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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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L'accesso degli stranieri all'alloggio
 
Scheda pratica a cura di Walter Citti e Paolo Bonetti (Aggiornata al 13.03.2009)
 
Sommario

1.  Il diritto all'abitazione e l'accesso all'abitazione degli stranieri nel sistema costituzionale, nel diritto internazionale e nel diritto comunitario.

2. La disciplina del Testo Unico sull'immigrazione  e accesso degli stranieri extracomunitari all'abitazione . Prima accoglienza e integrazione socio-abitativa.

2.1 I dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 40 c. 6 del T.U. Rapporti tra legislazione statale in materia di immigrazione e di condizione giuridica dello straniero e  potestà residuale delle Regioni in materia.

3. La condizione degli extracomunitari titolari di permesso di soggiorno per lavoro subordinato: il  legame tra l'alloggio e il contratto di soggiorno (cenni).

4. La condizione speciale dei richiedenti asilo e l'accesso ai centri di accoglienza per richiedenti asilo (cenni).

5. La condizione speciale degli stranieri titolari di status di rifugiato e di protezione sussidiaria (cenni).

6. L'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica. 

6.1. La giurisprudenza in materia di parità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri nell'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica.

6.2. I requisiti di anzianità di soggiorno per l'accesso agli alloggi di e.r.p. quale possibile fonte di discriminazione indiretta o dissimulata ai danni della popolazione straniera.

7. Le prestazioni sociali per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione: l'accesso degli stranieri extracomunitari alle prestazioni sociali previste dal Fondo nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione istituito dalla legge n. 431/1998 e le discriminazioni introdotte dalla legge n. 133/2008.

8. Le "azioni positive" per il soddisfacimento del bisogno abitativo e le potenziali discriminazioni insite nel piano nazionale di edilizia abitativa.

1.  Il diritto all'abitazione e l'accesso all'abitazione degli stranieri nel sistema costituzionale, nel diritto internazionale e nel diritto comunitario.

Il diritto all'abitazione è garantito dalla Costituzione anche agli stranieri.

In generale l'art. 47 Cost. esige che la Repubblica favorisca l'accesso del risparmio popolare alla proprietà privata dell'abitazione, ma il diritto all'abitazione è ritenuto costituzionalmente implicito nella funzione sociale della proprietà previsto dall'art. 42 Cost., nella tutela dell'inviolabilità del domicilio (art. 16 Cost.), nell'esigenza che i pubblici poteri apprestino misure finalizzate ad assicurare la formazione delle famiglie, in particolare di quelle numerose, e il compimento dei suoi compiti (art. 31 Cost.) e nell'esigenza che la misura della retribuzione sia proporzionata anche all'esigenza di assicurare un'esistenza libera e dignitosa al lavoratore e alla sua famiglia (art. 36 Cost.).

Il diritto  all'abitazione, sebbene non previsto in modo pieno ed esplicito dalla  Costituzione italiana è stato chiaramente configurato dalla Corte costituzionale come diritto sociale collocabile tra i diritti inviolabili dell'uomo (Corte Cost., sent. 7 aprile 1988, n. 404). 

L'attribuzione allo straniero del diritto sociale all'abitazione è già indirettamente ricavabile proprio da quella sentenza della Corte costituzionale che afferma che è "doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione" e che perciò qualificò come fondamentale tale diritto che costituisce un "connotato della forma costituzionale di Stato sociale voluto dalla Costituzione", il quale deve "contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l'immagine universale della dignità umana", tanto che questi sono "compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso".

Perciò proprio perché il diritto all'abitazione attiene alla dignità e alla vita di ogni persona l'esigenza di disporre di una casa per sé e per la propria famiglia riceve tutela dall'ordinamento giuridico anche allorché di essa sia titolare uno straniero od un apolide presente sul territorio dello Stato.

Tuttavia poiché lo straniero non ha un diritto soggettivo perfetto all'ingresso e al soggiorno sul territorio nazionale, salvo che si tratti dello straniero a cui l'art. 10, comma 3 Cost. riconosce il diritto d'asilo o  quando vi siano particolari norme internazionali o comunitarie che prevedano la libertà di ingresso, soggiorno e stabilimento, lo straniero è titolare di un diritto all'abitazione nel territorio della Repubblica soltanto nei casi e nei modi consentitigli dalla legge, il cui contenuto deve essere conforme alle norme e ai trattati internazionali (art. 10, comma 2 Cost.).

La rilevanza dell'abitazione, insieme con l'alimentazione e il vestiario,  per la vita di ogni famiglia e per la crescita dei bambini è prevista dagli obblighi internazionali in vigore per l'Italia vincolanti ai sensi degli artt. 10, comma 2, e 117, comma 1 Cost..

In primo luogo che il diritto all'abitazione sia un diritto soprattutto della famiglia è previsto dall'art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, che dispone che ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute ed il benessere proprio e della propria famiglia con particolare riguardo al diritto all'abitazione (Corte Cost., sent. 20 dicembre 1989 n. 559).

In secondo luogo l'art. 11, comma 1, del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, firmato a New York il 16 dicembre 1966 (ratificato e reso esecutivo a seguito della legge 25 ottobre 1977, n. 881)  impegna gli Stati a riconoscere e attuare il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la sua famiglia, che includa alimentazione, vestiario e alloggio adeguati, nonché al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita.

In terzo luogo l'art. 27, comma 3, della convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva a seguito della legge 27 maggio 1991, n. 176) ,  impone agli Stati di adottare adeguati provvedimenti per aiutare i genitori o altri che hanno la responsabilità del fanciullo ad attuare il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita sufficiente per consentire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale e ad offrire, se del caso, un'assistenza materiale e programmi di sostegno, in particolare per quanto riguarda l'alimentazione, il vestiario e l'alloggio.

La tutela del bisogno di un alloggio adeguato è prevista anche dall'art. 5 della  Convenzione internazionale per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, firmata a New York il 21 dicembre 1965, ratificata e resa esecutiva con legge 13 ottobre 1975, n. 654 e dall'art. 14 della Convenzione per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne firmata a New York il 18 settembre 1979 (ratificata e resa esecutiva a seguito della legge 14 marzo 1985, n. 132).

L'art. 30 della Carta sociale europea riveduta, promossa dal Consiglio d'Europa, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva in virtù della legge 9 febbraio 1999, n. 30, prevede poi il diritto alla protezione contro la povertà e l'emarginazione sociale, per rendere effettivo il quale gli Stati si impegnano sia "a prendere misure nell'ambito di un approccio globale e coordinato per promuovere l'effettivo accesso in particolare al lavoro, all'abitazione, alla formazione professionale, all'insegnamento, alla cultura, all'assistenza sociale medica delle persone che si trovano o rischiano di trovarsi in situazioni di emarginazione sociale o di povertà, e delle loro famiglie" sia "a riesaminare queste misure in vista del loro adattamento, se del caso".

