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24.10.2011
 
Discriminazioni nello sport: Non pił di due giocatori non italiani per squadra nei campionati professionistici di pallanuoto.
 

Il Regolamento della Federazione Italiana Nuoto, presieduta dal senatore Barelli, ha previsto per l’attività agonistica 2011-2011 che le squadre di pallanuoto partecipanti ai campionati italiani professionistici non possano tesserare più di due giocatori non italiani e che a partire dalla stagione agonistica 2012-2012 solo un giocatore non italiano potrà essere tesserato da ciascuna squadra (il testo del regolamento è scaricabie dal sito web: http://www.federnuoto.it/pdf/pn_reg_a1m_11-12.pdf).

La decisione degli organismi direttivi della Federazione Italiana Nuoto giunge nonostante l’avvio nel febbraio scorso di una procedura preliminare di infrazione del diritto UE avviata dalla Commissione europea, la quale, sollecitata da alcuni pallanuotisti, aveva fatto rilevare alle autorità italiane che le restrizioni operate dalla FIN, venendo a colpire anche i giocatori  di Stati membri dell’Unione europea, apparivano in evidente contrasto con i principi di parità di trattamento nell’accesso all’attività lavorativa e alle attività economiche e  di libertà di circolazione, applicabili anche all’ambito delle attività sportive professionali per effetto della nota giurisprudenza della Corte di Giustizia europea nel caso Bosman (sentenza dd. 15 dicembre 1995, causa C-415/93).

Stando a quanto riferito dal quotidiano “La Repubblica” (edizione dd. 20 ottobre 2011, pag. 60), sebbene le autorità italiane avessero inviato alla Commissione europea in data 8 giugno una lettera rassicurante affermante che le regole contestate erano in corso di rielaborazione, è del tutto evidente che la Federazione Italiana Nuoto ha proseguito per la sua strada, in aperta collisione con i principi del diritto europeo e di quello anti-discriminatorio. Secondo il quotidiano “La Repubblica”, se la Commissione europea proseguirà l’iter del procedimento d’infrazione, all’Italia potrà essere somministrata una nuova multa di dieci milioni di euro, come già avvenuto in passato, e che, in ultima analisi, peserà sui contribuenti.

 Vale la pena sottolineare, inoltre, che la giurisprudenza dei giudici di Lussemburgo ha inteso applicare la clausola di parità di trattamento in materia di condizioni di lavoro, di retribuzione e di licenziamento, contenuta  in taluni accordi di Associazione o di partenariato sottoscritti tra Unione europea e taluni Paesi terzi, anche all’ambito  delle  norme di diritto sportivo  contenenti limitazioni fondate sulla cittadinanza riguardo alle condizioni di partecipazione di sportivi professionisti di Paesi terzi alle competizioni nazionali. Nel caso Kolpak c. la Federazione tedesca di pallamano, la Corte di Giustizia ha giudicato incompatibile con la clausola di parità di trattamento in materia di condizioni di lavoro, contenuta nell’Accordo di Associazione CE-Slovacchia, le norme della federazione tedesca di pallamano (DHB) che impedivano l’impiego negli incontri di campionato e di coppa di più di due giocatori di Paesi terzi non membri dell’UE (CGE, sentenza nella causa C-438/00).

Facendo riferimento al precedente caso Pokrzeptowicz-Meyer (causa C-162/00), la Corte ha ritenuto che non vi era ragione di interpretare la portata della clausola di parità di trattamento in materia di condizioni di lavoro contenuta nell’Accordo di associazione CE-Slovacchia  secondo modalità diverse dalla parità di trattamento prevista per i cittadini dell’Unione europea e i loro familiari e fondata sul diritto alla  libera circolazione. Poiché, con la precedente sentenza Bosman, la Corte di Giustizia aveva affermato l’incompatibilità’ con il divieto di discriminazioni tra lavoratori di Paesi membri delle  norme emanate da associazioni sportive aventi portata restrittiva sulle condizioni di impiego degli sportivi professionistici non nazionali appartenenti ad altri Stati membri, non vi era dunque ragione per non trasporre il medesimo ragionamento e la medesima portata applicativa all’analoga clausola di parità di trattamento prevista dall’Accordo di Associazione con riferimento agli sportivi di nazionalità slovacca impiegati in uno Stato membro,  non giudicandosi ragionevoli ed obiettivamente fondate le analoghe considerazioni esclusivamente sportive avanzate in entrambi i casi dalle federazioni sportive.

