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21.04.2011
 
L'emergenza "strutturale". Alcune riflessioni a margine degli sbarchi dei migranti provenienti dal Nord Africa.
 
L’emergenza “strutturale”. Alcune riflessioni a margine degli sbarchi dei migranti provenienti dal Nord Africa.

A cura di Massimiliano Vrenna e Francesca Biondi Dal Monte

Laboratorio WISS [Welfare Innovazione Servizi e Sviluppo] – Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

La vicenda degli sbarchi di questi primi mesi del 2011 sulle coste meridionali dell’Italia, con particolare riferimento all’isola di Lampedusa, stimola molte riflessioni non solo di carattere socio politico, ma anche di carattere più prettamente giuridico, in relazione alla gestione degli sbarchi e agli atti e alle misure adottate dal Governo.

1. Siamo di fronte ad una emergenza?

Come noto, per far fronte all'afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa il 12 febbraio 2011 è stato proclamato lo stato di emergenza attraverso un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. E’ stato attivato in altri termini il meccanismo previsto dalla legge sulla protezione civile. Tuttavia era evidente (e lo è ancora di più oggi) che non ci troviamo di fronte a una calamità naturale disastrosa ed imprevedibile, quanto ad un prevedibile afflusso di cittadini extracomunitari a seguito delle drammatiche vicende politiche che stanno investendo i paesi del nord Africa. La cosa dovrebbe essere lapalissiana eppure in molti settori politici, a livello nazionale come a livello locale, si continua a sostenere che numeri di 10mila, 20mila persone siano epocali, biblici apocalittici e quant’altro. Vale allora la pena ricordare che nel nostro paese, da ormai molti anni, la materia immigrazione è trattata come una calamità naturale e disciplinata con ordinanze di protezione civile grazie a ripetute e prorogate dichiarazioni di stato di emergenza.

Infatti dal 2002, secondo una prassi che non ha conosciuto interruzioni, il Governo ha fatto ripetutamente ricorso alla dichiarazione di stato di emergenza ai sensi dell’art. 5 della l. 225/1992, recante “Istituzionale del servizio nazionale della protezione civile”, possibile nei casi di “calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari”. In particolare, la necessità posta alla base dei predetti decreti di dichiarazione (o proroga) dello stato di emergenza sul territorio nazionale è stata quella di procedere alle “attività di contrato all’eccezionale afflusso di immigrati nel territorio italiano”. Così il 20 novembre 2009, per esempio, sempre con D.P.C.M. si è nuovamente prorogato su tutto il territorio nazionale lo stato di emergenza per la prosecuzione delle attività di gestione dell'afflusso di cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea. Nel citato D.P.C.M. si può leggere come motivazione: “Ravvisata pertanto la necessità di continuare a fronteggiare la persistente situazione di criticità in rassegna con l'esercizio di poteri straordinari, mediante interventi e provvedimenti di natura eccezionale”… cosi come in premessa è citato un indicativo “Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 20 marzo 2002” (!), con il quale è stato dichiarato lo stato di emergenza per fronteggiare l'eccezionale afflusso di extracomunitari sul territorio italiano”, e cosi via in una catena a ritroso che delega sostanzialmente alla normativa sull’emergenza le azioni statali in tema di immigrazione.

Tuttavia, come è evidente, l’immigrazione nel territorio italiano ha assunto i caratteri di un fenomeno ormai strutturale e rappresenta tutt’altro che un’emergenza, la quale dovrebbe essere - per definizione - circoscritta nel tempo. Siamo quindi di fronte ad una emergenza “strutturale”? Un ossimoro che assai efficacemente sembra rappresentare le contraddizioni delle politiche degli ultimi anni.

2. L’emergenza nel contesto della riforma del titolo V della Costituzione.

Rispetto alle mosse iniziali, è inutile ricostruire qui le concitate vicende che hanno caratterizzato i rapporti tra Stato, Regioni ed Enti locali in questi mesi: il Governo ha ormai intrapreso la strada del coinvolgimento delle Regioni nella gestione degli arrivi. Tuttavia appare opportuno soffermarsi su alcune questioni che riguardano l’inquadramento di questo potere di emergenza nel contesto della riforma del titolo V della Costituzione: riflessioni che potrebbero tornare utili nel caso in cui si verifichino nuovi flussi migratori concentrati in breve periodo e in piccole porzioni di territorio nazionale ovvero per quanto riguarda la costruzioni di nuovi CIE.

