accolti dalla Corte europea che ha disposto su di esse una perizia calligrafica. Tale perizia è stata richiesta il 27 giugno 2008, dopo due anni da quando la difesa del Governo italiano aveva denunciato la falsità delle procure fornite da uno dei tre difensori (il 27 settembre 2006) e dopo tre dalla presentazione dei ricorsi. I difensori, che hanno sempre rigettato le accuse del Governo, nonché contestato la perizia, hanno, forse anche per riuscire a portare, finalmente, il procedimento nel merito, rinunciato alla difesa in relazione alle procure considerate identiche (ventidue su ottantaquattro). È pacifico che la Corte non potesse proseguire l'esame per quei ricorsi le cui procure sono state considerate identiche ad altre; tuttavia avrebbe potuto almeno accennare al contesto disagiato nel quale l'avvocato si trova ad agire in questi casi, con i tempi concitati, persone di varia nazionalità, lingua e non tutti alfabetizzati. Peraltro in un altro ambito sarebbe stato possibile anche sanare qualsiasi difetto relativo alle procure, considerando che il Regolamento della Corte non richiede a questo proposito particolari forme ai fini della validità dell'atto.

Il procedimento è quindi proseguito in relazione agli altri sessantadue ricorsi distinti dalla stessa Corte in tre gruppi: quattordici relativi a persone espulse; tredici relativi a persone dapprima trattenute in un centro di prima accoglienza e poi rilasciate per scadenza dei termini, tra i quali i difensori hanno mantenuto un collegamento diretto solo con un ricorrente, residente a Bergamo. In relazione a quest'ultimo la violazione contestata riguardava l'art. 34 della CEDU sul diritto ad un ricorso individuale: la Corte non ha ritenuto sussistere tale violazione non avendo rilevato alcun ostacolo da parte dell'Italia alla presentazione del ricorso alla Corte. Infine il terzo gruppo è relativo a trentacinque persone delle quali è stata persa ogni traccia. In particolare risulta raccapricciante che il Governo non sia stato in grado di riferire sulla loro sorte: se siano stati espulsi, respinti, trattenuti o rilasciati e che la Corte non abbia mosso alcun rilievo su questo punto. Come noto gli Stati parti della CEDU sono responsabili di fronte alla Corte anche quando si tratti di allontanamento verso uno Stato nel quale vi è un serio rischio di violazione di un diritto sancito dalla Convenzione (Jens Soering c. United Kingdom, decisione 10 novembre 1988, n. 14038/88; Cruz Varas and others v. Sweden, 20 febbraio 1991, n. 15576/89; Sellem c. Italie, 5 maggio 2009, n. 12584/08). E quale responsabilità è quella di uno Stato che dichiara di non sapere cosa sia accaduto a trentacinque persone? E alle altre mille che non hanno presentato alcun ricorso?

Questa clamorosa "distrazione" della Corte fa il paio con la questione alla base di tutta la sentenza vale a dire della mancanza di contatto tra ricorrenti e difensori, che farebbe venire meno l'interesse stesso della parte ad avere una sentenza della Corte europea. In effetti i difensori non hanno avuto più alcun contatto con i ricorrenti e di essi non erano noti elementi significativi oltre alla nazionalità e il nome. Si comprende quindi come la Corte si sia trovata in difficoltà a valutare il rischio attuale e concreto di violazione dell'art. 3 CEDU, in mancanza di fatti circostanziati per apprezzare la situazione individuale di ciascuno. Tuttavia è noto che l'esigenza dell'apprezzamento del rischio individuale è inversamente proporzionale alla situazione di rischio generalizzato di violazione dei diritti umani nel Paese di destinazione, come affermato dalla stessa Corte europea e, più recentemente, anche dalla Corte d giustizia dell'Unione europea (Corte di giustizia Elfagaji, 17 febbraio 2009, C-465/07). Un'affermazione della Corte a questo riguardo sarebbe stata quantomeno auspicabile anche per chiarire cosa implica secondo la Corte che uno Stato è responsabile nei casi di allontanamento verso uno Stato non parte della CEDU. In particolare sarebbe stata rilevante una pronuncia sugli obblighi degli Stati nei casi di respingimento, nei quali le operazioni di allontanamento sono caratterizzate da celerità e nelle quali l'incontro e il successivo contattato tra le persone potenzialmente interessate e i difensori è estremamente difficile, a maggior ragione quando si tratta di allontanamenti di un numero elevato di persone che hanno la possibilità di incontrare un solo difensore (per la cronaca, oltre alle notizie in questo sito, si v. l'articolo di F. Gatti e l'Osservatorio sulle vittime dell'emigrazione).

