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Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sentenza del 4 giugno 2013, n. 5568
 
In merito alla richiesta di concessione della cittadinanza italiana, il TAR Lazio ha accolto il ricorso di un cittadino straniero con disabilità basandosi sulla legge 6/2006 sull’amministrazione di sostegno.Il Tribunale ha ritenuto che l’Ads avesse il potere di sottoscrivere per l’interessato, il quale comunque non aveva perduto la capacità di agire..
 
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda Quater)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5332 del 2011, proposto da: *****, rappresentato e difeso dagli avv. Alfonso Amoroso, Anna Maria Cardona, con domicilio eletto presso Alfonso Amoroso in Roma, via A. Davila, 89;

contro

Ministero dell'Interno, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; U.T.G. - Prefettura di Roma;

per l'annullamento

decreto del Ministro dell’interno del 23.03.11 con il quale e' stata dichiarata l'inammissibilita' della richiesta di concessione della cittadinanza italiana nei confronti di *****

nonché per il risarcimento dei danni

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 dicembre 2012 il dott. Maria Laura Maddalena e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con il ricorso in epigrafe, la ricorrente, in qualità di amministratrice di sostegno di *****, previa autorizzazione del giudice tutelare, agisce nel presente giudizio per ottenere l’annullamento del provvedimento con cui è stata dichiarata inammissibile l’ istanza di concessione della cittadinanza italiana dalla stessa presentata per *****, in quanto la disabile non sarebbe in grado di manifestare la propria volontà di diventare cittadina italiana.

Espone nel ricorso che ***** è affetta da una grave disabilità consistente in un deficit intellettivo di grado medio grave, con assenza di linguaggio verbale e disturbo della coordinazione motoria. La ragazza, nata a Roma da genitori bosniaci da sempre residenti in Italia, ha frequentato e frequenta le scuole italiane, comprende – pur non potendo parlare – la lingua italiana e si considera, nonostante la sua grave disabilità, una cittadina italiana.

Con il primo motivo, la ricorrente sostiene, in qualità di amministratrice di sostegno, di poter gestire i rapporti tra l’amministrato e la pubblica amministrazione per garantire e promuovere i suoi diritti e che solo gli atti di straordinaria amministrazione, di cui agli artt. 374 e 375 c.c. le sono preclusi senza autorizzazione del giudice tutelare. In ogni caso, poi, - prosegue la ricorrente - l’amministrazione non avrebbe dovuto ritenerne causa di inammissibilità dell’istanza il fatto che essa fosse stata firmata da essa amministratore di sostegno ma al più avrebbe potuto eventualmente richiedere l’autorizzazione del giudice tutelare.

Inoltre, la ricorrente contesta la motivazione del provvedimento concernente l’incapacità ad esprimersi della *****, che avrebbe determinato l’impossibilità di valutare il suo grado di conoscenza della lingua italiana, in quanto ella dopo 18 anni di scolarizzazione di certo comprende la lingua italiana anche se non è in grado di esprimersi.

Deduce inoltre la violazione della convenzione ONU sui diritti della disabilità, ratificata anche dallo Stato italiano, la quale garantisce ai disabili il diritto di scegliere la propria cittadinanza.

All’odierna udienza la causa è stata trattenuta in decisione.

Va preliminarmente rilevato, a proposito del quadro normativo di riferimento, che nel 1971, è stata adottata la Dichiarazione ONU dei diritti delle persone affette da ritardo mentale (adottata dall'assemblea generale delle Nazioni Unite nella seduta plenaria n. 2027 del 20 dicembre 1971) e, nel 1975, la Dichiarazione ONU dei diritti delle persone disabili (emanata con la risoluzione n.3447 del 9 dicembre 1975).

La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, alla quale il Trattato di Lisbona ha conferito dal 2009 l'efficacia vincolante dei trattati, contiene un esplicito riferimento al divieto di discriminazione per disabilità all'art. 21 e all’ art. 26 si occupa del diritto della persona disabile a beneficiare di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità.

Va infine menzionata la Convenzione dell'ONU sui diritti delle persone con disabilità, firmata a New York il 13 dicembre 2006, primo strumento internazionale con valore vincolante, ratificata dall'Italia con la l. 3 marzo 2009, n.18 . All’18, detta convenzione disciplina la libertà di movimento e cittadinanza, prevendendo che: “1. Gli Stati Parti riconoscono alle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri, il diritto alla libertà di movimento, alla libertà di scelta della propria residenza e il diritto alla cittadinanza, anche assicurando che le persone con disabilità:

(a) abbiano il diritto di acquisire e cambiare la cittadinanza e non siano private della cittadinanza arbitrariamente o a causa della loro disabilità;”.