I poteri delle autorità che operano in regime d’emergenza e la disciplina dei provvedimenti adottati dalle stesse [comprese la prima ordinanza di individuazione dei siti per accogliere le persone oggi sotto l’ombrello dell’art. 20 del testo unico in materia di immigrazione, d.lgs. 286/1998, protezione temporanea] sono regolati dalla normativa in tema di protezione civile. Ne consegue che, certamente, le ordinanze extra ordinem possono essere adottate in deroga ad ogni disposizione vigente ma esse soggiacciono comunque a precisi limiti, quali il rispetto dei principi generali dell’ordinamento, l’obbligo di motivazione, l’indicazione delle principali norme giuridiche cui si intende derogare, il rispetto di stabiliti limiti temporali.

Fin dall’entrata in vigore della legge 225/1992 sulla Protezione civile si è infatti posta la questione dei limiti di tali ordinanze extra ordinem con le quali gli organi commissariali [adesso il Direttore della Protezione civile] incidono sulle competenze degli enti locali determinando una compressione della loro autonomia. Al riguardo si ricordano le sentenze della Corte Costituzionale n. 418/1992 e n. 127/1995, con le quali la Consulta ha individuato nel principio di congruità e di proporzionalità il criterio che deve ispirare il giudice nel verificare se le ordinanze extra ordinem determinano o meno un’alterazione dei principi dell’autonomia locale: analisi che deve essere fatta alla luce dell’intensità dell’emergenza. Non è un caso che con legge 9 novembre 2001, n. 401, è stato istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri un Comitato paritetico Stato-Regioni- Enti locali, riconoscendo, ancora una volta, al Presidente del Consiglio dei Ministri esclusivamente funzioni di coordinamento di protezione civile. Viene quindi da domandarsi se le ordinanze di individuazione dei siti di accoglienza avrebbero passato il vaglio della giurisprudenza qualora i relativi provvedimenti fossero stati impugnati dagli enti locali.

Preme inoltre evidenziare che con sentenza n. 39/2003 la Consulta ha anche ribadito che la normativa in materia di protezione civile va interpretata “non nel senso di aver determinato l’accentramento di competenze e poteri, ovvero aver organizzato gli stessi secondo schemi di dipendenza gerarchico – funzionale, ma piuttosto nel senso di essersi limitata a prevedere ed a disciplinare nelle loro specifiche esplicazioni funzioni dirette alla promozione e al coordinamento di tutte le attività che possono convergere a finalità di tutela dei beni messi in pericolo”.

Il ricorso a forme di concertazione e di leale collaborazione tra Stato ed autonomie territoriali risulta oggi tanto più necessario alla luce della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante modifiche al titolo V della Costituzione. Al riguardo, il Consiglio di Stato ha sostenuto che: “Su tale presupposto è innegabile che anche il novero dei poteri di deroga consentiti per motivi di protezione civile deve tener conto della nuova realtà ed inserirsi in un sistema diverso e più avanzato di ripartizione di competenze tra Stato ed Enti territoriali, che conserva al primo funzioni di promozione e coordinamento degli interventi, ma affida ai secondi la gestione degli interventi sul territorio alla stregua del principio di sussidiarietà verticale” (Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 6809/2002). E’ davvero impressionante come le parole del Consiglio di Stato possano applicarsi perfettamente alla vicenda degli sbarchi a Lampedusa. In sintesi, possiamo affermare che è lo stesso utilizzo della normativa di protezione civile che va contestato con forza. Di fronte a ciò l’Ente locale non è comunque privo di qualunque difesa, dal momento che si possono intraprendere azioni giudiziarie per riaffermare i propri spazi di competenza, così come le Regioni potrebbero sollevare conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale.

