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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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06.06.2013

Tribunale di Roma: le procedure identificative svolte nei 'campi nomadi' e la conservazione dei relativi dati costituiscono una discriminazione basata sull'elemento etnico-razziale

 
Tribunale di Roma, II sez. civ., ordinanza 27 maggio 2013 (S. c. Ministero dell'Interno) (2.79 MB)
 

Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Interno e Prefettura di Roma condannati al risarcimento del danno e alla distruzione dei dati.

Il comunicato stampa 

Il Tribunale di Roma, con l’ordinanza dd. 27 maggio 2013, ha  accolto l’azione giudiziaria antidiscriminazione promossa da un cittadino italiano di etnia Rom,  unitamente ad ‘Associazione 21 luglio’, ASGI e Open Society Justice Initiative, contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, la Prefettura di  Roma ed il Ministero dell’Interno, in relazione ai fatti avvenuti il 3 gennaio 2010, quando, nell’ambito delle operazioni di sgombero del campo in cui abitava (noto come “Casilino 900”),  era stato condotto presso l’Ufficio immigrazione della Questura di Roma e sottoposto a rilievi dattiloscopici e fotografici.  Questo nonostante non fosse sospettato di alcun reato, né destinatario di alcun provvedimento amministrativo o giudiziario, né vi fossero elementi per dubitare della propria identità in quanto  in possesso della carta di identità.

Successivamente alla richiesta di accesso agli atti, esaudita dalle autorità di polizia solo a seguito di ricorso al TAR Lazio, il ricorrente aveva riscontrato che i dati relativi ai rilievi dattiloscopici erano ancora conservati presso l’Ufficio immigrazione della Questura di Roma.

I ricorrenti avevano dunque  proposto un’azione giudiziaria antidiscriminazione contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, la Prefettura di Roma ed il Ministero dell’Interno, ritenendo che i rilievi dattiloscopici e fotografici cui era stato sottoposto il cittadino italiano di etnia Rom costituivano una condotta  da ascrivere al carattere nel contempo illegittimo e discriminatorio del D.P.C.M. del 21.05.2008 e delle relative ordinanze in materia di dichiarazione dello stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi in diverse regioni italiane. Così come formulato, il decreto sull’’emergenza nomadi’ e le relative ordinanze,   consentivano alle autorità preposte di effettuare identificazioni delle persone stanziate presso i c.d. ‘campi nomadi’  attraverso rilievi segnaletici e dattiloscopici, incluso dunque il prelievo delle impronte digitali, anche a prescindere dalle condizioni soggettive e circostanziali di pericolosità sociale o di fondato sospetto di coinvolgimento in attività criminose ovvero anche nei casi in cui gli interessati già possiedano documenti identificativi, in violazione di quanto previsto dalle norme di rango superiore in materia di libertà personale, di cui all'art 4 del T.U.L.P.S. n. 773/1931.

Sotto la  pressione delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani e anche delle istituzioni europee ed internazionali, il Ministero dell’Interno emanò il 17 luglio 2008  le "Linee guida" per l'attuazione delle ordinanze presidenziali, nelle quali venne  precisato che i rilievi segnalateci sarebbero stati operati solo nei ristretti casi previsti dalla legislazione vigente e con speciali garanzie previste a tutela dei minori, nel rispetto degli standard costituzionali, europei ed internazionali e che i dati raccolti in violazione delle disposizioni citate, non sarebbero stati utilizzati, né conservati.

Tali ‘garanzie’ vennero ritenute giuridicamente irrilevanti dalla giustizia amministrativa che, con la sentenza del TAR Lazio n. 6352/2009 in primo grado e del Consiglio di Stato n. 6050/2011 in secondo grado, rilevarono che le ‘linee guida’ emanate dal Ministero dell’Interno avevano natura e consistenza di mera circolare, di livello inferiore rispetto alle disposizioni contenute nelle ordinanze presidenziali, per cui non potevano ritenersi giuridicamente vincolanti per i loro destinatari e la P.A. che le ha emanate, potendo essere da quest’ultima in qualsiasi momento disattese, derogate o modificate, dando luogo  a possibili interpretazioni ed applicazioni illegittime delle disposizioni contenute nel decreto sull’’emergenza nomadi’ e nelle rispettive ordinanze, le quali giustamente erano vennero annullate dal TAR Lazio per violazione delle norme generali in materia di libertà personale, di quelle specificamente poste a tutela dei minori, nonchè delle norme sul trattamento dei dati sensibili.

Il caso in questione, purtroppo, sembra evidenziare quanto diverse organizzazioni avevano denunciato negli anni scorsi, ovverosia che, nonostante le linee guida del Ministero dell’Interno, rilievi dattiloscopici e fotosegnaletici sono stati ugualmente effettuati nei confronti di persone insediate nei c.d. ‘campi nomadi’, in violazione delle norme di cui all’art. 4 del T.U.L.P.S., così come tali dati continuavano (e continuano) ad essere custoditi presso uffici del Ministero dell’Interno o sue articolazioni territoriali, nonostante le rassicurazioni  in senso contrario offerte dallo Stato italiano anche ad organismi internazionali (si veda in proposito al par. 11  delle Conclusioni del Comitato ONU per l’eliminazione della Discriminazione Razziale in merito al rapporto presentato dallo Stato italiano: “Il Comitato prende atto della  dichiarazione dello Stato membro, secondo cui  questi dati [i dati dattiloscopici e fotografici dei residenti dei campi Rom e Sinti raccolti a seguito dell’applicazione del decreto del maggio 2008 sull’’emergenza nomadi’] sono stati distrutti”, marzo 2012).

