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31.10.2012
 
Diritto anti-discriminatorio: L’esclusione dalle assunzioni dei lavoratori iscritti alla FIOM a Pomigliano costituisce una discriminazione per motivi di “convinzioni personali” vietata dalla direttiva europea n. 2000/78
 

Con l’ordinanza  depositata il 19 ottobre 2012, la Corte di Appello di Roma, sez. lavoro, ha respinto l’appello presentato da Fabbrica Italiana Pomigliano s.p.a. contro l’ordinanza emanata dal Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in data 21 giugno 2012 (Sez. III lavoro, ord. dd. 21.06.2012 (n. 76477/12)) , con la quale veniva dichiarata la natura di discriminazione collettiva dell’esclusione dei lavoratori dello stabilimento di Pomigliano iscritti alla FIOM in quanto basata sulle loro convinzioni personali e dunque in contrasto con il d.lgs. n. 216/2003 di recepimento della direttiva europea n. 2000/78.

L’ordinanza del Tribunale di Roma e quella della Corte di Appello di Roma, sebbene riguardanti un fattore di discriminazione diverso dagli elementi nazionali o etnico-razziali o religiosi, che caratterizzando solitamente i comportamenti e le fattispecie discriminatorie a danno degli immigrati, sono suscettibili di offrire chiavi interpretative utili, di natura sostanziale e processuale, anche in relazione alla tutela antidiscriminatoria garantita dalla direttiva europea n. 2000/43 e relativa normativa italiana di recepimento.

Questo in relazione innanzitutto al principio del bilanciamento dell’onere probatorio nei procedimenti giudiziari anti-discriminazione, che è comune ad entrambe le direttive (2000/78 e 2000/43).

 Le disposizioni delle direttive europee, infatti,  contengono un principio di bilanciamento o di attenuazione dell’onere della prova nei procedimenti di tutela anti-discriminatori. L 'art. 8 della direttiva n. 43/2000 (art. 10 nella direttiva 2000/78) stabilisce che "gli Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché le persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio di parità di trattamento, espongono, dinanzi ad un  tribunale (...­), fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione della parità di trattamento

Tale principio di bilanciamento dell’onere probatorio nei procedimenti giudiziari anti-discriminazione è stato definitivamente sancito con l’approvazione del d.lgs. n. 150/2011 ove è stato previsto che le controversie in materia di discriminazione ai sensi dell’art. 44 del T.U. immigrazione, dell’art. 4 del d.lgs. n. 215/2003, dell’art. 4 del d.lgs. n. 216/2003, dell’art. 3 della legge 1.03.2006, n. 67 e dell’art. 55-quinquies del d.lgs. 11.04.2006, n. 198 sono regolate dal rito sommario di cognizione di cui all’art. 702 e ss. del c.p.c. e « quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione » (art. 28 c. 4 d.lgs. n. 150/2011).

La decisione sui lavoratori FIOM a Pomigliano costituisce un primo caso di giurisprudenza relativo al richiamo ad elementi statistici quale agevolazione probatoria, successivo al d.lgs. n. 150/2011, anche se riferito ad una situazione di discriminazione su basi di appartenenza sindacale ricondotta alla fattispecie della discriminazione fondata sulle ‘convinzioni personali’ ex direttiva europea n. 2000/78. Nel caso in specie, il giudice del lavoro del Tribunale di Roma ha applicato il principio del bilanciamento dell’onere probatorio, accogliendo quale evidenza “prima facie” di discriminazione, il dato statistico apportato dal sindacato per cui apparivano infinitesimali le probabilità che fosse solo casuale  che su 1893 lavoratori assunti dalla FIAT su un bacino di 4367, non fosse stato assunto nessuno dei 382 componenti dell’elenco degli iscritti FIOM, anche alla luce di una simulazione statistica evidenziante che in caso di selezione casuale, le possibilità che nessuno degli iscritti FIOM potesse essere stato selezionato per l’assunzione ammontavano ad una su dieci milioni. Non ritenendo che la parte convenuta fosse stata in grado di confutare con argomenti convincenti tale “presunzione” di discriminazione, il giudice aveva accolto il ricorso della FIOM, accertando il carattere discriminatorio basato sulle convinzioni personali delle assunzioni praticate dalla Fabbrica Italia di Pomigliano.  