Ad analoghe conclusioni sono giunti i giudici di Lussemburgo con riferimento alla clausola di parità di trattamento  contenuta nell’Accordo di partenariato Comunita’ europea-Russia, entrato in vigore il 1 dicembre 1997 (G.U. L 327 pag. 1). Ci si riferisce alla sentenza dd. 12 aprile 2005, nella causa C-265/03 (Simutenkov c. Ministero educazione e cultura del Regno di Spagna e Federazione spagnola gioco calcio). In questo caso, avente per oggetto l’impossibilita’ per un calciatore professionista di nazionalità russa, il sig. Simutenkov, tesserato con un club professionistico spagnolo, di conseguire la licenza federale identica a quella di cui dispongono i calciatori comunitari, la Corte ha accentuato maggiormente un criterio interpretativo di tipo letterale rispetto a quello teleologico-sistematico prefigurato nell’interpretazione della clausola contenuta negli accordi di associazione con Paesi candidati all’allargamento dell’UE. In sostanza, la Corte non ha dato importanza al fatto che, contrariamente all’accordo di associazione Comunità-Slovacchia, l’accordo di partenariato Comunità Europea–Russia non ha l’obiettivo di creare un’associazione al fine della progressiva integrazione dello Stato terzo in questione nelle Comunità europee con conseguente affermazione del diritto alla libera circolazione, ma solo quello più modesto della realizzazione della “progressiva integrazione tra la Russia e una più vasta zona di cooperazione in Europa”. Infatti, “la lettera dell’art. 23 n. 1 dell’Accordo esprime, in termini chiari, precisi ed incondizionati, il divieto di discriminazione fondato sulla nazionalità (sottolineatura nostra)”, così dunque da legittimare un’interpretazione analoga a quella adottata nella sentenza Deutscher Handballbund.

E’ del tutto evidente, pertanto, che la clausola di nazionalità contenuta nell’attuale regolamento per l’attività agonistica pallanuotista professionale per l’anno in corso viene a violare le norme del diritto dell’UE non solo con riferimento agli sportivi che possiedono la cittadinanza di uno Stato membro dell’UE e dei loro familiari, indipendentemente dalla cittadinanza, ma anche a coloro che sono cittadini di Paesi terzi che abbiano sottoscritto con l’UE accordi di associazione o partenariato che contengano la clausola di parità di trattamento in materia di condizioni di lavoro (come ad esempio l’Accordo di Associazione con la Croazia e quello di partenariato già ricordato con la Russia) . Ugualmente, visiti i criteri interprativi adottati dalla Corte di Giustizia europea, anche  gli sportivi professionisti di Paesi terzi residenti in Italia  e titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti, magari in ragione del fatto di essere appartenenti a seconde generazioni,  potrebbero  sostenere la tesi della trasposizione dell’interpretazione adottata con riferimento alla clausola di parità di trattamento contenuta nei Trattati CE a favore dei cittadini comunitari (causa Bosman) e a quella contenuta negli accordi di associazione (cause Deutscher Handballbund e Simutenkov)  alla clausola di non discriminazione di cui all’art. 11 c 1 lett. a della direttiva n. 109/2003/CE sui lungo soggiornanti.: “Il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento  dei cittadini nazionali per quanto riguarda: a) l’esercizio di un’attività’ lavorativa subordinata o autonoma, purche’ questa non implichi nemmeno in via occasionale la partecipazione all’esercizio di pubblici poteri, nonché le condizioni di assunzione e lavoro, ivi comprese quelle di licenziamento e di retribuzione”.

Gli sportivi  extracomunitari, anche non lungo soggiornanti, qualora già titolari di un permesso di soggiorno e soggiornanti legalmente in Italia potrebbero comunque far valere il principio di parità di trattamento nell’accesso all’occupazione di cui all’art. 2.3. del T.U. immigrazione in combinato disposto con l’art. 43 del T.U. immigrazione in materia di non discriminazione degli stranieri  nell’accesso alle attività occupazionali, come già riconosciuto da alcuni precedenti giurisprudenziali del Tribunale di Pescara.

 A cura di  Walter Citti, consulente del servizio ASGI di supporto giuridico contro le discriminazioni etnico razziali e religiose.