L'art. 31 della Carta in particolare per garantire l'effettivo esercizio del diritto all'abitazione impegna gli Stati a prendere misure destinate: 1. a favorire l'accesso ad un'abitazione di livello sufficiente; 2. a prevenire e ridurre lo status di"senza tetto" in vista di eliminarlo gradualmente; 3. a rendere il costo dell'abitazione accessibile alle persone che non dispongono di risorse sufficienti.

Occorre inoltre ricordare che in base all' art. 10, comma 2, e all' art.  117 Cost., il legislatore statale e regionale  ha l'obbligo di rispettare i vincoli derivanti da alcune norme internazionali, tra i quali si deve segnalare l'art. 6, lett. a) Convenzione sui lavoratori migranti promossa dall' OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) n. 97, aperta alla firma a Ginevra il 1 luglio 1949, ratificata e resa esecutiva con legge 5 agosto 1952, n. 1305, impone agli Stati di riconoscere ai lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti e ai loro famigliari un trattamento non meno favorevole dei cittadini nell'accesso all'alloggio.

L'art. 6 della Convenzione, infatti, così dispone: "1. Ogni Stato membro per il quale sia in vigore la presente convenzione si impegna ad applicare, senza discriminazione di nazionalità, razza, religione o sesso, agli immigranti che si trovano legalmente entro i limiti del suo territorio, un trattamento che non sia meno favorevole di quello che esso applica ai propri dipendenti in relazione alle seguenti materie : a) nella misura in cui queste questioni sono regolate dalla legislazione o dipendono dalle autorità amministrative : [...] iii) l'alloggio ".

Anche il diritto comunitario impone precisi limiti alla facoltà del legislatore nazionale e regionale di intervenire nel trattamento dei cittadini stranieri con riferimento al diritto all'accesso all'abitazione, sebbene  solo in relazione a quelle categorie di cittadini stranieri "protette" dal diritto comunitario medesimo.

Per quanto concerne i cittadini comunitari, vale innanzitutto il principio di non discriminazione di cui all'art. 12 del Trattato sulla Comunità Europea, il quale dispone che "nel campo di applicazione del presente trattato, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dallo stesso previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità".

La Corte di Giustizia europea ha affermato che il divieto contenuto nell'articolo 12 T CE "richiede la perfetta parità di trattamento, negli Stati membri,  tra i soggetti che si trovano in una posizione disciplinata dal diritto comunitario e i cittadini dello Stato membro in questione". (Corte di Giustizia comunità europee, sent. Data Delecta, C-43/95, par. 16). 

Per effetto della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, che ha progressivamente esteso l'ambito di applicazione dell'art. 12 del Trattato delle Comunità europee, la regola della parità di trattamento trova applicazione anche ai diritti e vantaggi sociali e fiscali non direttamente connessi all'impiego del lavoratore comunitario che ha esercitato il diritto alla libera circolazione.

Così, a partire dall'art. 9 del Regolamento (CEE) n. 1612/68 del Consiglio, del 15 ottobre 1968, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità, è stata pacificamente prevista  la parità di trattamento del lavoratore comunitario migrante con i lavoratori nazionali per quanto concerne i diritti e i vantaggi accordati in materia di abitazione, in quanto funzionali alla piena realizzazione della libertà di circolazione dei lavoratori.

Rientra nel campo di applicazione del  diritto comunitario anche il principio di parità di trattamento in materia di accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica tra cittadini nazionali e cittadini stranieri di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, previsto dall'art. 11, comma 1, lett. f) della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, concernente lo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, attuata in Italia con il d.lgs. n. 3/2007 che ha modificato l'art. 9 del T.U. delle leggi sull'immigrazione, approvato con D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (di seguito "T.U.").

In particolare l'art. 9, comma 12 lett. c) T.U. prevede che lo straniero titolare di permesso CE per soggiornanti di lungo periodo - che si acquisisce dopo 5 anni di soggiorno regolare ininterrotto - ha diritto di "usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, di quelle relative ad erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative all'accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, compreso l'accesso alla procedura per l'ottenimento di alloggi di edilizia residenziale pubblica, salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l'effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale".

2. La disciplina del Testo Unico sull'immigrazione e l'accesso degli stranieri all'abitazione. Prima accoglienza e integrazione socio-abitativa.

Le norme vigenti tutelano le esigenze alloggiative dello straniero extracomunitario e della sua famiglia in modo assai articolato a seconda della sua condizione giuridica e della definizione dei familiari  che l'ordinamento ritiene ammissibili in relazione all'esercizio del  diritto all'unità familiare.

In alcune ipotesi (ingresso per richiedere asilo, status di rifugiato, protezione sussidiaria, protezione temporanea in caso di esodi di massa) l'ordinamento comunitario e quello nazionale ritengono che lo straniero si trovi in una condizione più delicata e meritevole una speciale protezione e in un prevedibile stato di pericolo immediato o di indigenza. Perciò si prevede che l'alloggio familiare sia fornito direttamente o indirettamente dai pubblici poteri nell'ambito di complessive misure di accoglienza o comunque non si esige dallo straniero la disponibilità di un alloggio per sé e per i suoi familiari conviventi quale presupposto per l'ingresso o il soggiorno nel territorio dell'Unione insieme con i suoi familiari.

Nelle altre ipotesi invece la disponibilità di un alloggio da parte dello straniero stesso e dei suoi familiari costituisce uno dei presupposti essenziali richiesti ai fini di ottenere l'ingresso o un particolare tipo di soggiorno nel territorio degli Stati membri dell'Unione europea.

Per ora tale obbligo è previsto dalle norme comunitarie:

a) per gli ingressi di breve periodo (si vedano la scheda sui visti di ingresso in generale e la scheda sui requisiti generali e cause ostative dell'ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari),

b) per gli ingressi e i soggiorni per ricongiungimento familiare (si veda la scheda sui ricongiungimenti familiari) e

c) per il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (si veda la scheda sul permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo).

A ciò si deve aggiungere la controversa disciplina nazionale dell'alloggio degli stranieri nei casi di ingresso e soggiorno per lavoro, attraverso la previsione del c.d. "contratto di soggiorno".

