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12.02.2014
 
Matrimoni forzati e diritto d’asilo
 
a cura di Avv. Francesco Di Pietro

Con decisione del 26.11.2013, la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma ha riconosciuto lo status di rifugiato ad una richiedente asilo di nazionalità afghana. 
La vicenda dalla stessa riportata riguarda una persecuzione per motivi di genere connessa a matrimonio forzato.
Di tale storia si era occupata anche la stampa locale.
La richiedente si trovava in Italia già da alcuni anni, e la situazione di persecuzione è sopravvenuta rispetto alla sua partenza dall’Afghanistan (si tratta quindi di rifugiato “sur place”).
Quando, alcuni anni fa, la richiedente aveva lasciato l’Afghanistan, era in atto un violento conflitto tra due famiglie dello stesso villaggio (tra cui la sua famiglia di appartenenza), nato per questioni di possesso e di divisione di alcuni terreni.
In occasione di uno di questi dissidi, rimane ucciso un membro dell’altra famiglia ed altri due rimangono feriti. Il responsabile non sarà mai individuato.
Da allora son proseguite liti e violenze.
Quindi, i capi del villaggio e gli anziani si sono riuniti in un’assemblea (chiamata “Jirga”) e, per evitare ulteriori vendette, hanno deciso (oltre al fatto che i terreni sarebbero stati divisi in parti uguali tra le due famiglie) che la richiedente (che in quel momento si trovava già in Italia) sarebbe dovuta andare in sposa ad un membro dell’altra famiglia.
Veniva quindi costretta a tornare dall’Italia in Afghanistan al fine di procedere con la celebrazione del matrimonio.
Tale decisione è riportata in un documento che reca le firme di tutti capi dei diversi villaggi del distretto. Inoltre, dal documento risulta la partecipazione all’assemblea dello stesso governatore del distretto, il quale ha confermato per iscritto di essere d’accordo con la decisione presa (sul documento vi sono anche la sua firma ed il suo timbro).
Si evidenzia che, in Afghanistan, le decisioni assunte dal “Jirga” hanno un valore giuridico maggiore rispetto a quelle dello stesso governatore, il quale non può far altro che “ratificarle”.
Tale documento, e la relativa traduzione, venivano prodotti presso la Commissione Territoriale in sede di audizione.
La richiedente precisava inoltre, con memoria ed in sede di audizione, che neanche conosceva la persona che è obbligata a sposare. Di questi sapeva unicamente che era già sposato e padre di più figli.
La richiedente, quindi, sarebbe stata costretta a divenire la sua seconda moglie: in Afghanistan è praticata la poligamia. Ma più che una moglie sarebbe divenuta una “schiava” del marito e della sua famiglia.
Infatti, in Afghanistan, le donne costrette a sposarsi in circostanze simili (per decisione di un “Jirga”) vengono continuamente umiliate dalla famiglia in cui entrano, vengono trattate come serve, diventano una loro proprietà. Come a compensare la perdita del familiare ucciso. 
Non è un mero matrimonio: in realtà è quasi come finire in galera al posto dell’assassino.
Né possono poi, una volta sposate, essere difese dalla famiglia d’origine.
La richiedente precisava che tutto questo è la tradizione dell’etnia pashtun: terminare le liti e le inimicizie con il matrimonio di due persone delle due fazioni o famiglie in lotta.
Come detto, il “Jirga” ha poteri maggiori della stessa autorità governativa.
Basti pensare al fatto che il padre della richiedente, in totale disaccordo con la decisione presa dagli anziani, scriveva al governatore chiedendo di intervenire presso gli stessi al fine di far modificare la decisione riguardante il destino della figlia. Il padre affermava, in tale missiva, di essere disposto a rinunciare alla sua parte di terreno, piuttosto che vedere sposata la propria figlia in simili circostanze.
Ma la richiesta inoltrata dal governatore agli “anziani” veniva respinta ed il genitore veniva minacciato di far tornare la figlia dall’Italia.
A prova di tutto ciò, venivano prodotte presso la Commissione Territoriale le comunicazioni e-mail tra la richiedente e suo padre.
Quindi, i genitori non potevano affatto contrastare la decisione del “Jirga”. Fare diversamente avrebbe significato andare contro le decisioni della stessa comunità.
Sono quindi iniziate le minacce, anche con l’uso di armi.
Queste erano (e sono) effettuate da gruppi di Talebani armati, i quali hanno il compito di attuare le decisioni del “Jirga”. In un’occasione, questi hanno anche tentato di rapire un familiare.
La famiglia della richiedente è stata quindi costretta a lasciare la propria abitazione ed il villaggio. Sono stati poi, però, ritrovati dai Talebani e costretti a cambiare nuovamente abitazione.
Attualmente vivono in continua fuga.
In questo contesto, la figlia in Italia ha deciso di presentare domanda di protezione internazionale, poi accolta con il riconoscimento dello status di rifugiato (decisione del 26.11.2013 della Commissione Territoriale di Roma).