La Corte di Appello di Roma, con l’ordinanza dd. 19.10.2012, ha confermato la corretta lettura offerta dal giudice di prime cure, ribadendo che  le norme originate dalle direttive europee “non fondano una vera e propria inversione dell’onere probatorio”, bensì solo “un’agevolazione in favore del soggetto che si ritiene danneggiato e che potrebbe trovarsi in una situazione di difficoltà a dimostrare l’esistenza degli atti discriminatori”.    Quindi, proseguono i giudici della Corte di Appello, “i dati statistici non devono necessariamente avere le caratteristiche di scientificità tali da poter assurgere ad autonoma fonte di prova” perchè “l’onere del ricorrente si esaurisce nell’elencazione di una serie di circostanze di fatto tali da dimostrare la sussistenza effettiva di una differenziazione di trattamento” ovvero “una situazione di potenziale discriminazione, alla quale può essere contrapposta la dimostrazione di controparte della liceità della disparità di trattamento, in quanto  fondata su circostanze ed elementi diversi ed estranei da quelli per i quali la legge vieta le diverse ipotesi di discriminazioni”. Nel caso specifico, la Corte di Appello di Roma rileva che la FIP (Fabbrica Italiana Pomigliano)  non ha fornito un’adeguata ed idonea prova contraria, non essendo riuscita a dimostrare che l’obiettiva mancata assunzione di personale aderente alla FIOM sia stata ricollegata a situazioni di fatto ed obiettive diverse dall’adesione sindacale dei lavoratori.

I giudici della Corte di Appello di Roma  hanno inoltre respinto  l’argomentazione della FIP, secondo cui la mancata assunzione di personale aderente alla FIOM, non costituirebbe una violazione del diritto antidiscriminatorio europeo, in quanto la direttiva n. 2000/78 include una ‘clausola derogatoria’ al divieto generale di non discriminazione, quando il credo religioso o le convinzioni personali costituiscono un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, in funzione della natura dell’attività lavorativa e del contesto in cui viene esercitata (art. 4 par. 1). I giudici della Corte di Appello di Roma sottolineano che tale clausola, essendo derogatoria ad un principio generale che fonda un diritto fondamentale, quale quello all’eguaglianza e alla non-discriminazione, deve essere interpretata restrittivamente, per cui la clausola potrà essere legittimamente invocata solo se risponde ad un’esigenza reale ed obiettiva del datore di lavoro non collegabile al fattore ‘protetto’ medesimo, e rispondente a principi di proporzionalità ed adeguatezza. Nel caso in questione, i giudici della Corte di Appello concludono invece che “la circostanza esimente dedotta dalla FIP integra di per sé una discriminazione ed è perciò del tutto inidonea a giustificare la discriminazione attuata per il suo stesso tramite”.

Di rilevanza generale, anche la parte dell’ordinanza che riguarda i poteri del giudice atti a rimuovere gli effetti anche collettivi della discriminazione. I giudici della Corte di Appello di Roma respingono il ricorso di FIP, secondo cui l’ordine del giudice  di assunzione di un certo numero di lavoratori iscritti alla FIOM, violerebbe i principi di libertà di iniziativa economica e di autonomia contrattuale. Secondo i giudici, infatti, tali principi, oltrechè non assoluti, devono trovare un giusto bilanciamento con la garanzia di effettività del diritto a non essere discriminati  oggi disciplinata dall’assetto normativo previsto dal d.lgs. n. 216/2003 così come modificato dall’art. 28 d.lgs. n. 150/2001. Da tale principio di effettività della tutela antidiscriminatoria, che discenda dal dettato europeo, ne deriva l’ampio potere attribuito al giudice di “eliminare l’effetto discriminatorio rendendo così tangibile la garanzia di tutela dei soggetti danneggiati attraverso misure di risarcimento del danno in forma specifica”, tali da incidere anche sull’autonomia contrattuale delle parti, incluso dunque l’obbligo dell’assunzione, da attuarsi pure in forma nominativa per i 19 ricorrenti individuali, per i quali la FIOM è ricorsa in giudizio in nome e per conto a tutela degli interessi dunque individuali ai sensi dell’art. 5 c. 1 d.lgs. n. 216/2003, accanto al ricorso collettivo, presentato invece ai sensi dell’art. 5 c. 2 d.lgs. n. 216/2003 (da qui l’accoglimento dell’appello incidentale proposto dalla FIOM). Dall’accertamento della natura discriminatoria proibita del comportamento di FIP e dalla constatazione delle prerogative  del giudice di ordinare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, deriva l’ordine impartito dai giudici di appello di Roma alla FIP di predisporre entro 180 giorni un piano di assunzione di 126 lavoratori da selezionare nell’ambito di quelli affiliati alla FIOM al momento della presentazione del ricorso.

