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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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Tribunale di Milano, ordinanza dell'1 agosto 2008
 
est. Mennuni
 

Nella fase di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. nel procedimento avente n. 45/08 RGL promosso da Azienda ospedaliera San Paolo di Milano contro CGIL - comprensorio di Milano, Funzione pubblica CGIL - comprensorio di Milano, CISL - comprensorio di Milano, FPS CISL - Comprensorio di Milano, [...] ha pronunciato la seguente ordinanza

Sulla giurisdizione.

Parte reclamante, partendo dall'assunto che "in tema di lavoro pubblico contrattualizzato la riserva alla giurisdizione del giudice amministrativo riguarda non solo le procedure concorsuali strumentali alla costituzione per la prima volta del rapporto di lavoro, ma anche le prove selettive dirette a consentire l'accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore" (Cass. S.U. 12.11.2007 n. 23439) conclude che anche le procedure di stabilizzazione devono rientrare nell'ambito delle procedure strumentali alla costituzione per la prima volta "in forma stabile" presso la P.A. ospedaliera. Ne conseguirebbe che, stante la natura di interesse legittimo e non di diritto fondamentale della pretesa avanzata dai ricorrenti in primo grado, si dovrebbe sostenere il difetto di legittimazione del giudice ordinario.

Tale assunto non può essere condiviso e va invece confermato quanto espresso sul punto dal giudice di prime cure, secondo cui "le posizioni giuridiche fatte valere sono qualificabili come diritti soggettivi dal momento che a fondamento del ricorso è stata posta la violazione da parte dell'Azienda ospedaliera di un diritto fondamentale della persona quale quello al riconoscimento della pari dignità sociale e alla non discriminazione nell'accesso al lavoro".

Le organizzazioni sindacali ricorrenti e la terza intervenuta hanno proposto infatti un'azione ex art. 44 T.U. immigrazione e pertanto giudice competente a valutare tali domande deve ritenersi il giudice ordinario ex co. 3 di detto articolo non essendo prevista alcuna riserva al giudice amministrativo nel predetto art. 44, riserva invece espressamente operata dal legislatore in altre fattispecie (per es. art. 4 d.lgs. 213/03).

Del resto, come già ripetutamente affermato dai giudici di merito, il diritto a non essere trattati diversamente per una delle ragioni vietate dall'ordinamento appartiene ai diritti fondamentali dell'individuo (cfr. per tutti artt. 20 e 21 CEDU) e trova pertanto nel giudice ordinario il suo giudice naturale anche quando vengano in gioco atti o comportamenti della P.A., fermo il solo limite del G.O. rispetto alla rimozione dell'atto.

Il "diritto fondamentale" che determina la giurisdizione è quella di non subire distinzioni per una ragione vietata, indipendentemente dal fatto che tale illegittima distinzione sia operata da un privato o da una P.A. Restano quindi fermi solo i limiti che impediscono all'A.G.O. di annullare l'atto amministrativo, ma ciò non toglie che questa abbia l'obbligo di adottare anche nei confronti della P.A. tutti i provvedimenti idonei a rimuovere gli effetti della discriminazione.

Del resto, la stessa Cassazione nella sentenza più volte citata dalla reclamante non si è posta alcun problema di giurisdizione entrando nel merito proprio di un procedimento ex art. 44 T.U. immigrazione.

Nel merito.

La Corte costituzionale si è già pronunciata affermando che in materia di lavoro vige il principio generale di uguaglianza ex art. 3 Cost. ed ex art. 2, co. 3 T.U. immigrazione che si applica non solo ai "già lavoratori" ma anche nella fase di accesso al lavoro con la conseguenza che nel caso che oggi ci occupa, non resta che verificare se esista nel nostro ordinamento una norma che legittimamente introduca una differenza di trattamento.

La reclamante la individua nell'art. 2 d.p.r. 487/94 secondo cui non rientrerebbe tra i diritti fondamentali tutelati dalla Carta costituzionale quello di entrare in forma stabile nell'organico della P.A. e sotto questo punto di vista censura il provvedimento del tribunale che sarebbe incappato in un vero e proprio straripamento di potere giurisdizionale. Rifacendosi alla pronuncia n. 24170/06 della Suprema Corte la reclamante ribadisce che il requisito della cittadinanza italiana per gli impiegati pubblici non può ritenersi abrogato e dunque afferma il principio generale di divieto di accesso agli stranieri che tuttavia, a parere di questo Collegio, va disatteso in quanto oggetto di numerose eccezioni: innanzitutto l'art. 2, co. 3, T.U. immigrazione, in attuazione della Convenzione OIL 143/75, stabilisce il principio della "parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti" tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti per quanto riguarda l'accesso al lavoro.

Inoltre, ai fini dell'accesso al pubblico impiego, la cittadinanza non è richiesta ex art. 38 d.lgs. 165/01 ai cittadini comunitari e, ex art. 25 d.lgs. 251/07, agli stranieri aventi lo status di rifugiati politici. Si aggiunga poi che, in base all'art. 11, co. 1, della direttiva 2003/109/CE (direttamente applicabile nel nostro ordinamento) non è richiesta la cittadinanza per l'esercizio di un'attività lavorativa subordinata o autonoma, purché questa non implichi nemmeno in via occasionale la partecipazione all'esercizio di pubblici poteri, ove il riferimento ai pubblici poteri, concetto inconcepibile al di fuori del pubblico impiego, implica necessariamente che la direttiva abbia inteso consentire l'accesso al pubblico impiego ai soggiornanti di lungo periodo.

