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21.04.2011
 
Tribunale di Brescia: Legittima l’esclusione dei calciatori extracomunitari dal primo tesseramento professionistico per le squadre di serie B e Lega Pro al fine di tutelare i vivai nazionali
 

Il giudice di Brescia, con ordinanza n. 171/2011 dd. 28 marzo 2011 ha respinto l'azione giudiziaria anti-discriminazione promossa da un cittadino senegalese già residente regolarmente in Italia da diversi anni, contro il diniego opposto dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio e dalla Lega Italiana Calcio Professionistico al suo tesseramento in qualità di calciatore professionista con una squadra partecipante ad un campionato di Lega Pro.

Il diniego al tesseramento come professionista è stato motivato in base alla disciplina fissata dalla FIGC con il comunicato ufficiale n. 6/A del 5 luglio 2010, per cui l'accesso dei calciatori professionisti extracomunitari per le società di serie B e Lega Pro è limitato esclusivamente a coloro che abbiano già lo status di calciatori professionisti, venendo invece esclusi coloro che richiedono tale status per la prima volta, anche a prescindere   se siano già regolarmente residenti sul territorio italiano.

Il giudice di Brescia ha ritenuto che tale disparità di trattamento fondata sulla cittadinanza è legittima in quanto non appare irragionevole alla luce della finalità di tutelare i vivai nazionali, giacchè attraverso le squadre calcistiche di serie B e Lega Pro i talenti calcistici vengono selezionati e promossi.

Secondo il giudice di Brescia, infatti, sulla base dell'art. 3 del d.lgs. n. 215/2003, una disparità di trattamento  costituirebbe una discriminazione solo quanto è irragionevole, cioè non appare giustificata oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari.

Il ragionamento del giudice di Brescia appare erroneo in quanto fa riferimento ad una norma di cui alla direttiva europea in materia di contrasto alle discriminazioni etnico-razziali e relativa disciplina nazionale di riferimento, che riguarda esclusivamente le discriminazioni indirette. Nel caso in questione, invece, si tratta con tutta evidenza di un caso di discriminazione direttamente fondata sulla cittadinanza, per la quale la normativa, tanto europea, quanto internazionale e nazionale, non ammette disparità di trattamento in materia di accesso ad attività lavorative e ove quindi il principio di parità di trattamento è assoluto, con l'unica eccezione di quelle attività ove la caratteristica etnico-razziale costituisca un requisito essenziale e determinante, e tale non è certamente il caso nella situazione in questione (art. 4 direttiva n. 2000/43/Ce). Si fa qui riferimento al principio di parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro dei lavoratori migranti regolarmente soggiornanti rispetto ai cittadini italiani di cui alla Convenzione OIL n. 143/75, richiamata espressamente anche dall'art. 2 c. 3 del d.lgs. n. 286/98.

E' del tutto evidente, dunque, che le deliberazioni degli organi di diritto sportivo interno non possono certo derogare da un principio definito da norme di diritto internazionale pattizio, che hanno una posizione sovraordinata rispetto alle  norme di diritto interno, costituendo parametro di legittimità costituzionale di quest'ultime (Corte Cost. n. 348 e 349/2007). Ulteriormente, non appare convincente la tesi che vorrebbe che una decisione "regolamentare" della FIGC possa ritenersi prevalente su una norma di legge (il citato art. 2 c. 3 d.lgs. n. 286/98) tesa a disciplinare la condizione giuridica dello straniero in attuazione del principio costituzionale della riserva di legge "rinforzata" di cui all'art. 10 c. 2 Cost.. E questo nemmeno volendo accreditare la tesi sostenuta che il comunicato della FIGC avrebbe copertura legislativa per effetto dell'art. 27 c. 5 bis del T.U. immigrazione. Tale norma infatti, nel suo significato letterale, si riferisce esclusivamente ai nuovi "ingressi" di sportivi extracomunitari  ai fini dello svolgimento dell'attività professionistica e non può certo estendere il suo ambito di applicazione agli stranieri già regolarmente residenti in Italia e, dunque, protetti dal principio di parità di trattamento di cui all'art. 2 c. 3 del medesimo T.U. imm.

Appare, inoltre, poco convincente il giudizio sulla "ragionevolezza" delle disposizioni promosse dalla FIGC limitative all'accesso dei calciatori extracomunitari all'impiego professionistico presso le società calcistiche italiane al fine della tutela dei vivai nazionale, avendo in considerazione il fatto che il calciatore in questione possedeva già il titolo di "giovane di serie in addestramento tecnico"  presso una società calcistica italiana di livello professionistico e perciò a tutti gli effetti faceva parte di un "vivaio" di una società calcistica italiana. Di conseguenza, il ragionamento del giudice di Brescia sembra presupporre che i giovani calciatori di nazionalità diversa da quella italiana o comunitaria, pur reclutati dalle accademie delle società calcistiche professionistiche italiane, di fatto,  non possano ritenersi a pieno titolo parte dei  "vivai nazionali". Un ragionamento che potrebbe apparire discriminatorio in sé. 

La difesa del ricorrente ha annunciato ricorso al collegio giudicante di Brescia contro la decisione del giudice di prime cure.

La decisione del giudice di Brescia, infatti, appare controversa anche alla luce di diversi pronunciamenti giurisprudenziali che hanno invece accolto i ricorsi promossi dai giovani calciatori extracomunitari (ad. es. Tribunale di Varese, ordinanza 2.12.2011 in http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1333&l=it , Tribunale di Lodi, ordinanza dd. 13.05.2010 in

http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1014&l=it).


A cura del Servizio di supporto giuridico contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose. Progetto ASGI con il sostegno finanziario della Fondazione italiana a finalità umanitarie Charlemagne ONLUS