Preme inoltre evidenziare che la normativa emergenziale viene utilizzata sempre più spesso come il braccio operativo della competenza statale in materia di immigrazione e tuttavia esattamente come quest’ultima non può essere sottratta al rispetto degli altri principi costituzionali come quello di leale collaborazione e al riparto competenziale che la Consulta sta disegnando in materia di immigrazione. Peraltro, in ordine ai poteri legislativi in materia di protezione civile, il Consiglio di Stato, nella sopracitata sentenza del 2002, ha evidenziato che tali poteri “sono stati esclusi dall’ambito delle competenze legislative statali di tipo esclusivo per rientrare, invece, in quello delle competenze di tipo concorrente delle Regioni in cui allo Stato è consentito dettare solo i principi fondamentali. La materia in esame non figurava , invece, nell’art. 117 della Costituzione nel testo previgente alle modifiche introdotte con la legge n. 3 del 18 ottobre 2001 ed emerge anche da tale angolazione un disegno non invasivo delle competenze degli Enti Locali voluto dal legislatore costituzionale con riguardo all’autonomia dei diversi livelli di governo delle comunità locali”.

3. Trattare l’immigrazione come emergenza. Conseguenze.

Ricondurre la materia “immigrazione” sotto l’ombrello dello stato di emergenza e sotto la gestione della protezione civile solleva notevoli perplessità non soltanto in relazioni ai profili sopra evidenziati, ma anche in relazione alla gestione delle risorse finanziarie. La gestione emergenziale dell’immigrazione sottrae infatti importanti risorse economiche al controllo contabile, o per meglio dire rende più difficile la ricostruzione e la trasparenza delle spese. La cosa più grave è che sottrae tali spese ad una normale programmazione statale di risorse ed interventi. D’altra parte non bisogna dimenticare che il disegno di legge S-2494, Nuove disposizioni in materia di sicurezza pubblica, attualmente in discussione al Senato, prevede all’art. 6 l’eliminazione del documento programmatico che il Governo dovrebbe adottare almeno ogni 3 anni, ai sensi dell'art. 3 del testo unico in materia di immigrazione. Tale documento dovrebbe indicare le azioni e gli interventi che lo Stato italiano si propone di svolgere in materia di immigrazione, anche mediante la conclusione di accordi con i Paesi di origine. Esso dovrebbe indicare altresì le misure di carattere economico e sociale nei confronti degli stranieri soggiornanti nel territorio dello Stato, nelle materie che non debbono essere disciplinate con legge e dovrebbe inoltre individuare i criteri generali per la definizione dei flussi di ingresso nel territorio dello Stato. Su tale documento è prevista la richiesta di parere da parte delle competenti Commissioni Parlamentari. Tuttavia, negli ultimi anni, sono stati elaborati documenti di programmazione transitoria: decreto flussi con determinazione delle quote di ingresso svincolati da una programmazione di insieme. Si tratta della presa d’atto del fatto che è uno strumento mai decollato veramente e nemmeno più varato negli ultimi anni oppure la constatazione che manca di fatto una programmazione di insieme degli interventi da adottare a livello statale? La programmazione degli interventi è interamente demandata alle regioni?

Con specifico riferimento al finanziamento dello stato di emergenza, si evidenzia che dapprima il D.P.C.M. 5 aprile 2011 all’art. 4, rubricato Disposizioni finanziarie e finali, aveva stabilito che agli oneri conseguenti al decreto si provvedesse con il fondo politiche migratorie, di cui all’articolo 45 del testo unico. La previsione ha sollevato numerose perplessità. Tale fondo, che ormai deriva com’è noto da una quota del fondo politiche sociali, viene infatti utilizzato ogni anno per interventi di carattere strutturale di integrazione sociale e soprattutto per la diffusione della conoscenza della lingua italiana. E’ il fondo sulla cui base sono stati firmati negli ultimi anni gli accordi Stato- Regioni per il finanziamento dei corsi di insegnamento della lingua italiana. Un fondo quindi assai prezioso, soprattutto quando entrerà in vigore il regolamento di attuazione dell’art. 4 bis del testo unico, relativo all’accordo di integrazione, che prevede per lo straniero l’obbligo di conseguire una conoscenza della lingua italiana parlata almeno pari al livello A2 (di cui al quadro comune europeo di riferimento per le lingue emanato dal Consiglio d’Europa). È certamente vero che l’art. 45 prevede esplicitamente la possibilità di finanziare gli interventi adottati ai sensi dell’art. 20 del testo unico, tuttavia il citato D.P.C.M. del 5 aprile afferma che agli oneri conseguenti all’attuazione del decreto medesimo si provvede con le “risorse disponibili a legislazione vigente”.