Nella normativa nazionale, va in primo luogo ricordato che l'art. 3 l. 5 febbraio 1992, n.104 così definisce la persona handicappata: «colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione».

La stessa norma, al terzo comma, definisce la situazione di handicap grave come quella situazione in cui la minorazione riduce l'autonomia personale in modo tale da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione.

Con la l. 1 marzo 2006, n. 67, nella legislazione italiana non si parla più di “persona handicappata” ma si usa il termine «persona con disabilità». Quest’ultima legge, inoltre, detta un disciplina delle ipotesi di discriminazione, distinguendo tra discriminazione diretta e discriminazione indiretta, e specifica che si ha discriminazione diretta quando una persona viene trattata, proprio per motivi connessi alla sua disabilità, meno favorevolmente di quanto sia o sarebbe trattata una persona non disabile, mentre si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un comportamento non sono apertamente discriminatori ma sono tali da mettere la persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.

La stessa l. n. 67 del 2006 prevede inoltre uno speciale procedimento per la tutela giurisdizionale avverso gli atti e i comportamenti discriminatori e riconosce espressamente il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale derivante da dette forme di discriminazione.

Così ricostruito il quadro normativo internazionale e nazionale, si può procedere all’esame nel merito del ricorso, il quale è fondato e pertanto deve essere accolto.

Il provvedimento impugnato ha dichiarato inammissibile l’istanza di concessione della cittadinanza italiana presentata, per conto di *****, dalla amministratrice di sostegno, in quanto la richiedente non sarebbe in grado di manifestare la propria volontà, essendo la richiesta firmata dalla amministratrice di sostegno, mentre invece l’art. 3 DPR 445/2000 prescrive che le istanze da produrre alla pubblica amministrazione debbano essere sottoscritte dall’interessato in presenza del dipendente. Nel provvedimento, inoltre, si rileva che la richiedente non sarebbe nemmeno capace di esprimersi.

Nella comunicazione di preavviso di rigetto del 10 agosto 2010, si legge inoltre che l’incapacità della istante di esprimersi le precluderebbe la possibilità di manifestare uno specifico atto di volontà e impedirebbe inoltre alla amministrazione di valutare la sua conoscenza della lingua italiana.

L’amministrazione, pertanto, aveva invitato la richiedente a sanare la propria istanza mediante l’apposizione della propria firma, preannunciando, in mancanza, l’adozione di un provvedimento di inammissibilità dell’istanza.

Le questioni poste all’attenzione di questo giudice concernono: in primo luogo la possibilità per il disabile a tutela del quale sia stato nominato un amministratore di sostegno di presentare l’istanza volta al rilascio della cittadinanza per tramite di detto amministratore e, in secondo luogo, - qualora sia ritenuta valida un’istanza così presentata - le modalità con cui il medesimo manifestare tale volontà di diventare cittadino italiano.

In relazione alla prima questione, la ricorrente deduce con il primo motivo, di poter gestire in qualità di amministratrice di sostegno, i rapporti tra l’amministrato e la pubblica amministrazione per garantire e promuovere i suoi diritti e che solo gli atti di straordinaria amministrazione, di cui agli artt. 374 e 375 c.c. le sono preclusi senza autorizzazione del giudice tutelare. In ogni caso, poi, l’amministrazione non avrebbe dovuto ritenerne causa di inammissibilità dell’istanza il fatto che essa fosse stata firmata da essa amministratore di sostegno ma al più avrebbe potuto eventualmente richiedere l’autorizzazione del giudice tutelare.

Il motivo è fondato.

Va preliminarmente rilevato che la figura dell’amministratore di sostegno, recentemente introdotta nel nostro ordinamento, è finalizzata a dare assistenza a coloro che si trovano nella impossibilità di provvedere ai propri interessi per una infermità fisica o psichica (art. 404 c.c.), senza tuttavia privarlo della capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno (art. 409 c.c.).

In relazione alla asserita inidoneità della firma dell’amministratore di sostegno, sostenuta nel provvedimento impugnato a motivo della inammissibilità dell’istanza, osserva il collegio che l’art. 405 c.c. prevede, a proposito del decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, che debbano essere individuati gli atti che l’amministratore di sostegno può compiere in nome e per conto del beneficiario. Gli ulteriori atti andranno autorizzati o previamente comunicati al giudice tutelare.

Nel decreto con il quale la sig. ra ***** è stata nominata amministratrice di sostegno della ***** al punto 4 del decreto di nomina dell’amministratore di sostegno, il giudice tutelare ha autorizzato la sig.ra ***** “a gestire i rapporti (…) con ogni amministrazione pubblica o privata, per promuovere la cura ed i diritti della Beneficiaria, assolvendo agli oneri ed adempimenti formali e fiscali”.