Il Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con il D. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (di seguito indicato come "T.U."), come modificato dalla legge n. 189/2002, sembra  indicare un modello per l'accesso degli stranieri all'abitazione, strutturato su due fasi:

a) quella della prima e della seconda accoglienza, destinata a provvedere ai fabbisogni abitativi e di sussistenza immediati e temporanei degli stranieri extracomunitari regolarmente soggiornanti per motivi non turistici, ma in alcune ipotesi anche degli stranieri extracomunitari in condizione irregolare (art. 40 commi 1,2,3);

b) quella dell'integrazione sociale, mediante l'accesso degli stranieri extracomunitari che siano titolari di determinati di titoli di soggiorno e che possiedano determinati requisiti che attestino un sufficiente  radicamento sociale, a tutte le forme di sostegno per l'accesso agli alloggi pubblici, al mercato della locazione privata o all'acquisto della prima casa, alle stesse condizioni previste per i cittadini italiani (art. 40, comma 6).

L'intervento  della prima accoglienza, da attuarsi mediante la predisposizione di appositi centri di accoglienza,  è lasciato sostanzialmente alla discrezionalità e alle competenze delle Regioni e degli Enti locali, che eventualmente potranno attingere anche alle risorse messe a disposizione dal Fondo nazionale per le politiche migratorie di cui all'art. 45 del T.U.

Più in generale si può affermare il testo unico delle disposizioni sulla disciplina dell'immigrazione approvato con D. Lgs. n. 286/1998 disciplina il ruolo dell'alloggio per l'integrazione degli immigrati nella società di accoglienza ed ha posto l'abitazione quale condizione necessaria ed indispensabile per poter godere di una serie di diritti, tra cui il ricongiungimento familiare.

In particolar modo gli artt. 6, 22, 23, 26, 29 T.U. indicano l'importanza dell'alloggio ai fini del soggiorno, del lavoro, e del ricongiungimento familiare; il principio previsto dall'art. 2 della parità di trattamento in materia di diritti civili dello straniero regolarmente soggiornante, prescindendo dalla condizione di reciprocità, consente  agli stranieri il diritto all'acquisto di immobili; l'art. 40 indica le strutture e i servizi che le istituzioni pubbliche devono predisporre per facilitare la soluzione del problema casa per gli stranieri; l'art. 43 dedicato alle discriminazioni subite dagli stranieri riconosce quale atto discriminatorio sanzionato il rifiuto di concedere in locazione un'abitazione ad uno straniero regolarmente soggiornante; l'art. 45 indica tra le funzioni del Fondo nazionale per le politiche migratorie la facilitazione dell'accesso alla casa.

L'art. 40, come modificato in senso restrittivo dalla legge n. 189/2002, è quello che in dettaglio indica le misure che i pubblici poteri statali, regionali e locali sono chiamati a predisporre per contribuire a soddisfare le necessità alloggiative degli immigrati che non riescono a "trovare casa" nel libero mercato. In particolare l'art. 40 prevede:

A) i centri di accoglienza, strutture che, anche gratuitamente, provvedono alle immediate esigenze alloggiative ed alimentari degli stranieri (in regola o non), nonché, ove possibile, all'offerta di occasioni di apprendimento della lingua italiana, di formazione professionale, di scambi culturali con la popolazione italiana, e all'assistenza socio-sanitaria. Si tratta di soluzioni temporanee che raramente sono in grado di ospitare interi nuclei familiari.

I centri di accoglienza menzionati dall'art. 40 T.U. costituiscono dei veri e propri trampolini temporanei di lancio di uno straniero regolarmente soggiornante in direzione di un autonomo inserimento nella società di un determinato luogo e perciò essi si distinguono dai centri di prima assistenza per il soccorso degli immigrati irregolari (istituiti dal decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito nella legge 29 dicembre 1995, n. 563), dai CARA, centri di accoglienza per richiedenti asilo (istituiti dal d. lgs. n. 25/2008) e dai CIE, centri di identificazione ed espulsione nei quali lo straniero respinto o espulso è trattenuto temporaneamente (art. 14 T.U., come modificato più volte).

Più esattamente l'art. 40 T.U. delinea i requisiti dei centri di accoglienza:

sono destinati ad destinati ad ospitare, anche in strutture ospitanti cittadini italiani o cittadini di altri Paesi dell'Unione europea, stranieri regolarmente soggiornanti per motivi diversi dal turismo, che siano temporaneamente impossibilitati a provvedere autonomamente alle proprie esigenze alloggiative e di sussistenza

sono finalizzati a rendere autosufficienti gli stranieri ivi ospitati nel più breve tempo possibile. I centri di accoglienza provvedono, ove possibile, ai servizi sociali e culturali idonei a favorire l'autonomia e l'inserimento sociale degli ospiti. Ogni regione determina i requisiti gestionali e strutturali dei centri e consente convenzioni con enti privati e finanziamenti

sono strutture alloggiative che, anche gratuitamente, provvedono alle immediate esigenze alloggiative ed alimentari, nonché, ove possibile, all'offerta di occasioni di apprendimento della lingua italiana, di formazione professionale, di scambi culturali con la popolazione italiana, e all'assistenza socio-sanitaria degli stranieri impossibilitati a provvedervi autonomamente per il tempo strettamente necessario al raggiungimento dell'autonomia personale per le esigenze di vitto e alloggio nel territorio in cui vive lo straniero (si noti che non si esige che si tratti del primo luogo di approdo in Italia, ma di un luogo di vita duraturo sito nel luogo in cui la persona si trova).

B) Gli alloggi sociali, collettivi o privati organizzati nella forma di pensionato accessibile agli stranieri regolarmente soggiornanti ed agli italiani, e sono finalizzati ad offrire una sistemazione alloggiativa dignitosa a pagamento, secondo quote calmierate, nell'attesa del reperimento di un alloggio ordinario in via definitiva. Anche in questo caso si tratta di soluzioni temporanee ove raramente alloggiano famiglie intere.

C) L'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, in condizioni di parità con i cittadini italiani, per gli stranieri titolari di carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo) e gli stranieri regolarmente soggiornanti ed in possesso di permesso di soggiorno almeno biennale e esercitanti una regolare attività lavorativa dipendente o subordinata.

D) L'accesso ai servizi delle agenzie sociali, eventualmente predisposte da ogni Regione o dagli enti locali, per agevolare l'accesso alle locazioni e al credito agevolato per il recupero, l'acquisto e la locazione della prima casa, per gli stranieri regolarmente soggiornanti per motivi di lavoro subordinato o autonomo, anche se iscritti nelle liste di collocamento.

In realtà la legge n. 189/2002 ha introdotto nell'ordinamento giuridico l'obbligo per il datore di lavoro ed il  lavoratore extracomunitario titolare di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato di stipulare un apposito "contratto di soggiorno" recante anche precise indicazioni circa la disponibilità di un alloggio adeguato per il lavoratore, il che sposta sul datore di lavoro dello straniero extracomunitario l'onere di reperire un alloggio adeguato per lo straniero.