Il giudice di Roma, nell’ordinanza ora emanata, afferma che la procedura di identificazione cui il ricorrente è stato sottoposto nonostante fosse cittadino italiano e munito di carta di identità, oltrechè illegittima, ha natura di discriminazione fondata sulla sua appartenenza etnico-razziale alla comunità Rom, in quanto i provvedimenti normativi su cui tale identificazione ha avuto luogo, ovvero il decreto e le ordinanze presidenziali, sebbene abbiano avuto quali destinatari formalmente le persone presenti nei c.d. ‘campi nomadi’ a prescindere dalla loro appartenenza etnica, di fatto e nei risultati, hanno riguardato  persone appartenenti al gruppo etnico Rom,  risultando questi, nella stragrande maggioranza dei casi, gli abitanti di detti ‘campi’.

Il giudice di Roma, quindi, correttamente applica una nozione  ‘oggettiva’ di discriminazione nel campo del diritto civile, presente tanto nella norma antidiscriminatoria contenuta nel T.U. immigrazione (art. 43), quanto nella normativa di derivazione comunitaria, che ascrive rilevanza  decisiva al risultato  delle azioni, a prescindere dall’esistenza o meno del ‘dolo’  ovvero dall’esistenza o meno di un intento discriminatorio. Quindi, il giudice conclude che vi è stata discriminazione basata sull’origine etnica perchè il ricorrente di etnia Rom, cittadino italiano munito di documento, è stato senza ragione identificato mediante rilievi segnaletici in quanto coinvolto in un’operazione i cui destinatari di fatto erano gli appartenenti alla comunità Rom. Ugualmente il giudice di Roma ritiene che in detta situazione, la discriminazione abbia assunto le caratteristiche di una ‘molestia razziale’ per l’evidente violazione della dignità e della reputazione del ricorrente, la costruzione di  un ‘apparenza di pericolosità e illegalità del medesimo, che costituiscono gli estremi della creazione di un clima ostile nei suoi confronti, e più in generale della sua etnia di appartenenza, nonchè dell’invasività  e dell’arbitrarietà del procedimento cui è stato sottoposto in assenza di presupposti normativi che lo giustificassero.

Di conseguenza, nell’accertare la natura discriminatoria del procedimento di identificazione, di raccolta e conservazione dei dati sensibili, il giudice si è avvalso delle facoltà previste dalla normativa di recepimento della direttiva europea contro le discriminazioni etnico-razziali  volte a garantire rimedi effettivi, proporzionali e dissuasivi alla lesione del diritto all’eguaglianza, e  ha  accolto  la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale arrecato al ricorrente dalla lesione dei diritti alla reputazione e alla riservatezza, liquidandolo, in via equitativa e fondandosi su elementi presuntivi, in euro  8,000, così come ha ordinato la pubblicazione dell’ordinanza, con spese a carico dei convenuti, sul quotidiano “Il Corriere della Sera”. Ha inoltre ordinato che il Ministero dell’Interno disponga la distruzione di tutti i documenti, in qualsiasi formato,  contenenti i dati sensibili estratti a seguito della procedura di identificazione del ricorrente effettuata in occasione dello sgombero del ‘campo nomadi’ Casilino 900.

Questo aspetto dell’ordinanza del giudice può essere sottoposto a rilievi critici. Il giudice, infatti, ha ritenuto di dichiarare  l’improcedibilità delle domande proposte dalle associazioni ricorrenti “21 luglio”, ASGI e Open Society per ottenere l’ordine del giudice ad un rimedio ad una discriminazione, che sebbene evidenziata dal caso del ricorrente individuale, aveva natura collettiva, potendo riguardare dunque  altre persone di etnia Rom  già presenti nei ‘campi nomadi’ della capitale i cui dati potrebbero dunque essere ugualmente stati raccolti e conservati nell’archivio custodito presso l’ufficio immigrazione della Questura di Roma e dunque composto su base etnica. Per tali ragioni, quindi, le associazioni ricorrenti avevano proposto, congiuntamente al ricorso individuale, un’azione collettiva, chiedendo al giudice di ordinare l’eliminazione dell’intero archivio di dati raccolti durante l’evacuazione dei ‘campi nomadi’ della capitale e custodito presso l’ufficio immigrazione della questura di Roma. Il giudice ha dichiarato l’improcedibilità sull’argomento in quanto le associazioni ricorrenti non potevano agire in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, mancando  la delega del ricorrente individuale  rilasciata per atto scritto o scrittura privata autenticata (ovvero ad es.  un atto notarile), come sarebbe previsto dall’art. 5 c. 1 del d.lgs. n. 215/2003, non essendo sufficiente al riguardo  la mera procura al difensore.  Qui il giudice sembra non considerare che la legittimazione ad agire delle associazioni iscritte all’apposito elenco di cui all’art. 5 d.lgs. n. 215/2003, è prevista non solo in sostituzione di un ricorrente individuale ben individuato, previa appunto delega del medesimo, fattispecie prevista dal comma 1 dell’art. 5 del d.lgs. n. 215/03,  ma anche  nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato  le persone lese dalla discriminazione, così come espressamente previsto dal comma 3 del medesimo articolo.