In riferimento al caso di specie, gli elementi di verosimiglianza erano costituiti da una precisione della storia narrata (son stati citati nominativamente i soggetti coinvolti, quali i capi villaggio ed il governatore di distretto), e dalla produzione del documento del “Jirga” in cui è scritta la decisione di matrimonio forzato.

Oltre alla prova della vicenda di persecuzione individuale, si è proceduto alla produzione di elementi volti ad evidenziare la pratica dei matrimoni forzati in Afghanistan e la condizione della donna in generale.
A tale fine si è stata effettuata la produzione dei seguenti articoli e dossier:

- Scheda “Afghanistan” in www.ecoi.net , pagina circa matrimoni forzati e precoci (1.8.2008). 
- Articolo “Afghan Woman Hangs Herself Over Arranged Marriage” in http://bulletinoftheoppressionofwomen.com (7.6.2012).
- Articolo “Vulnerable Afghan women flown to Slovakia en route to resettlement” in www.unhcr.org (25.4.2012).
- Articolo “Liberation Eludes Afghan Women. Forced Marriages, Beatings, Suicides Persist Despite Taliban’s Fall” in www.commondreams.org (16.4.2004).
- “Implementation of the Elimination of Violence against Women law in Afghanistan”, dicembre 2012, in http://unama.unmissions.org , sito dell’U.N.A.M.A. (United Nations Assistance Mission in Afghanistan).
- Articolo “Afghan women gain education and rights but still face abuse, forced marriages” in www.washingtonpost.com (25.9.2013).
- Dossier “Human Rights Watch”, “I Had To Run Away. The Imprisonment of Women and Girls for Moral Crimes in Afghanistan”, in www.hrw.org (28.3.2012).
- Dossier A.R.E.U. (Afghanistan Research and Evaluation Unit), “Decisions, Desires and Diversity: Marriage Practices in Afghanistan”, in www.areu.org (febbraio 2009).

* * *

Il caso di specie offre lo spunto per un breve approfondimento della tematica del diritto d’asilo connesso a matrimonio forzato.
Innanzitutto, è da rilevare che tale problematica rientra in quella più ampia della persecuzione per motivi di genere e di orientamento sessuale. La donna ed i soggetti LGBT sono spesso categorie vulnerabili che si affacciano al sistema di protezione internazionale.

Negli ultimi anni, le donne richiedenti asilo riferiscono vicende di persecuzione non solo per motivi di razza, religione, nazionalità e opinione politica (come gli uomini), ma anche a causa del sesso o del genere: le donne subiscono specifiche forme di persecuzione a causa del loro essere donne.

Tali persecuzioni possono derivare da leggi, politiche e attività statali che discriminano le donne e violano i loro diritti umani.
Si citano ad esempio: sistemi di tutela legale contrassegnati dalla mancanza di parità di status giuridico; ordinamenti giuridici nazionali che criminalizzano l’atto sessuale compiuto al di fuori del matrimonio e/o l’adulterio; leggi che criminalizzano alcuni abbigliamenti o comportamenti femminili; leggi discriminatorie in materia di custodia dei figli e di lavoro; pratiche e politiche sanitarie coercitive in materia sessuale e riproduttiva (ad esempio gli aborti e le sterilizzazioni forzate); la criminalizzazione di operazioni sanitarie di specifica necessità per le donne.
Oltre che da autorità statali, le persecuzioni basate sul sesso o sul genere possono derivare anche dall’azione di soggetti non statali e nell’incapacità dello Stato di prevenire o vietare efficacemente tali comportamenti (ed il caso che ci ha occupato rientra tra questi).
Alcuni esempi: pratiche dannose nei confronti delle donne e delle bambine, violenza sessuale, violenza domestica, delitti d’onore, violenze e molestie sul luogo di lavoro e privazione di libertà.

