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17.01.2013
 
CEDU: La manifestazione del proprio credo religioso nell’ambito lavorativo trova il limite della protezione dei diritti altrui, tra cui quello a non essere discriminati per motivi di orientamento sessuale
 

Con la sentenza del 15 gennaio 2013, Eweida and others v. United Kingdom, la Corte europea dei diritti dell’Uomo è intervenuta sulla questione dei limiti all’esercizio della libertà religiosa e  alla conseguente manifestazione esterna del credo religioso nelle relazioni lavorative.

Quattro situazioni  si presentavano dinanzi alla Corte di Strasburgo.

La prima riguardava  un’impiegata addetta al check-in della compagnia aerea British Airways che era stata per un certo periodo sospesa dall’impiego per non aver voluto ottemperare alla richiesta del datore di lavoro di non esibire una catenina con un crocifisso sopra l’uniforme di servizio.

Il secondo caso riguardava un’infermiera di un reparto geriatrico di un ospedale pubblico trasferita  ad altre mansioni per il suo rifiuto di ottemperare alla richiesta del management di togliere la collanina attorno al collo cui era appeso un crocifisso oppure, in alternativa,  di indossarla sotto una dolcevita o di apporre il crocifisso a mo’ di spilla sull’uniforme di servizio.

Il terzo caso riguardava un ufficiale di stato civile impiegato presso un’autorità comunale licenziato dopo essersi opposto, per motivi religiosi,  a celebrare unioni civili registrate tra partner dello stesso sesso, legalizzate nel Regno Unito dalla legislazione del 2004.

Il quarto caso riguardava un consulente psicologico per la terapia psico-sessuale di coppia, impiegato presso un’associazione privata, sottoposto a procedimento disciplinare dal datore di lavoro per il suo rifiuto di fornire consulenza terapeutica a coppie omosessuali.

La Corte di Strasburgo ha riunito i quattro ricorsi, ritenendo che dovevano essere tutti esaminati sotto il comune  spettro della possibile violazione della libertà di pensiero, coscienza e religione di cui all’art. 9 e del divieto di discriminazioni di cui all’art. 14 CEDU.

In base alla prima norma,  le limitazioni alla libertà di manifestazione del proprio credo religioso possono essere soggette a restrizioni ed interferenze solo se rispondenti a finalità legittime in una società democratica, volte a perseguire in maniera proporzionata obiettivi di pubblica sicurezza, protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica o la protezione di altrui diritti fondamentali parimenti meritevoli di protezione.

In base alla seconda norma, una violazione del divieto di discriminazioni  sorge non solo quanto persone in posizioni analoghe vengono fatte oggetto di trattamenti differenziati, ma anche quando persone obiettivamente in situazione diversa vengono trattate in maniera identica, in entrambi i casi senza una ragionevole ed obiettiva giustificazione.

Di conseguenza, la Corte di Strasburgo ha esaminato le quattro situazioni valutando se i ricorrenti potessero legittimamente vantare un diritto ad ottenere un’eccezione, fondata sulle loro credenze e convinzioni religiose, all’applicazione delle regole generali relative all’abbigliamento o uniforme di servizio e/o al mansionario richiesto al personale, ovvero se il loro assoggettamento alle regole generali, con conseguente misure disciplinari o di licenziamento,  avesse dato luogo a forme vietate di discriminazione indiretta e di violazione del diritto alla libertà religiosa.

La metodologia comune applicata nei quattro casi dalla Corte è stata quella fondata sul riconoscimento di un conflitto tra diritti ed interessi fondamentali e/o legittimi parimenti meritevoli di protezione con conseguente necessità di un equo bilanciamento da compiersi a seconda delle circostanze di ogni singola situazione concreta e tenendo conto del principio dell’ampio margine di apprezzamento lasciato alle autorità nazionali.

Di conseguenza, solo nel primo caso, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto una violazione da parte del Regno Unito del diritto della ricorrente all’esercizio della libertà di manifestazione del proprio credo religioso. Nel caso infatti della sig.ra Eweida, addetta al check-in della compagnia aerea British Airways, il suo desiderio di indossare una catenina con il crocifisso sopra l’uniforme di servizio è stato ritenuto espressione del diritto alla manifestazione del proprio credo religioso, e dunque del diritto fondamentale alla libertà religiosa, da ritenersi prevalente, nelle circostanze dello specifico caso, sull’interesse del datore di lavoro a proteggere la propria ‘immagine’ o ‘marchio’ aziendale mediante l’imposizione di un ‘uniforme di servizio. Al fine di trovare un giusto equilibrio tra i due interessi in gioco, prendendo una decisione in  favore della libertà religiosa dell’impiegata, la Corte ha considerato le circostanze specifiche del caso, ovvero il fatto che la compagnia aerea aveva invece consentito l’adattamento dell’uniforme di servizio per impiegati di altre fedi religiose, ovvero a personale di religione Sikh di indossare il turbante o personale femminile di religione islamica di indossare il velo o hijab, senza che questo avesse avuto un impatto negativo sull’immagine della compagnia, così come successivamente alla temporanea sospensione dal servizio della ricorrente, aveva modificato la propria politica in materia di ‘uniforme di servizio’ consentendo al personale di indossare in forma visibile gioielleria ‘religiosamente connotata’, segno dunque che la precedente proibizione non avesse una vitale importanza.