Su un unico punto, i giudici della Corte di Appello di Roma hanno accolto l’appello proposto dalla FIP: quello del risarcimento del danno non patrimoniale disposto dal giudice di prime cure a favore dei 19 ricorrenti individuali “in conseguenza dell’alterazione dello stato psicologico determinata dal legittimo timore della mancata assunzione a fronte dell’oggettiva discriminazione della categoria di appartenenza”. Secondo i giudici di appello, è necessario che il danno, per poter essere risarcito anche con criterio equitativo, sia provato, non risultando sufficienti allegazioni vaghe circa il concreto pregiudizio subito.

L’ordinanza della Corte di Appello di Roma, inoltre,  si sofferma sulla differenziazione delle forme di tutela antidiscriminatorie previste dallo Statuto dei Lavoratori con quelle di cui alla normativa di recepimento della direttiva europea n. 2000/78. L’art. 15 dello Statuto dei lavoratori prevede  la sanzione della nullità di qualsiasi patto o atto discriminatorio per motivi sindacali, motivi politici, religiosi, razziali, di lingua o di sesso o in base all’handicap, all’età, all’orientamento sessuale e alle convinzioni personali.  Accanto alla tutela ordinaria ex art. 414 c.p.c. (risarcitoria o ripristinatoria), la previsione di cui al d.lgs. n. 150/2011  fonda la possibilità di una speciale tutela attraverso il rito civile sommario di cognizione, mentre la speciale tutela ex art. 28 Statuto dei Lavoratori relativa alla repressione della condotta antisindacale può esse azionata solo nelle ipotesi in cui il sindacato faccia valere un interesse proprio e non dei singoli lavoratori discriminati. I giudici di appello di Roma hanno pertanto respinto l’argomentazione della parte appellante secondo cui  il ricorso della FIOM doveva essere ricondotto alle previsioni della tutela contro la condotta antisindacale di cui all’art. 28 L. 300/70, con conseguente competenza territoriale del giudice secondo il luogo di domicilio del convenuto anziché del ricorrente, così come invece previsto dal d.lgs. n. 150/2011.

Ugualmente i giudici della Corte di Appello di Roma hanno confermato la tesi del giudice di prime cure, secondo cui “nell’ambito della categoria delle convinzioni personali caratterizzata dall’eterogeneità delle ipotesi di discriminazione ideologica, può essere ricompresa anche la discriminazione per motivi sindacali, con il conseguente divieto  di realizzare una disparità di trattamento o un pregiudizio in ragione dell’affiliazione o della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali” e l’ammissibilità del ricorso anti-discriminazione ai sensi dell’art. 28 d.lgs. n. 150/2011.

La pronuncia della Corte di Appello di Roma  appare dunque molto importante perché  involge quasi tutti i più importanti aspetti della normativa (europea ed italiana) contro le discriminazioni, analizzando questioni che sono di cruciale importanza nell'analisi di qualsiasi forma di discriminazione (dunque anche quelle fondate sull’elemento etnico-razziale e religioso che possono interessare la popolazione immigrata).