Circa la normativa rilevante sul tema, è innanzitutto da evidenziare che la persecuzione fondata sul genere o sul sesso non è espressamente prevista come motivo per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951.
Però è evidente che la persecuzione della donna in relazione al suo sesso o genere può conferirle, se vi sono gli altri requisiti, il diritto allo status di rifugiato ai sensi della Convenzione stessa.

Sul punto, il d.lgs. n. 251/07 (in attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta) prevede la possibilità di rivendicare il diritto alla protezione internazionale sulla base del genere e dell’orientamento sessuale.
L’art. 7 (“Atti di persecuzione”) del citato decreto prevede che lo status di rifugiato possa essere riconosciuto a persone che dimostrino di essere state vittime (o di avere fondato timore) di atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale (comma 2, lett. a) o di atti specificamente diretti contro un genere sessuale (comma 2, lett. f).
L’art. 8 dello stesso decreto prevede che gli atti di persecuzione possano essere ricondotti all’appartenenza a un “particolare gruppo sociale” (comma 1, lett. d). In relazione alla situazione nel Paese d’origine, il “particolare gruppo sociale” può essere individuato anche in base alla caratteristica comune dell’orientamento sessuale, così come dell’appartenenza ad un genere.

Più esattamente, per identificare un “gruppo sociale”, l’UNHCR adotta il seguente parametro: “Un determinato gruppo sociale è un gruppo di persone che condividono una caratteristica comune diversa da quella del rischio di essere perseguitati, o che sono percepiti come un gruppo dalla società. La caratteristica sarà spesso quella di essere innata, immutabile, o che sia comunque fondamentale per l’identità, la coscienza o l’esercizio dei propri diritti umani”.

Come detto, le donne spesso devono affrontare persecuzioni legate al loro sesso o genere: esse costituiscono quindi un particolare gruppo sociale ai fini dello status di rifugiato. Lo stesso vale per le persone LGBT. La dimensione del gruppo o una mancanza di coesione sono irrilevanti. Inoltre, il rischio di persecuzione in questione non necessariamente deve esistere per tutti i membri.

La persecuzione per motivi di genere può affiancarsi ad una persecuzione per uno o più dei motivi previsti dalla Convenzione. Si pensi al caso di una donna che non osservi dei precetti religiosi che attribuiscono specifici ruoli agli uomini e alle donne, o radicano stereotipi riguardanti il genere, ed alla persecuzione per motivi religiosi che ne consegue. Il tal caso la persecuzione sarà sia per motivi di genere sia per motivi religiosi.

Negli ultimi anni stanno aumentando le situazioni in cui le donne si trovano ad essere vittime di violenza, persecuzione e discriminazione.
In base ad un documento dell’UNHCR del 2008 (“Handbook for the Protection of Women and Girls”), le donne dagli anni novanta sono particolarmente colpite nei contesti di “nuove guerre”.
Nello specifico, la violenza sessuale (nella più ampia definizione di cui all’acronimo inglese “SGBV”, che sta per “sexual and gender-based violence” e che comprende stupro, gravidanze e aborti forzati, tratta, matrimoni forzati, schiavitù sessuale e la diffusione intenzionale di malattie sessualmente trasmesse, tra cui HIV/AIDS) è una delle caratteristiche dei conflitti armati contemporanei.
Il corpo delle donne è usato come una zona di guerra.