Considerato che le istanze di riconoscimento della cittadinanza non possono che essere presentate per iscritto, questo può essere considerato un adempimento formale inerente ai rapporti con una pubblica amministrazione.

In questo quadro, l’amministrazione non poteva ritenere causa di inammissibilità dell’istanza la mera circostanza che essa fosse stata firmata dalla amministratrice di sostegno anziché dalla beneficiaria (la quale è impossibilitata ad apporre la propria firma), ma al più avrebbe potuto eventualmente richiedere prova della preventiva comunicazione o autorizzazione del giudice tutelare sul punto,anche se tale profilo non è stato comunque menzionato nel provvedimento impugnato.Peraltro, va rilevato che la presentazione del presente ricorso è stata invece regolarmente autorizzata dal giudice tutelare.

Superata così la questione della sottoscrizione dell’istanza, resta da esaminare il ben più rilevante problema concernente la possibilità di valutare, nel caso di specie, la sussistenza di un’effettiva volontà della beneficiaria dell’amministrazione di sostegno di divenire cittadina italiana, considerata la sua incapacità di esprimersi nel linguaggio corrente.

Occorre infatti precisare che la manifestazione di volontà di diventare cittadino italiano costituisce un atto personalissimo e pertanto non surrogabile; nel caso di specie tuttavia la beneficiaria non è stata privata della capacità di agire in quanto nel decreto di nomina dell’amministratore di sostegno non è stato menzionato questo profilo, e pertanto ella – giuridicamente – è in grado di manifestare tale volontà, anche se poi dovrà essere verificato se disponga della capacità naturale per farlo in concreto.

In relazione a questo aspetto,e alla questione dell’asserita impossibilità di valutare la conoscenza della lingua italiana , profilo evidenziato anche nella comunicazione di preavviso di rigetto, la ricorrente ha dedotto il difetto di istruttoria e la violazione della convenzione sulla disabilità, ratificata con l. n. 18 del 2009.

Ritiene il collegio che la carenza del linguaggio verbale non può essere motivo per ritenere una persona incapace di manifestare la propria volontà né per sostenere che essa non possa in altro modo dimostrare di quanto meno comprendere la lingua italiana.

Infatti, la capacità della ***** di comprendere la lingua italiana, pur senza sapersi esprimere, può– con le opportune cautele e gli adeguati strumenti - essere valutata, con l’ausilio di personale specializzato, ad esempio rivolgendole semplici ordini e verificando se essi vengono eseguiti, o comunque osservando le sue reazioni alle frasi che si pronunciano in lingua italiana.

Più arduo è invece certamente il procedimento di accertamento della volontà della disabile di diventare cittadina italiana alla luce delle sue limitazioni espressive e cognitive. Anche in questo caso, tuttavia, prima di giungere alla conclusione della impossibilità per la disabile di manifestare una tale volontà, l’amministrazione avrebbe dovuto valutare in concreto, all’esito di un accertamento approfondito e condotto con l’ausilio di personale specializzato, se una tale impossibilità effettivamente sussista, pur non essendo stata la disabile privata giuridicamente della capacità di agire. Nell’ambito di tali accertamenti potranno, eventualmente, essere presi in esame anche elementi indiziari, quali la permanenza in Italia, la comprensione della lingua e della cultura italiana, lo stile di vita, ecc.

Non risulta, invece, che tale istruttoria sia stata effettuata in quanto l’amministrazione – come si è detto - si è limitata al dato della impossibilità della disabile di sottoscrivere l’istanza e di esprimersi nella lingua italiana.

Il ricorso, pertanto, in tali termini va accolto, con annullamento del decreto impugnato ai fini di una rinnovazione dell’esame dell’istanza di riconoscimento della cittadinanza italiana alla luce di quanto esposto in motivazione.

La domanda di risarcimento del danno morale, invece, deve essere respinta. La ricorrente, infatti, si limita ad invocare un ristoro per “il danno non patrimoniale (..) causato dall’inosservanza dei principi fondamentali dello Stato e dal tentativo da parte della PA di negare l’accesso ai normali atti al cittadino seppur disabile”.

Nell’impostazione della domanda, dunque, viene presupposta la spettanza della cittadinanza alla disabile e dunque l’ingiustizia del danno derivante dal sul diniego.

Invece, da quanto si è sopra detto emerge che si è riscontrato solo un vizio procedimentale nell’espletamento dell’istruttoria da parte della p.a. che non priva l’amministrazione dei suoi poteri discrezionali, cosicché non è possibile allo stato ritenere che via sia stato alcun danno ingiusto.

Le spese processuali, attesa la novità della questione, devono essere compensate.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Quater) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei termini di cui alla motivazione e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.

Respinge la domanda risarcitoria.

Compensa le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 dicembre 2012 e del 26 marzo 2013

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 04/06/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)