L'integrazione socio-abitativa degli immigrati è affidata invece al principio di parità di trattamento con i cittadini italiani, derivante innanzitutto da norme pattizie internazionali, sebbene  ne sia stato ristretto, con le modifiche apportate dalla legge n. 189/2002 (c.d. "Bossi-Fini"),  l'ambito dei beneficiari mediante l'introduzione di requisiti attestanti apparentemente un maggiore  consolidamento del soggiorno in Italia.

Così l'art. 40 comma 6 T.U. emanato con d.lgs. n. 286/1998, come modificato dalla legge n. 189/2002, prevede che gli stranieri titolari di carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti) e gli stranieri  regolarmente soggiornanti in possesso di permesso di soggiorno almeno biennale e che esercitano un'attività di lavoro subordinato o di lavoro autonomo hanno diritto di accedere, in condizioni di parità con i cittadini italiani, agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ai servizi di intermediazione delle agenzie sociali eventualmente predisposte da ogni Regione o dagli Enti locali per agevolare l'accesso alle locazioni abitative e al credito agevolato in materia di edilizia, recupero, acquisto, locazione della prima casa di abitazione.

2.1. I dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 40 comma 6 del T.U. I rapporti tra la legislazione nazionale in materia di immigrazione e condizione giuridica dello straniero e la potestà residuale delle Regioni in materia.

L'attuale formulazione dell'art. 40 comma 6 del T.U. potrebbe già porre problemi di compatibilità con l'obbligo internazionale derivante dal richiamato testo della citata Convenzione OIL n. 97 del 1949 sui lavoratori migranti, che  garantisce alla generalità dei lavoratori migranti, che si trovano legalmente sul territorio di uno Stato membro, senza discriminazioni di reddito, o basate sull'anzianità,  o sul consolidamento del loro soggiorno, o altri requisiti, il principio di   parità di opportunità e trattamento rispetto ai cittadini nazionali anche  in materia di accesso agli alloggi pubblici. 

La questione della legittimità costituzionale dell'art. 40 comma 6 del T.U. è stato posta  recentemente dal TAR Lombardia, con l'ordinanza n. 23/2009 del 23 febbraio 2009 che ha ritenuto non manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità concernente il requisito del possesso del permesso di soggiorno biennale previsto ai fini della fruizione da parte degli stranieri dei contributi per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione, di cui all'art. 11 della legge n. 431/1998 (si veda paragrafo   7),  in quanto  introdurrebbe un criterio irragionevole che si presta ad ingiuste disparità di trattamento contrarie al principio costituzionale di uguaglianza.

Il Tribunale amministrativo lombardo si ricollega, infatti, alla recente giurisprudenza costituzionale che ha stabilito che un requisito di stabile residenza può essere ragionevolmente richiesto al cittadino straniero per godere dei diritti sociali, ma solo con la finalità di dimostrare l'esistenza di un collegamento  significativo con la comunità nazionale (si veda paragrafo 7.1). Il criterio della durata almeno biennale del permesso di soggiorno non soddisferebbe in modo razionale e logico tale requisito, in quanto non tiene conto del periodo complessivo di permanenza dello straniero nel nostro paese e delle ragioni, spesso contingenti, che possono indurre gli uffici di polizia al rilascio dei permessi di soggiorno  di durata annuale, anziché biennali. Il TAR ricorda che la durata del permesso di soggiorno è, di norma, collegata al tipo di contratto di lavoro: due anni in relazione ad un contratto di lavoro a tempo indeterminato, un anno se a tempo determinato. Potrebbe, quindi,  ben succedere  che uno straniero che abbia  appena fatto ingresso in Italia, ottenendo un contratto di lavoro a tempo indeterminato, goda del permesso biennale, e quindi possa avere accesso al beneficio, mentre un altro, magari già residente in Italia da molti anni, e quindi con un più elevato grado di radicamento sociale e di collegamento con la comunità nazionale,  non possa invece accedervi perché in possesso in quel periodo contingente di un contratto di lavoro a tempo determinato.

In ogni caso occorre ricordare che la legittimità costituzionale o meno della restrizione prevista dalla legge per l'accesso degli extracomunitari agli alloggi di edilizia residenziale pubblica è importante poiché incide sulla legislazione regionale.

Infatti, mentre in generale la disciplina della gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica e la individuazione dei criteri di assegnazione degli alloggi dei ceti meno abbienti rientrano nella potestà legislativa esclusiva delle Regioni (così ricorda da ultimo Corte cost. sent. n. 94/2007), la potestà legislativa cambia a proposito della disciplina degli alloggi che debbano essere assegnati a cittadini extracomunitari poiché lo Stato ha potestà legislativa esclusiva in materia di condizione giuridica del cittadino extracomunitario e di immigrazione (art. 117, comma 2, lett. a), b), Cost.), sicché le norme dell'art. 40, comma 6, T.U. fissano una sorta di standard, di minus vincolante anche la legislazione regionale.

Restano comunque i limiti all'esercizio della potestà legislativa regionale derivanti dal principio di parità di trattamento nell'accesso agli alloggi pubblici di cui al già ricordato diritto pattizio internazionale e, specificamente, alla Convenzione OIL n. 97/1952.  Va al riguardo ricordato che la Corte Costituzionale - con le note sentenze  348/2007 e 349/2007 ha riconosciuto che il diritto pattizio internazionale costituisce ormai, ai sensi del nuovo art. 117 Cost., parametro di costituzionalità delle norme interne; in altri termini, le norme del diritto internazionale pattizio, tra cui quelle sopra ricordate in materia di parità di trattamento tra lavoratori migranti regolarmente soggiornanti e lavoratori nazionali nell'accesso agli alloggi pubblici, hanno un carattere sovraordinato e prevalente su qualunque norma interna, nazionale o regionale, anche posteriore ad esse confliggenti; l'eventuale contrasto tra una norma interna e quella pattizia internazionale implicherebbe dunque un profilo di illegittimità costituzionale della prima.

3. La condizione degli extracomunitari titolari di permesso di soggiorno per lavoro subordinato: il  legame tra l'alloggio e il contratto di soggiorno.

La riforma operata dalla legge "Bossi-Fini" ha inteso rafforzare un legame tra il soggiorno in Italia dello straniero e le sue condizioni abitative, mediante lo strumento del contratto di soggiorno di cui all'art. 5-bis d.lgs. n. 286/98.

(per ulteriori approfondimenti cfr. la scheda sul contratto di soggiorno)

Attraverso tale istituto, infatti, è stato prevista un'ulteriore condizione ai fini dell'accesso dello straniero in Italia per motivi di lavoro subordinato mediante il meccanismo delle quote di ingresso in Italia, quella cioè della garanzia del datore di lavoro della disponibilità di un alloggio per il lavoratore immigrato che rientri nei parametri minimi previsti dalla legislazione regionale  per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, da attestarsi mediante la presentazione del certificato di idoneità alloggiativa rilasciato dal comune competente. 

