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03.10.2011
 
Corte di Giustizia UE: Viola il principio della cittadinanza europea e della liberta’ di circolazione la normativa di uno Stato membro che vincola una prestazione assistenziale d’invalidità’ ad un requisito di pregresso soggiorno del richiedente sul suo territorio
 

Come e’ noto, l’art. 20 c. 10 d.l. n. 112/2008, convertito con legge n. 133/2008, ha introdotto, a partire dal 1 gennaio 2009, un requisito di anzianità di residenza decennale in Italia ai fini dell’accesso all’assegno sociale per gli ultra65enni residenti in Italia in condizioni di bisogno, con cio’ introducendo un’evidente forma di   discriminazione indiretta o dissimulata  fondata sulla residenza a danno dei cittadini stranieri rispetto a quelli nazionali, per l’evidente minore capacita'  dei primi rispetto ai secondi di soddisfare tale requisito.

Utili indicazioni a supporto della tesi dell’incompatibilità’ con il principio di parita’ di trattamento fra i cittadini dell’Unione europea e i loro familiari, nonche’ a favore delle altre categorie di cittadini di Stati terzi protetti dal diritto dell’Unione europea, delle norme in materia di accesso all’assegno sociale introdotte dal legislatore italiano con la legge n. 133/2008 con riferimento al requisito di pregressa residenza decennale in Italia, possono essere fornite dalla recente sentenza della Corte di Giustizia europea nel caso Lucy Stewart contro Secretary of State for Work and Pensions (Regno Unito), dd. 21 luglio 2011, causa c-503/09. Il caso concerneva il diniego notificato ad una cittadina britannica dalle autorità del suo Paese all’accesso ad una prestazione per inabilità temporanea per giovani disabili per mancanza del requisito di soggiorno pregresso nel territorio del Regno Unito per  un periodo di almeno 26 settimane nell’arco delle 52 settimane immediatamente precedenti la data di presentazione della domanda. Sebbene il contenzioso riguardava il rapporto tra un cittadino di uno Stato membro e le autorità del suo paese, la Corte di Giustizia UE ha applicato il suo orientamento oramai consolidato, secondo cui i principi della cittadinanza europea e le liberta’ e diritti fondamentali ad essa connessi, vengono a tutelare anche il cittadino nazionale nei suoi rapporti con lo Stato di appartenenza, quando la situazione presenta elementi di transnazionalita’, ovvero quando ci si trovi in presenza di una normativa nazionale che svantaggia taluni propri cittadini per il solo fatto che essi hanno esercitato la loro liberta’ di circolazione e di soggiorno in altro Stato membro in quanto la finalità delle disposizioni , primarie o derivate, del  diritto dell’Unione europea in materia di liberta’ di circolazione e stabilimento  e’ quella di “contribuire ad eliminare tutti gli ostacoli per l’instaurazione di un mercato comune nel quale i cittadini degli Stati membri possano spostarsi liberamente nel territorio degli Stati stessi al fine di svolgere le loro attività economiche” (CGE,  sent. 27 ottobre 1982, cause 35 36/82). Quindi la situazione della sig.ra Lucy Stewart, cittadina britannica che si era vista negare la prestazione di inabilità perche’ non aveva soggiornato per un periodo sufficiente nel Regno Unito prima di presentare la domanda, in quanto soggiornava in altro Stato membro, la Spagna, non poteva ritenersi una situazione puramente interna, bensi’ contrassegnata dagli elementi di transnazionalita’ richiesti per invocare il diritto dell’Unione europea e contestare alle autorità britanniche che la normativa poneva una restrizione alla liberta’ riconosciute dall’art. 21, n. 1 del TFUE ad ogni cittadino dell’Unione e dunque ivi compresi i propri cittadini nazionali . Tale restrizione doveva, dunque,  essere sottoposta, con riferimento al diritto dell’Unione,  al vaglio di obiettività e  proporzionalità solitamente richiesto per la valutazione delle forme di disparita’ di trattamento di natura indiretta, ovvero  avrebbe potuto ritenersi giustificata se sorretta da considerazioni oggettive indipendenti dalla cittadinanza delle persone interessate e proporzionate allo scopo legittimamente perseguito. A tale riguardo, il Regno Unito  aveva evidenziato che il requisito del pregresso soggiorno mirava a soddisfare  il legittimo interesse dello Stato a garantire, da un lato l’esistenza di un nesso effettivo tra Stato membro e beneficiario della prestazione, quest’ultima avendo le caratteristiche di una prestazione assistenziale a carattere non contributivo e  venendo richiesta da una persona “inattiva”, e, dall’altro, l’equilibrio finanziario del sistema nazionale di sicurezza sociale, onde evitare che prestazioni finanziarie vengano concesso a persone prive di un reale ed effettivo rapporto con lo Stato. La  Corte di Giustizia ha ritenuto che entrambi gli scopi perseguiti potevano dirsi legittimi in quanto aventi natura obiettiva e che il requisito di soggiorno pregresso poteva anche  dirsi coerente rispetto al raggiungimento dei medesimi, in quanto il nesso effettivo tra lo Stato membro ed i richiedenti la prestazione ben poteva essere verificato da un’anzianità’ di soggiorno pregressa.

