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29.08.2013
 
Tribunale di Milano: Il lungosoggiornante non puņ essere escluso dalla professione di consulente del lavoro. Esclusione inconciliabile con la direttiva europea 109/2003
 

Il giudice del lavoro del Tribunale di Milano, con ordinanza cautelare ex art. 700 c.p.c. del 29 agosto 2013, ha ordinato al Ministero del Lavoro – Direzione regionale del Lavoro di Milano, di ammettere con riserva una cittadina albanese soggiornante di lungo periodo in base all’art. 9 del T.U. imm. attuativo della direttiva europea n. 109/2003, alla sessione delle  prove dell’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di consulente del lavoro, in programma i prossimi 3-4 settembre a Milano.

La cittadina albanese era stata esclusa dall’ammissione alle prove di esame con un provvedimento emesso dalla Direzione regionale del Lavoro di Milano lo scorso 24 luglio sulla base di quanto previsto dall’art. 3 comma 2, lett. a) della legge 11 gennaio 1979, n. 12, così come modificata dalla legge n. 46 del 6 aprile 2007, secondo cui l’esercizio della professione di consulente del lavoro in Italia viene riservata ai soli cittadini italiani o italiani appartenenti ai territori non uniti politicamente all’Italia ovvero ai cittadini di Stati dell’Unione europea o di Stati terzi nei cui confronti vige una condizione di reciprocità, non sussistente con l’Albania.

Il giudice del lavoro di Milano ha accolto l’istanza cautelare richiesta dalla ricorrente, sostenendo che il comportamento della Direzione regionale del lavoro  di Milano configuri prima facie una condotta discriminatoria, perchè introduce una disparità di trattamento nell’accesso al lavoro a danno di un cittadino lungosoggiornante, in contrasto con la direttiva europea 2003/109.

L’ordinanza cautelare del giudice del lavoro di Milano evidenzia, infatti, che l’art. 11 comma 1 della direttiva 109/2003  introduce un principio di parità di trattamento a favore del lungosoggiornante per quanto riguarda l’esercizio delle attività lavorative subordinate o autonome, con la sola eccezione di quelle attività che  implichino anche solo in via occasionale la partecipazione all’esercizio di pubblici poteri. Sebbene la direttiva consenta agli Stati membri di fissare limitazioni all’accesso al lavoro subordinato o autonomo nei casi in cui la legislazione nazionale o comunitaria in vigore riservino dette attività ai cittadini dello Stato membro, dell’Unione europea e o della SEE, tale potere di deroga deve essere interpretato restrittivamente, in quanto configura delle eccezioni al  principio di parità di trattamento quale ‘principio generale del diritto dell’Unione’, di immediata e diretta applicazione negli ordinamenti interni degli Stati membri e sovraordinato rispetto a legislazione nazionali ad esso incompatibili.

Pertanto, la facoltà di deroga deve essere innanzitutto espressamente ed univocamente esercitata dagli Stati membri in sede di recepimento della direttiva e comunque deve essere interpretata restrittivamente  tenendo conto della finalità della direttiva, ovvero l’integrazione dei cittadini di Stati terzi che abbiano soggiornato legalmente a titolo duraturo negli Stati membri. A tale riguardo, pertanto, il giudice del lavoro di Milano  afferma come non possa essere accolta la tesi del Ministero del Lavoro secondo cui l’Italia avrebbe legittimamente esercitato la facoltà di deroga in sede di recepimento della direttiva 109/2003 con il d.lgs. n. 3/2007 prevedendo che il titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungoperiodo possa svolgere nel territorio dello Stato ogni attività di lavoro subordinata o autonoma, “salvo quelle che la legge espressamente riserva al cittadino e vieta allo straniero” (art. 9 comma 12 d.lgs. n. 286/98), con questo mantenendo in vigore integralmente la normativa preesistente di cui alla legge 11 gennaio 1979, n. 12.  Secondo il tribunale di Milano, il legislatore non avrebbe previsto  una deroga espressa, ma generica, e dunque inconciliabile con i criteri interpretativi fatti propri dalla Corte di Giustizia europea. Inoltre,  la ratio interpretativa della norma europea, alla luce delle sue finalità, appare quella di restringere la facoltà di deroga degli Stati membri alle sole posizioni lavorative che implichino l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri o di funzioni rilevanti per l’interesse nazionale e la professione di consulente del lavoro non appartiene a detta categoria.

Il giudice del lavoro di Milano, pertanto, conclude per la necessaria disapplicazione della normativa nazionale sui requisiti di ammissione alla professione di consulente del lavoro, in quanto confliggente con le norme della direttiva europea 2003/109 e con il principio generale di diritto europeo di non-discriminazione, aventi carattere di immediata e sovraordinata applicazione nell’ordinamento interno rispetto a norme interne incompatibili.

La vicenda oggetto del provvedimento del giudice di Milano mette ancora una volta in evidenza la scarsa qualità degli strumenti  di  recepimento nel diritto interno  delle direttive europee in materia di immigrazione, asilo e non discriminazione, quando il legislatore italiano  si limita semplicemente a riformulare o riprendere genericamente le disposizioni e i principi generali contenute nelle direttive, senza invece  innestarli  nelle normative interne di settore, attraverso la revisione e l’opportuna modifica  delle parti contrarie ai principi di parità di trattamento contenuti nelle normative europee.

Si ringrazia per la segnalazione l’Avv. Alberto Guariso, del Foro di Milano. 

A cura del servizio antidiscriminazioni dell’ASGI, progetto finanziato con il sostegno finanziario della Fondazione italiana a finalità umanitarie Charlemagne ONLUS.