Con le modifiche apportate al Regolamento di attuazione del T.U., la formalizzazione del contratto di soggiorno, con la correlativa (auto)-certificazione dell'idoneità alloggiativa, è stata estesa anche alla fase di rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato (art. 13 d.P.R. n. 394/99 come modificato dal d.P.R. n. 334/2004), ponendo il lavoratore straniero extracomunitario titolare di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato in  una condizione discriminatoria rispetto a quella prevista per il lavoratore italiano, poiché la mancata disponibilità di un alloggio idoneo al lavoratore straniero titolare di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato impedisce la possibilità legale di instaurare o di continuare un valido rapporto di lavoro, violando di conseguenza il principio di parità di trattamento e di uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori nazionale, previsto dall'art. 10 della Convenzione OIL n. 143/1975, ratificata e resa esecutiva con legge 10 aprile 1981, n. 158,  e riconfermato dall'art. 2 del T.U.

Occorre poi ricordare che l'art. 2, comma 9 D.L. n. 195/2002 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 222/2002, ha poi previsto che i datori di lavoro che in esecuzione della garanzia prevista nel contratto di soggiorno per lavoro subordinato abbiano sostenuto le spese per fornire un alloggio rispondente ai requisiti di legge, possono, a titolo di rivalsa e per la durata della prestazione, trattenere mensilmente dalla retribuzione del dipendente una somma massima pari ad un terzo dell'importo complessivo mensile.

Poiché la misura massima della rivalsa (fino ad un terzo della retribuzione) prevista nei confronti della retribuzione dei lavoratori extracomunitari che abbiano stipulato un contratto di soggiorno è superiore alla misura massima (fino ad un quinto dello stipendio) per qualsiasi compensazione tra datore di lavoro e lavoratore prevista dagli artt. 1246, n. 3 cod. civ . e 545, commi 3 e 4, cod. proc. civ. tale diversità di trattamento è incostituzionale perché in violazione della riserva rinforzata di legge prevista dall'art. 10, comma 2 Cost., in quanto non è conforme alla parità di trattamento tra lavoratore nazionale e lavoratore straniero in materia di occupazione e di sicurezza sociale prevista dallo stesso art. 10 della convenzione O.I.L. n. 143/1975,

4. La condizione speciale dei richiedenti asilo e l'accesso ai centri di accoglienza per richiedenti asilo (cenni).

Una specifica tipologia di alloggi provvisori è prevista per i richiedenti asilo durante il periodo di esame della loro domanda di asilo.

Nel complesso sistema normativo creatosi per effetto del recepimento delle direttive comunitarie n.  2003/09/CE e n. 2005/85/CE, rispettivamente con i d.lgs. n. 140/2005 e 25/2008 come modificato dal successivo d.lgs. n. 159/2008, la tipologia delle strutture destinate all'accoglienza per i richiedenti asilo è almeno triplice:

CARA (Centri di accoglienza per Richiedenti asilo) nei quali i richiedenti asilo sono ospitati se rientrano in una delle ipotesi previste dall'art. 20 del d.lgs. n. 25/2008 (come modificato dal d.lgs. n. 159/2008), cioè quando è necessario verificare o determinare l'identità del richiedente, ovvero quando egli non sia in possesso dei documenti di viaggio o di identità, ovvero abbia presentato al suo arrivo nel territorio documenti falsi o contraffatti (art. 20 c. 2 lett. a) o quando lo straniero abbia presentato la domanda dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli di frontiera (lett. b) o dopo essere stato fermato in condizioni di soggiorno irregolare   (lett. c). (per approfondimento si veda la scheda sui centri di accoglienza per richiedenti asilo);

CIE (Centri di identificazione ed espulsione), nei quali i richiedenti asilo devono essere trattenuti se rientrano in una delle ipotesi previste dall'art. 21 del D. Lgs. n. 25/2008 (come modificato dal d.lgs. n. 159/2008), cioè i richiedenti asilo che si trovano nelle condizioni di cui all'art. 1 F della Convenzione di Ginevra del 1951 o che  risultino  condannati per taluni gravi reati o che siano già destinatari di provvedimenti di espulsione e respingimento (per approfondimenti si veda la scheda sul trattenimento dei richiedenti asilo nei centri di identificazione ed espulsione CIE);

Centri di accoglienza appartenenti alla rete SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, gestito per effetto di una convenzione tra Ministero dell'Interno ed ANCI, che provvede dunque a raccogliere le adesioni degli enti locali ad un sistema integrato di accoglienza  dei richiedenti asilo e dei rifugiati), istituito dall'art. 1-sexies del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito con modificazioni nella legge 28 febbraio 1990, n. 39, inserito dall'art. 32 della legge n. 189/2002, destinati ad ospitare  nei restanti casi i richiedenti asilo privi di un alloggio, anche se le risorse finanziarie disponibili rendono sempre inadeguato il numero dei posti disponibili rispetto al numero dei richiedenti asilo (per approfondimenti si veda la scheda sullo SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati).

Peraltro l'art. 20 c. 1 del d.lgs. n. 25/2008 prevede il principio generale in base al quale il richiedente asilo non può essere trattenuto per il solo fatto di esaminare la domanda.

Una combinata lettura delle disposizioni del d.lgs. n. 25/2008 e successive modifiche con quelle di cui al d.lgs. n. 140/2005,  fanno ritenere che l'accoglienza del richiedente asilo  presso i CARA debba essere assicurata nelle more della  decisione sull'istanza, periodo nel quale va ricompresa  anche la procedura di ricorso contro la decisione negativa assunta in primo grado dalla competente commissione territoriale, ma comunque non oltre il periodo di sei mesi dalla presentazione  dell'istanza, scaduti i quali la revoca dell'accoglienza viene collegata al rilascio a favore del  richiedente asilo di un permesso di soggiorno provvisorio valido per l'esercizio dell'attività lavorativa, a meno che le condizioni fisiche dell'interessato non gli impediscano  di svolgere un'attività lavorativa  (art. 5 c. 7 d.lgs. n. 140/2005).

La citata norma di attuazione della direttiva europea n. 2003/09/CE non sembra conforme   alla norma comunitaria  che prevede, accanto al principio generale di esclusione della revoca dell'accoglienza prima che sia presa una decisione negativa (art. 16 comma 5), la facoltà di prevedere eccezioni a tale principio nelle ipotesi in cui  i richiedenti asilo dispongano di  mezzi sufficienti per assicurarsi autonomamente condizioni materiali di accoglienza, ad esempio qualora siano occupati per un ragionevole lasso di tempo (Art. 13 comma 4 della direttiva) e sempre sulla base di una valutazione individuale, obiettiva ed imparziale, cioè basata sulla particolare situazione della persona interessata (art. 16 comma 4 della direttiva).