La Corte ha invece preferito decidere alla luce dell'art. 37, par. 1, lett. c) CEDU, che permette la cancellazione dal ruolo delle cause in qualsiasi momento della procedura quando la Corte accerti che la prosecuzione del giudizio non sia più giustificata. Secondo la Corte, infatti, la totale mancanza di collegamento tra i difensori e i ricorrenti è tale da impedire di conoscere la situazione personale di ciascuno di loro e quindi anche la violazione dell'art. 3 CEDU. La Corte non ha neanche ritenuto fondata l'applicazione dell'ultima parte dell'art. 37, par. 1 CEDU, in base alla quale "Tuttavia la Corte prosegue l'esame del ricorso qualora il rispetto dei diritti dell'uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi protocolli lo imponga". Proprio questo inciso avrebbe potuto consentire alla Corte di superare la questione della mancanza di contatto e valutare la responsabilità dello Stato non tanto alla luce del trattamento effettivamente subito dalle persone nello Stato di destinazione, quanto alla luce delle circostanze che consentono di sollevare uno Stato parte dalle proprie responsabilità, tra le quali non può non essere inclusa la conoscenza della destinazione delle persone respinte. Questo avrebbe potuto portare la Corte ad affermare il dovere dello Stato di identificare tutte le persone e di avere contezza circa la loro destinazione. La Corte ha invece affermato che tale onere grava sul difensore, il quale deve essere pronto a rilevare delle procure formalmente inattaccabili, interagire con la Corte di Strasburgo e contemporaneamente avere legami con gli Stati di destinazione se non vuole che il procedimento sia cancellato dal ruolo. La sentenza della Corte rischia dunque di avere risvolti molto gravi e potrebbe fungere da cartina di tornasole nelle mani dei Governi i quali, per sfuggire alla responsabilità derivanti dalla Convenzione europea dei diritti umani, devono affrettarsi a compiere il più celermente possibile i respingimenti e possibilmente verso Stati nei quali è più difficile instaurare rapporti con organizzazioni non governative o legali. Ci pare sia proprio quanto il Governo italiano sia orientato a fare, spostando l'ambito territoriale delle operazioni di contrasto dell'immigrazione irregolare in alto mare, dove difficilmente si può in instaurare un contatto tra avvocato e ricorrente, e rafforzando la cooperazione con la Libia.

Peraltro questo orientamento sposta il baricentro della tutela della Corte necessariamente nella tutela cautelare invocabile ai sensi dell'art. 39 del Regolamento di procedura della Corte. Nel caso di accoglimento di un provvedimento cautelare da parte della Corte europea, infatti, gli Stati sono obbligati a non procedere all'allontanamento così potendo soddisfare anche il requisito del mantenimento del contatto tra difensore e ricorrente in modo da impostare adeguatamente la difesa (Mamatkulov and Askarov v. Turkey, 4 febbraio 2005, n. 46827/99, 46951/99). Si prospetta quindi l'esigenza di fondare la tutela cautelare non solo per il rischio di subire la violazione dell'art. 3 CEDU ma anche della perdita di contatto con l'avvocato e, quindi, della vanificazione dell'effettiva tutela del diritto tutelato dalla Corte (Jabari v. Turkey, 11 luglio 2000, n. 40035/98). In altre parole la sentenza della Corte conferma che l'unico modo effettivo per garantire tutela ai ricorrenti sia quello di una loro permanenza nel territorio dello Stato parte della CEDU, che è l'esatto contrario di quanto previsto dalla normativa vigente in Italia e in molti altri Stati parti della CEDU, in materia di allontanamento.

Si consideri anche che i precedenti richiamati nella sentenza ai fini dell'applicazione dell'art. 37 CEDU riguardano casi nei quali la Corte desume dall'assenza di legami con i difensori la mancanza di interesse a proseguire il procedimento (Ali c. Suisse, 5 agosto 1998, n. 24881/1994, e Tubajika c. Pays-Bas, decisione 30 giugno 2009, n. 6864/06). L'applicazione analogica dei principi ivi affermati al caso di specie potrebbe essere giustificata rispetto a coloro per i quali la Corte aveva disposto una misura cautelare e che, in virtù di questa, non sono stati respinti dal Governo italiano. Costoro, pur se presenti nel territorio italiano, hanno preferito dileguarsi nei meandri dell'irregolarità, piuttosto che confidare nell'esito del procedimento giurisdizionale di fronte alla CEDU. Al contrario, per tutti gli altri respinti, non si può interpretare l'assenza di contatto con il difensore come una rinuncia al procedimento per mancanza di interesse, soprattutto non avendo alcuna informazione relativa alla loro sorte: la sola possibilità che la violazione degli artt. 2 e 3 CEDU si sia verificata impedisce una tale grottesca interpretazione. Altrove la Corte ha propriamente rilevato che "[...] 85. L'efficacia del diritto di ricorso implica anche che la Corte possa, durante tutto il procedimento, continuare a esaminare la richiesta secondo la procedura consueta. Nel caso di specie il ricorrente è stato espulso. Così, avendo perduto ogni contatto con il suo avvocato è stato privato della possibilità di richiedere, nell'ambito della disposizione delle prove, quelle indagini necessarie per provare quanto affermato [...] e che avrebbero potuto essere condotte anche dopo lo scambio di osservazioni. Le autorità tunisine hanno peraltro confermato che i difensori del ricorrente davanti alla Corte non poteva visitare il suo cliente in prigione" (Ben Khemais c. Italie, 6 luglio 2009, n. 246/07; traduzione mia).

Di certo la sentenza conferma che per i difensori dei diritti umani non si intravede un futuro roseo: per garantire l'esame da parte della Corte non solo dovrà sempre essere prestata molta attenzione agli aspetti formali del procedimento, ma si richiederà anche un'internazionalizzazione dell'attività per mantenere il contatto con i ricorrenti. Il massimo sforzo con la minima remunerazione eccetto per la grande soddisfazione, talvolta, di salvare o di cambiare la vita ad una persona.

La Corte avrà "presto" un'altra occasione per ritornare sulla questione con il ricorso n. 27765/09 presentato il 26 maggio 2009 contro i respingimenti dei migranti verso la Libia avvenuti nello stesso mese; auspichiamo che l'orientamento sia diverso e che non sia necessario attendere altri quattro anni prima della sentenza.