Altra eccezione al generale divieto di accesso alla P.A. per gli stranieri va ravvisata nelle disposizioni sulla stabilizzazione introdotte con le leggi finanziarie 2007 e 2008 che richiedono come unico requisito la pregressa assunzione con contratto a termine sulla base di procedure selettive.

Peraltro, è pacifico tra le parti, anche perché proprio la reclamante risulta averne fatto ampio utilizzo, che per l'assunzione a termine non è richiesta la cittadinanza ma solo una procedura di selezione avente natura concorsuale, con la conseguenza che il legislatore, ponendo come unico requisito per la stabilizzazione quello del pregresso servizio e non accennando alla cittadinanza, ha inteso proprio superare il limite della appartenenza allo Stato in qualità di cittadini.

Ciò è tanto più vero se si considera che il d.p.r. 220/01 (regolamento recante la disciplina concorsuale del personale del SSN) prevede come requisito generale il possesso della cittadinanza italiana salve le equiparazioni stabilite dalle leggi, come appunto quella prevista dall'art. 2 co. 3 T.U. immigrazione o, ancor di più, quella ricavabile dall'art. 27, co. 1, T.U. immigrazione che prevede la possibilità di ingresso "fuori quota" per "infermieri professionali assunti presso strutture sanitarie pubbliche e private" Infine, non si può dimenticare che il regolamento di attuazione del T.U. (d.p.r. 394/99), nel testo modificato a seguito della cd. Bossi-Fini, ha così previsto all'art. 40, co. 21: "Le strutture sanitarie, sia pubbliche che private, sono legittimate alla assunzione degli infermieri anche a tempo indeterminato tramite specifica procedura". In materia sanitaria si deve ritenere che il requisito della cittadinanza sia caduto per una specifica categoria, quella degli infermieri, rispetto alla quale sia per sanare la cd "emergenza infermieristica", sia per la estraneità di tale figura a qualsiasi esercizio di pubbliche funzioni - il legislatore ha scelto di rimuovere espressamente il requisito: categoria che, oltre tutto, la stessa P.A. (e non ultimo la reclamante) interpreta con la massima larghezza posto che, in forza di essa, ha assunto non solo infermieri professionali extra comunitari, ma anche tecnici e operatori socio assistenziali, come la intervenuta e odierna reclamata.

Non appare dunque invocabile quella esigenza di "fedeltà alla nazione" del dipendente pubblico, ripetutamente richiamata dalla reclamante, tenuto conto che, ove sussistente. dovrebbe valere anche in caso di assunzioni a termine e non solo in caso di assunzione stabile, tanto più quando, come nel contesto attuale, i rapporti a termine si protraggano per anni e anni svolgendo all'interno della P.A. una funzione assolutamente identica a quella che svolge il dipendente a tempo indeterminato e quando, come nell'ordinamento del pubblico impiego privatizzato, i contratti di lavoro flessibile costituiscano, per previsione normativa, una forma ordinaria di reclutamento da parte della P.A.

Il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività contenuto nell'art. 27 co. 3 del T.U. immigrazione, andrà dunque limitato a specifiche funzioni, generalmente ricollegabili all'esercizio di pubblici poteri o di funzioni di interesse nazionale, di modo che il lavoratore possa rivestire la qualifica di "pubblico ufficiale" piuttosto che ad una particolare tipologia di datore di lavoro (pubblico o privato), o ad una particolare tipologia di contratto, in specie di natura stabile rispetto a quello avente una durata prestabilita.

Diversamente, come ha correttamente ritenuto il giudice di prime cure, il requisito della cittadinanza verrebbe "ad assumere un connotato discriminatorio comportando un trattamento diseguale e più svantaggioso per il non cittadino in assenza di una differenziazione oggettiva tra le due posizioni". Ne deriva dunque, che almeno in ambito sanitario, qual è quello oggetto del presente reclamo, non si possa condizionare le procedure di stabilizzazione al possesso della cittadinanza.

L'ordinanza reclamata, limitandosi a dichiarare la natura discriminatoria del comportamento della reclamante e ordinandole di rimuoverne gli effetti, ammettendo di conseguenza anche i dipendenti extracomunitari alle procedure di stabilizzazione, non ha condannato la reclamante ad un facere in quanto, una volta rimosso questo vizio che incide sul diritto soggettivo dei dipendenti extracomunitari, la P.A. sarà ancora libera di esercitare il proprio potere discrezionale nella valutazione e formazione delle graduatorie all'esito della procedura senza alcun condizionamento da parte dell'A.G.O. Spese di lite, nella misura di cui al dispositivo, a carico della reclamante in virtù del principio di soccombenza.

P.Q.M.

il tribunale di Milano, in composizione collegiale, conferma il provvedimento reclamato e condanna la reclamante alla rifusione delle spese della procedura che liquida in [...].