La previsione contenuta nella normativa italiana di una revoca automatica e generalizzata dell'accoglienza allo scadere dei sei mesi dalla presentazione dell'istanza  senza che sia intervenuta una decisione definitiva sull'istanza di asilo, previo rilascio del permesso di soggiorno provvisorio valido per  l'esercizio dell'attività lavorativa, con l'unica eccezione dei richiedenti asilo che, in ragione delle loro condizioni fisiche e di salute, non siano idonei all'attività lavorativa, non appare conforme alle norme comunitarie e potrebbe dunque determinare un profilo di violazione degli obblighi comunitari.

5. La condizione  degli stranieri titolari di status di rifugiato e di protezione sussidiaria (cenni).

Tanto la Convenzione di Ginevra  in materia di status dei rifugiati  del 1951 (art. 21) quanto la Direttiva europea n. 2004/83/CE prevedono per i beneficiari dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria la condizione di parità di trattamento con i cittadini di paesi terzi in soggiorno regolare ai fini dell'accesso all'alloggio.

Pertanto, valgono anche nei confronti dei rifugiati e dei titolari della protezione sussidiaria le  norme di cui all'art. 40 comma 6 del T.U, come espressamente richiamato dall'art. 29 comma 3 del d.lgs. n. 251/2007.

Eventuali azioni positive volte all'integrazione sociale (inclusa l'integrazione alloggiativa) dei rifugiati o dei  titolari della protezione sussidiaria possono essere previste dagli enti locali aderenti al sistema SPRAR di cui all'art. 1-sexies del D.L. 416/89, ovvero messe in atto nell'ambito delle azioni previste dall'art. 42 del T.U. immigrazione e finanziate con il Fondo nazionale per le politiche migratorie di cui all'art. 45 T.U. (per approfondimenti si vedano la scheda sullo status di rifugiato e la scheda sullo status di protezione sussidiaria).

6. L'accesso degli stranieri agli alloggi di edilizia residenziale pubblica.

Nel punto 2.1. si sono approfonditi i profili di legittimità costituzionale delle disposizioni di cui all'art. 40 comma 6 T.U. in materia di parità di trattamento con i cittadini nazionali degli stranieri titolari di permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti o di permesso di soggiorno biennale e svolgenti attività lavorativa per quanto concerne, tra l'altro, l'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica.

6.1. La giurisprudenza in materia di parità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri nell'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica.

In relazione al citato principio di parità di trattamento nell'accesso agli alloggi di E.R.P. e al conseguente divieto di discriminazioni dirette a danno della popolazione straniera solo in ragione della condizione di cittadinanza, vanno segnalate due pronunce giurisprudenziali: la prima del  Tribunale di Milano nel 2002, il quale   ha ritenuto che un bando del Comune di Milano per l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica (e.r.p), contenente la previsione di un punteggio aggiuntivo ai fini della graduatoria esclusivamente in ragione della cittadinanza italiana del richiedente, provocasse un trattamento deteriore per gli stranieri, pur se regolari, solo in ragione del loro status e che, perciò,  integrasse gli estremi del comportamento discriminatorio vietato dall'art. 43 T.U. immigrazione (Trib. Milano, sent. 21.3.2002, in Foro Italiano, 2003, pp.3177 ss.).

Analogamente, con una ordinanza ( TAR Lombardia - sez. Brescia - ord. 25.2.2005, n. 264 ), il TAR della Lombardia, sempre in tema di accesso agli alloggi di e.r.p., ha ritenuto che un regolamento comunale, subordinante l'accesso degli stranieri all'alloggio all'esistenza della c.d. condizione di reciprocità prevista dall'art 16 preleggi, violasse il principio di parità di trattamento in materia di diritti civili previsto dal 2° comma dell'art 2 T.U immigrazione, per il quale "lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano".

6.2. I requisiti di anzianità di soggiorno nel territorio regionale per l'accesso agli alloggi di e.r.p. quale possibile fonte di discriminazione indiretta o dissimulata ai danni della popolazione straniera.

Al fine di aggirare il principio di parità di trattamento con i cittadini nazionali nell'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, sancito dalle citate norme del diritto pattizio internazionale e  del diritto comunitario, si sono progressivamente affermate negli ultimi anni normative regionali e delibere di enti locali miranti a  posporre nelle graduatorie le persone di nazionalità straniera, facendo leva sul requisito del radicamento sul territorio locale anziché sul possesso della cittadinanza.

Così, ad esempio la Legge regionale della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7 prevede  che per la presentazione della richiesta per l'assegnazione di alloggi di e.r.p., "i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno 5 anni per il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda".

Con l'art. 38 comma 1 della  legge regionale  Friuli-Venezia Giulia 5 dicembre 2008,  n. 16 si è modificato il sistema di attribuzione dei punteggi  per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica nel territorio della Regione Autonoma F.v.g., con la previsione di una maggiorazione progressiva in base agli anni di residenza anagrafica nel territorio regionale. Con l'art. 38 comma 2 della medesima  legge regionale si è introdotto quale ulteriore requisito per beneficiare dell'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica quello della residenza anagrafica  ovvero dello svolgimento di attività lavorativa nel territorio nazionale da almeno dieci anni, anche non continuativi, di cui cinque nel territorio regionale.

Tali normative suscitano  perplessità sotto il profilo della loro compatibilità con il diritto comunitario.

Nel diritto comunitario, infatti,  il principio di parità di trattamento va inteso non solo come divieto di discriminazioni dirette, quando una persona protetta dal diritto comunitario è trattata meno favorevolmente di un'altra a causa della nazionalità (condizione di straniero), ma anche come divieto di discriminazioni indirette, quando cioè una disposizione, un criterio, una prassi apparentemente neutri  possono mettere le persone di diversa nazionalità, protette dalle norme comunitarie, in una posizione di particolare e sproporzionato  svantaggio rispetto ai cittadini dello Stato membro. Tale nozione di discriminazione indiretta è ricavabile tanto dalle due direttive anti-discriminazione (direttiva n. 2000/43/CE e direttiva n. 2000/78/CE) quanto dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e della Corte di giustizia.

In particolare nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea è consolidato  il principio secondo il quale il criterio della residenza può fondare una discriminazione indiretta o dissimulata vietata dall'ordinamento europeo (norme del trattato europeo, direttive anti-discriminazione, Convenzione europea sui diritti dell'uomo e libertà fondamentali).

La Corte di giustizia ha infatti chiarito, con riferimento al principio di non-discriminazione tra cittadini comunitari previsto nel Trattato CE, che il requisito della residenza  ai fini dell'accesso ad un beneficio può integrare una forma di illecita discriminazione "dissimulata" in quanto può essere più facilmente soddisfatto dai cittadini piuttosto che dai lavoratori comunitari, finendo dunque per privilegiare in misura  sproporzionata  i primi a danno dei secondi (ad es. Corte di giustizia delle Comunità europee sentenze Meints, 27.11.1997; Meussen, 8.06.1999; Commissione c. Lussemburgo, 20.06.2002).