Nel caso, solo apparentemente analogo, dell’infermiera impiegata presso il reparto ospedaliero geriatrico,  invece, la Corte di Strasburgo non ha ritenuto che il divieto opposto dal management ospedaliero di indossare la catenina con il crocifisso costituisse una violazione del diritto alla libertà religiosa dell’infermiera o una discriminazione indiretta fondata sul credo religioso. Questo in quanto le ragioni legittime di salute e sicurezza del personale ospedaliero e dei pazienti, per il timore che la catenina, potesse, pendendo dal collo dell’infermiera venire in contatto con ferite infette, o offrire la possibilità ai degenti di aggrapparcisi sopra, cagionando rischi a loro stessi o all’interessata, sono state ritenute dalla Corte di rilevanza molto maggiore rispetto a quelle addotte dal datore di lavoro nel caso Eweida esaminato in precedenza, e tali dunque da essere prudentemente lasciate alla valutazione delle autorità nazionali, secondo il criterio del ampio margine di discrezionalità nel bilanciamento tra opposti interessi in gioco.

Nel caso della terza ricorrente, la Corte non ha ritenuto che potesse sussistere un diritto dell’ufficiale di stato civile ad invocare un trattamento differenziato rispetto agli altri ufficiali di stato civile che lo esentasse dal celebrare le unioni registrate tra persone dello stesso sesso; diritto che discendesse all’esercizio della libertà religiosa e dal divieto di discriminazioni fondate sul credo religioso.

Nel caso in questione, infatti, la Corte ha affermato che il diritto alla manifestazione della libertà religiosa del lavoratore trova un limite nella tutela delle relazioni familiari delle coppie omosessuali e nel divieto di discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale;  principi aventi pure natura di diritti fondamentali come riconosciuto dalla giurisprudenza della stessa Corte di Strasburgo (sentenza Schalk and Kopf v. Austria n. 30141/04), dalla quale si può concludere che le coppie formate da persone dello stesso sesso hanno diritto alla pari delle coppie eterosessuali a forme di protezione delle loro relazioni familiari e di riconoscimento legale, anche se tale diritto non appare ancora compiutamente consolidato nell’esperienza complessiva dei Paesi del Consiglio d’Europa, ma è ancora in fase evolutiva, sussistendo a favore degli Stati membri un certo margine di apprezzamento circa le modalità per realizzare tale riconoscimento e tale protezione nei rispettivi ordinamenti interni. Cosi’, come nel secondo caso, la Corte di Strasburgo ha dunque concluso the trattandosi di un conflitto tra diritti fondamentali parimenti meritevoli di protezione in base alla CEDU, sussistevano le ragioni per applicare il principio dell’ampio margine di apprezzamento lasciato alle autorità nazionali.

Lo stesso ragionamento è stato utilizzato nel quarto ed ultimo caso, ove la Corte ha ugualmente considerato che  il diritto alla libertà religiosa rivendicato dal terapista psico-sessuale nella direzione di non offrire i propri servizi a coppie omosessuali, sebbene ricadente sotto la protezione offerta dall’art. 9 CEDU, trova il suo limite nella protezione dei diritti delle persone omosessuali  da  forme di discriminazione fondate sull’orientamento sessuale. Ne consegue  che le autorità giudiziarie del Regno Unito, nel ritenere  prevalenti le ragioni del datore di lavoro di assicurare la fornitura di servizi all’utenza secondo una rigorosa politica di pari opportunità e di non discriminazione, rispetto a quelle della libertà religiosa del terapista, non hanno ecceduto dal principio del legittimo margine di apprezzamento lasciato agli Stati membri.

 

Commento a cura di Walter Citti, servizio di supporto giuridico contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose. Progetto ASGI con il sostegno finanziario della Fondazione italiana a finalità umanitarie  Charlemagne ONLUS.