Tuttavia,  il carattere esclusivo del requisito di anzianità di soggiorno fa concludere la Corte nella direzione della mancata soddisfazione del test di proporzionalità, in quanto il requisito risulta eccessivo rispetto a quanto strettamente necessario per raggiungere lo scopo perseguito. Secondo i giudici di Lussemburgo, infatti, il nesso effettivo e ragionevole  tra il richiedente la prestazione e lo Stato membro puo’ essere soddisfatto anche in altro modo, sulla base ad esempio delle relazioni esistenti tra il richiedente ed il sistema di previdenza sociale dello Stato membro ( a tal riguardo la Corte evidenziava il fatto che l’interessata gia’ beneficiava di una prestazione di sicurezza sociale per disabili),  dal contesto familiare dell’interessata e dai legami dei suoi familiari stretti con il Paese membro ( a tale riguardo la Corte evidenziava che la richiedente era a carico  dei genitori che a loro volta avevano svolto attività lavorativa nel Regno Unito e percepivano dal medesimo pensioni di vecchiaia) e dai precedenti  periodo di soggiorno nello Stato membro (la ricorrente aveva trascorso una parte significativa della sua vita nel Regno Unito).

Resta solo da aggiungere che, se è vero che i criteri interpretativi di cui sopra  sono stati affermati dalla giurisprudenza della CGUE con riferimento al principio della cittadinanza europea e alle correlate liberta’ di circolazione e soggiorno, nonche’ al  divieto di discriminazioni su base di nazionalità tra cittadini dell’UE, pur tuttavia essi dovrebbero essere suscettibili di estensione  anche con riferimento alle altre categorie di  cittadini di Paesi terzi che, in forza di norme di diritto dell’UE, godono di un analogo principio di parità di trattamento come appunto è il caso dei lungo soggiornanti, ex direttiva n. 109/2003/CE ovvero dei rifugiati e titolari della protezione sussidiaria.

La giurisprudenza comunitaria ha, difatti, chiarito che l’estensione dell’interpretazione di una disposizione del Trattato europeo, quale il divieto di discriminazioni su basi di nazionalità tra cittadini dell’Unione europea e la parità di trattamento nelle materie coperte dal diritto comunitario, a disposizioni, redatte in termini analoghi o simili, figuranti in altre norme di diritto comunitario,  e rivolte a cittadini di Paesi terzi (ad es. gli Accordi di associazione con paesi candidati all’ingresso nell’UE) dipende in particolare dallo scopo perseguito da ciascuna di tale disposizioni nel suo ambito specifico (ad es. sentenza B. Pokrzeptowicz-Meyer c. Germania, 29 gennaio 2002, causa C-162/00, paragrafo 33). Orbene, nel considerando n. 4 alla direttiva europea n. 109/2003, si legge che finalità della direttiva medesima è l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo, la quale  costituisce un elemento cardine per la promozione della coesione economica e sociale e dunque un obiettivo fondamentale dell’Unione europea medesima.

Tale finalità verrebbe ovviamente vanificata   se il principio della parità di trattamento in materia di accesso alle prestazioni di welfare venisse subordinato ad una condizione di anzianità di residenza di durata addirittura superiore a quella prevista per il conseguimento del titolo di soggiorno (cinque anni). Ugualmente, la portata e la finalità del principio di parita’ di trattamento in materia di assistenza sociale a favore dei beneficiari dello status di rifugiato  o di protezione sussidiaria, di cui alla direttiva 29 aprile 2004 n. 2004/83/CE, attuata in Italia con  il d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, è ulteriormente chiarita dal considerando n. 33 introduttivo al testo della direttiva medesima, nel quale si afferma: “Per scongiurare soprattutto il disagio sociale, è opportuno offrire ai beneficiari dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, senza discriminazioni nel quadro dei servizi sociali, assistenza sociale e mezzi di sostentamento adeguati”. Viene certamente vanificata tale finalita’ della direttiva quando i rifugiati e i titolari della protezione sussidiaria sono esclusi  da prestazioni sociali, per di piu’ volte, come nel caso dell’assegno sociale, al soddisfacimento di bisogni primari di sostentamento, fino al concorrere di un termine di anzianita’ di residenza nel Paese di accoglimento.

Commento a cura di Walter Citti