Per una decisione emblematica che ha riguardato l'Italia,  si veda  la sentenza che ha condannato il nostro Paese per le agevolazioni tariffarie a vantaggio delle persone residenti per l'accesso ai Musei Comunali (Corte di giustizia dell'Unione europea sentenza 16 gennaio 2003 n. C-388/01, parr. 13 e 14): "...il principio di parità di trattamento..... vieta non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad altri criteri distintivi, produca, in pratica, lo stesso risultato. Ciò avviene, in particolare, nel caso di una misura che preveda una distinzione basata sul criterio della residenza, in quanto quest'ultimo rischia di operare principalmente a danno dei cittadini di altri Stati membri, considerato che il più delle volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri". Inoltre, è pacificamente consolidato il principio che forme di discriminazione indiretta possono essere consentite dal diritto comunitario solo se giustificate da considerazioni oggettive indipendenti dalla nazionalità della persona in questione e qualora proporzionate agli obiettivi legittimamente perseguiti. Di conseguenza, prevedere una certa anzianità di soggiorno o di svolgimento di attività lavorativa sul territorio locale ai fini dell'accesso agli alloggi pubblici  potrebbe avere la ragionevole e logica finalità di evitare che i medesimi vengano assegnati a soggetti che, non avendo ancora un legame sufficientemente stabile con il territorio,  possano poi rinunciare  alla loro utilizzazione,  rendendoli inutilizzabili per altri soggetti aventi diritto e frustrandone quindi la funzione socio-assistenziale. D'altro canto estendere  tale periodo di residenza o di attività lavorativa fino ad una durata addirittura quinquennale o decennale finisce per  avere conseguenze sproporzionate vanificando  l'accesso all'edilizia residenziale pubblica e quindi il godimento di un diritto all'alloggio proprio a coloro che, siano essi cittadini italiani o stranieri, trasferendosi per motivi di lavoro in un luogo diverso da quello di origine, si trovano in condizioni di maggiore difficoltà e disagio abitativo.

Non appare dunque remota la possibilità che siffatte normative regionali vincolanti l'accesso agli alloggi di e.r.p. ad un requisito di residenza o svolgimento di attività lavorativa a livello locale per un periodo pluriannuale, soprattutto se approvate con l'esplicito intento di ridurre il più possibile il numero dei beneficiari di nazionalità straniera,   possano incorrere nella censura da parte della Corte di Giustizia europea. Questa  potrebbe essere adita a seguito di un ricorso nelle sedi giurisdizionali (ricorso al TAR o  mediante azione giudiziaria anti-discriminazione ex art. 44 T.U. immigrazione)  attraverso l'apposita procedura di rinvio pregiudiziale,  con riferimento a quelle situazioni ove il principio di parità di trattamento ed il divieto di discriminazione sono  protetti dal  diritto comunitario (cittadini comunitari e loro famigliari, cittadini di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti di cui alla Direttiva 2003/109/CE).

La Corte Costituzionale italiana, chiamata a pronunciarsi sui rilievi di incostituzionalità della citata legislazione regionale della Lombardia,  si è mostrata invece restia  a cogliere i profili di discriminazione indiretta o dissimulata.

Con l'ordinanza 21 febbraio 2008, n. 32 infatti, la Corte ha ritenuto manifestamente infondata  la lamentata violazione dell'art. 3 Cost.. Il requisito di residenza continuativa di cinque anni nel territorio regionale, ai fini dell'assegnazione degli alloggi pubblici, non  è apparso  irragionevole alla Corte, ponendosi a suo avviso  in coerenza con le finalità che il legislatore intendeva perseguire, realizzando un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco.

A tal fine la Corte richiama la sua precedente giurisprudenza secondo la quale il requisito della residenza continuativa, ai fini dell'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica risulta non irragionevole (Corte cost. sent. n. 432/2005) quando si pone in coerenza con le finalità che il legislatore intende perseguire (Corte cost. sent. n. 493/1990), soprattutto se tali finalità realizzino un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco (Corte cost. ord. n. 393/2007).

7. Le prestazioni sociali per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione: l'accesso degli stranieri extracomunitari alle prestazioni sociali previste dal Fondo nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione istituito dalla legge n. 431/98 e le discriminazioni introdotte dalla L. 133/2008.

Con l'art. 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, è stato istituito un Fondo nazionale per il sostegno alle abitazioni in locazione, costituito presso il Ministero dei Lavori Pubblici (oggi Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) e la cui dotazione  è determinata annualmente dalla legge finanziaria.

La finalità  di tale Fondo è la sua  ripartizione ai Comuni al fine della successiva  emanazione  da parte di quest'ultimi di appositi bandi per la concessione  ai conduttori di alloggi di prestazioni sociali a titolo di  contribuiti integrativi per il pagamento dei canoni di locazione.

Condizioni per l'accesso a tali contributi sono la registrazione del contratto di locazione, il possesso di requisiti minimi di reddito annuo imponibile del nucleo familiare del richiedente pari ad un importo non superiore a due pensioni minime INPS rispetto al quale l'incidenza del canone di locazione risulti non inferiore al 14 per cento nelle regioni a statuto ordinario, ovvero non superiore a quello determinato dalle regioni e province autonome per l'assegnazione degli alloggi di e.r.p., rispetto al quale l'incidenza del canone di locazione risulti non inferiore al 24 per cento (D.M. 07.06.1999). La graduatoria da parte dei Comuni viene inoltre stilata sulla base della valutazione della situazione economica e patrimoniale del nucleo familiare attestata  dalla certificazione della situazione economica equivalente (ISEE) di cui al d.lgs. 31.3.1998 n. 109.

A tali prestazioni sociali per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione hanno avuto accesso anche i cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti, purchè in possesso dei requisiti fissati dall'art. 40 comma 6 del T.U. delle leggi sull'immigrazione (titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo o di un permesso di soggiorno di durata almeno biennale e che esercitano attività lavorativa dopo la riforma prevista dalla legge n. 189/2002).