Andando più sullo specifico dei matrimoni forzati, la loro riconducibilità alla persecuzione per motivi di genere trova conforto nelle “Linee guide” dell’UNHCR che definiscono la violenza basata sul genere come quella violenza diretta contro una persona sulla base del suo genere o sesso.
Essa comprende azioni che infliggono danno o sofferenza fisici, mentali o sessuali, minacce di tali atti, coercizione e altre forme di privazione della libertà. Dovrà comprendere, ma non limitarsi a quanto segue:
a) La violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene in famiglia, incluse le percosse, lo sfruttamento sessuale, l’abuso sessuale delle bambine nel luogo domestico, la violenza legata alla dote, lo stupro da parte del marito, le mutilazioni genitali femminili e altre pratiche tradizionali dannose per le donne, la violenza non maritale e la violenza legata allo sfruttamento;
b) La violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene all’interno della comunità nel suo complesso, incluso lo stupro, l’abuso sessuale, la molestia sessuale e l’intimidazione sul posto di lavoro, negli istituti educativi e altrove, il traffico delle donne e la prostituzione forzata;
c) La violenza fisica, sessuale e psicologica perpetrata o giustificata da parte dello Stato e delle istituzioni, ovunque essa si verifichi.

Le citate “Linee guida” elencano poi le seguenti “pratiche tradizionali dannose”:
- Mutilazione genitale femminile;
- Matrimonio precoce;
- Matrimonio forzato;
- Omicidio e mutilazione d’onore;
- Infanticidio e/o abbandono;
- Negazione dell’istruzione per ragazze o donne.

Sulla tematica del diritto d’asilo connesso a matrimonio forzato, si registra la recente Cass. Civ., sez. IV-1, sent. 18.11.2013, n. 25873.
Tale pronuncia riguarda il caso di una giovane donna nigeriana fuggita dalla famiglia e dal proprio paese dopo aver subito violenza e pressioni di ogni genere da parte del padre e della matrigna che volevano imporle il matrimonio con un uomo di settantadue anni.
Secondo la S.C., alla donna non può essere riconosciuto lo status di rifugiato politico, perché le circostanze riferite non rientrano nei motivi di persecuzione in base ai quali si assicura la protezione di cui all’art. 8, d.lgs n. 251/2007, il quale prevede esclusivamente i motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica.
La Cassazione però afferma che la costrizione di una donna a un matrimonio forzato costituisce grave violazione della sua dignità, e dunque trattamento degradante ai sensi dell’art. 14 lett. b) d.lgs. n. 251/2007, che configura a sua volta danno grave ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria.
La S.C. omette di considerare che, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, rileva anche l’appartenenza ad un genere: anch’esso è “gruppo sociale”, per i motivi di cui si è detto.

Il matrimonio forzato ha poi un’ulteriore rilevanza (oltre che come persecuzione per motivi di genere) come particolare forma di schiavitù.
La schiavitù è vietata in numerosi trattati, in particolare dalla Convenzione sulla schiavitù del 1926, che la definisce come lo “stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano alcuni o tutti i poteri inerenti al diritto di proprietà”.
La “Convenzione supplementare relativa all’abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e delle istituzioni o pratiche analoghe alla schiavitù” del 1956 (art. 1), vincola gli Stati Contraenti a vietare pratiche analoghe alla schiavitù, comprendendo la servitù per debiti, la servitù, lo sfruttamento del lavoro minorile, e appunto il matrimonio forzato.
La Camera d’Appello del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia ha sottolineato lo sviluppo del concetto di schiavitù: “il tradizionale concetto di schiavitù, definito nella Convenzione sulla schiavitù del 1926 e riferito spesso come “schiavitù mobiliare”, si è evoluto fino a comprendere varie forme contemporanee di schiavitù che sono anche basate sull’esercizio di alcune o tutte le facoltà inerenti al diritto di proprietà. […] La Camera d’Appello ritiene che il problema di determinare se un particolare fenomeno costituisca una forma di schiavitù dipenderà dal […] “controllo sui movimenti [dell’individuo], dal controllo dell’ambiente fisico, dal controllo psicologico, dalle misure adottate per prevenire o scoraggiare la fuga, l’uso o la minaccia della forza o la coercizione, la durata, la rivendicazione di esclusività, la soggezione a trattamenti crudeli e abusi, il controllo della sessualità e il lavoro forzato”.
Nel caso che ci ha occupato, rilevano diversi degli aspetti sopra evidenziati. Infatti, come anche evidenziato presso la Commissione Territoriale, il matrimonio forzato seguente a decisione di un “Jirga” in Afghanistan comporta per la donna il divenire una serva del marito e della famiglia in cui entrerà a far parte.