Del resto, più in generale, preme incidentalmente evidenziare che la gestione delle risorse in emergenza non ha brillato per coerenza, visto che si è colta anche l’occasione per stanziare risorse finalizzate all’assunzione degli interinali da impiegare ai fini del completamento delle procedure di emersione dal lavoro irregolare del 2009 (art. 8, comma 1, dell’ordinanza n. 3924 del 18 febbraio 2011 - Disposizioni urgenti di protezione civile per fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale in relazione all'eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa, nonché per il contrasto e la gestione dell'afflusso di cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea). Si fatica davvero a trovare una connessione tra questa previsione e lo stato di emergenza dichiarato. Da ultimo, con la più recente ordinanza n. 3933 del 13 aprile 2011, si è invece previsto all’art. 6 che: Agli oneri derivanti dall’articolo 1, commi 3, 4, 5, 6 e 7 e dall’articolo 5 si provvede con una prima assegnazione al Fondo della protezione civile di euro 30.000.000,00, quale acconto rispetto al maggior stanziamento necessario per il superamento del contesto emergenziale, che verranno messi a disposizione dal Ministero dell’economia e delle finanze, e gestite dal Dipartimento della protezione civile in regime di contabilità ordinaria. Si tratta di un anticipo senza alcuna reale garanzia che i successivi fondi vengano effettivamente trovati nelle pieghe del bilancio statale. Si prevede comunque che agli oneri conseguenti all’attuazione del citato D.P.C.M. 5 aprile 2011 si provveda, in deroga a quanto previsto all’art. 4, comma 2, del medesimo decreto, a valere sulla contabilità speciale istituita ai sensi dell’art. 6, comma 1, della citata ordinanza del 18 febbraio 2011, nella misura massima di euro 2.598.000 (l’art. 6, comma 1, dell’ordinanza fa riferimento al capitolo 2351 - Centro di responsabilità 4 - dello stato di previsione del Ministero dell’interno anno 2011). Il fondo politiche migratorie sembra quindi salvo, tuttavia il limite massimo dei 2.598.000 di euro non appare elevato. D’altra parte l’art. 6 della sopracitata ordinanza del 18 febbraio 2011 prevede al terzo comma che:
“Il Commissario delegato è altresì autorizzato ad utilizzare le eventuali risorse finanziarie di competenza regionale, fondi comunitari, nazionali, regionali e locali, comunque assegnati o destinati per le finalità di cui alla presente ordinanza”. Una norma che ancora una volta lascia assai perplessi per genericità, ampiezza e scarsa trasparenza.
La ricostruzione dei complessi rimandi, anche contabili, tra ordinanza del 18 febbraio, decreto del 5 aprile e ordinanza del 13 aprile evidenzia la mancanza di chiarezza e facile lettura della normativa citata.

A tal riguardo, proprio con riferimento alla mancata chiarezza contabile occorre ricordare che proprio la legge n. 94/2009 ha introdotto due nuovi canali di finanziamento, veri e propri flussi di cassa continui, provenienti dal nuovo contributo richiesto per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno e per le istanze di acquisto o concessione della cittadinanza. Le cifre derivanti da tale contributo saranno rispettivamente dedicate, per la metà del gettito, al neonato “fondo rimpatri” e congiuntamente al Ministero dell’Interno che lo destinerà, a sua volta per la prima metà al finanziamento di progetti del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione diretti alla collaborazione internazionale e alla cooperazione e assistenza ai paesi terzi in materia di immigrazione. Per la restante metà il Ministero dovrebbe, invece, utilizzarlo per la copertura degli oneri connessi alle attività istruttorie inerenti ai procedimenti di competenza del medesimo dipartimento in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza. Si tratta di indicazioni assai poco chiare circa la natura del “fondo rimpatri” e circa una non meglio precisata “collaborazione internazionale in materia di immigrazione”. Si tratta quindi ancora una volta di aspetti rilevanti che stendono ombre serie circa l’effettiva destinazione futura di quello che si presenta come un possibile flusso finanziario importante.

Si  ringraziano Massimiliano Vrenna e Francesca Biondi dal Monte per il contributo.