Il comma 13 dell'art. 11 della  legge n. 133/2008, che ha convertito, con modificazioni, il decreto-legge n. 112/2008 (misure economico-finanziarie di stabilizzazione) prevede ora una discriminazione "diretta" nei confronti degli immigrati stranieri, disponendo che ai fini dell'accesso ai finanziamenti del citato  Fondo nazionale per il sostegno alle abitazioni in locazione venga previsto per i soli stranieri extracomunitari il requisito del possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione. Tale discriminazione "diretta", con l'introduzione di un requisito di anzianità di  residenza  che è richiesto ai soli stranieri extracomunitari, appare palesemente in contrasto con il principio di parità di trattamento in materia di accesso all'alloggio di cui alle normative internazionali ed europee già precedentemente richiamate al par. 1, oltre che appare in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza e ragionevolezza richiamati anche dalla giurisprudenza costituzionale. Trattandosi di una prestazione di natura sociale o assistenziale   avente natura di diritto soggettivo,  la sua erogazione non soggiacente  ad una valutazione individualizzata e discrezionale da parte dei  comuni, l'introduzione della residenza di lunga durata quale   criterio difforme di trattamento valevole solo per i cittadini di paesi terzi non appartenenti all'Unione europea, crea una palese violazione del principio di diritto comunitario di parità di trattamento in materia di prestazioni di assistenza sociale con riferimento a tutte quelle situazioni e categorie "protette" dal medesimo. 

Di conseguenza l'art. 13, comma 11 della legge n. 133/2008   viola il diritto comunitario (ed è perciò incostituzionale per violazione degli artt. 10, comma 2, e 117, comma 1 Cost.) con riferimento alle seguenti categorie di cittadini di paesi terzi:

a) familiari di cittadini dell'Unione Europea regolarmente soggiornanti (art. 24 direttiva 2004/38/CE, recepita in Italia con d.lgs. n. 30/2007; b)  titolari di permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti (art. 11 direttiva 2003/109/CE, recepita in Italia con d.lgs. n. 3/2007); c) rifugiati e titolari della protezione sussidiaria (art. 28 direttiva 2004/83/CE, recepita in Italia con d.lgs. n. 251/2007); d) cittadini di paesi terzi provenienti da altro Stato membro dell'Unione europea (Regolamento CE n. 859/2003); e) lavoratori marocchini, algerini, tunisini e turchi e loro famigliari regolarmente soggiornanti in Italia (principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale contenuto negli Accordi di Associazione euro-mediterranei, e nelle  regole applicative dell'Accordo di Associazione Ce- Turchia, applicabile in base alla giurisprudenza della CGE anche alle prestazioni sociali non contributive).

La normativa sull'accesso degli immigrati extracee al Fondo per il sostegno alle locazioni  appare inoltre di dubbia legittimità costituzionale anche in relazione ai principi di uguaglianza e ragionevolezza.

La Corte costituzionale ha stabilito che un requisito di stabile residenza può essere ragionevolmente richiesto al cittadino straniero per godere dei diritti sociali, ma solo con la finalità di dimostrare l'esistenza di un collegamento  significativo con la comunità nazionale.

A tale riguardo, si ricorda che la sentenza 29-30 luglio 2008, n. 306 della Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza la norma che prevedeva il requisito della carta di soggiorno per l'accesso dello straniero alle prestazioni sociali d'invalidità (art. 80 comma 19 Legge n. 388/2000), ma  non ha voluto intaccare l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale di soggiorno del cittadino straniero in Italia, con l' argomentazione che la questione non gli era stata rimessa dal giudice remittente. Tuttavia, la Corte ha voluto precisare che il legislatore può "subordinare, non irragionevolmente, l'erogazione di determinate prestazioni - non inerenti a rimediare a gravi situazioni di urgenza - alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno dello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata". Questo, tuttavia, con l'importante precisazione che "una volta, però, che il diritto a soggiornare alle condizioni predette non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali, riconosciuti invece ai cittadini".

Di conseguenza, alla luce dell'orientamento della Costituzionale il requisito del legame stabile e  significativo dello straniero con la comunità nazionale potrebbe già ritenersi soddisfatto dal possesso di uno dei permessi di soggiorno che ne assicurano il carattere di "multifunzionalità" di cui all'art. 6 comma 5 del T.U. Immigrazione, eventualmente associato ad un ragionevole periodo minimo di permanenza sul territorio. Tanto più, tale criterio non era in discussione nel momento in cui  il legislatore con l'art. 40 comma 6 T.U. aveva inasprito i requisiti per l'accesso dello straniero alle misure volte a realizzare il diritto all'abitazione, con la previsione del possesso della carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo) o  del permesso di soggiorno di durata almeno biennale (collegato generalmente a rapporti di lavoro a tempo indeterminato) e il congiunto esercizio dell'attività lavorativa; requisiti  che già di per sé  comprovano abbondantemente, anche se  forse non ragionevolmente (paragrafo 2.1),  il legame stabile dello straniero con la comunità nazionale.

La previsione per gli immigrati stranieri dell'ulteriore requisito  della residenza storica decennale sul territorio nazionale ovvero quinquennale nella regione non è volta a garantire la legittima esigenza di evitare  che tali prestazioni sociali siano disperse in quanto  assegnate a persone senza  un sufficiente legame con il territorio, ma costituisce una misura palesemente discriminatoria che vanifica la logica stessa dell'intervento assistenziale, quella cioè di agevolare l'integrazione sociale e l'accesso all'abitazione  a condizioni inferiori a quelle di mercato alle categorie sociale meno abbienti e più bisognose.

8. Le "azioni positive" per il soddisfacimento del bisogno abitativo e le potenziali discriminazioni insite nel piano nazionale di edilizia abitativa.

L'art. 11 del D.L. 26 agosto 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2008, n. 133  prevede che al fine di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo della persona umana, è approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri un piano nazionale di edilizia abitativa.

Nell'individuare, poi, le categorie che hanno diritto prioritariamente di fruire di suddette abitazioni la norma indica, accanto ai nuclei famigliari a basso reddito, le giovani coppie a basso reddito, gli anziani in condizioni svantaggiate, gli studenti fuori sede e i soggetti sottoposti a procedure esecutive di rilascio, anche gli immigrati regolari a basso reddito, residenti da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima Regione.

Se si interpreta l'inclusione della categoria degli immigrati regolari di lunga anzianità di soggiorno come "azione positiva" per favorire l'integrazione sociale dei medesimi,  consentendo comunque agli immigrati regolari di concorrere, a parità di condizioni, anche ai benefici previsti per le altre categorie, la disposizione appare apprezzabile.

Sarebbe invece un'interpretazione non consentita di quella norma legislativa (perché violerebbe la parità di trattamento e di non discriminazione  prevista dalle citate norme di diritto internazionale e comunitario e i principi costituzionali circa il diritto all'abitazione ed il principio di ragionevolezza) quella che voglia ritenere che l'indicazione da parte della norma legislativa delle varie categorie dei beneficiari si debba intendere  come rivolte ai soli cittadini, la disposizione in oggetto verrebbe a stabilire  direttamente una differenziazione nell'accesso a queste abitazioni nei confronti di chi non ha la cittadinanza italiana.