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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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07.01.2013

Rivolte nei CIE: legittima difesa contro la violazione dei diritti fondamentali dei detenuti?

 
I Tribunali di Milano e Crotone esaminano le violenti proteste avvenute nei rispettivi CIE, e in un caso le ritenengono forme di difesa "proporzionate all'offesa" subita.
 
 
Due sentenze, dei Tribunali di Milano e di Crotone, ri-portano al centro dell'attenzione il drammatico problema delle condizioni di vita degli stranieri privati della libertà personale nei CIE, in molti casi ben peggiori di quelle già insostenibili che si riscontrano nelle strutture penitenziarie.

La prima decisione riguarda l'incendio appiccato nei locali del CIE di Milano da parte di alcuni detenuti tunisini come forma di protesta dopo un controllo delle forze dell'ordine. Il Tribunale milanese non ritiene sussistenti gli estremi dei contestati reati di devastazione (art. 419 c.p.) e di danneggiamento seguito da incendio (424 co. 2), e condanna gli imputati per il reato di danneggiamento ex art. 635 c.p., ritenendo che la modesta rilevanza dell'episodio (fiamme appiccate ad alcuni materassi) escluda la sussistenza tanto di quel "pericolo concreto per l'ordine pubblico" che costituisce la cifra del delitto di devastazione quanto di quella capacità diffusiva del fuoco caratteristica della nozione normativa di incendio.

Il Tribunale di Crotone assume una posizione netta, ritenendo che la situazione nel CIE locale abbia raggiunto un livello di lesività dei diritti fondamentali degli stranieri tale da rendere legittima anche una loro reazione violenta di protesta. I fatti oggetto della seconda sentenza sono molto simili. Alcuni stranieri trattenuti nel CIE di Isola Capo Rizzuto reclamano la libertà inscenando una protesta, e lanciando sassi e calcinacci all'indirizzo del personale di vigilanza del Centro: l'imputazione è per i reati di danneggiamento ex art. 635 co. 2 e di resistenza ad un pubblico ufficiale ex artt. 337 e 339. Il Tribunale di Crotone ritiene provati i fatti di cui all'imputazione ed il personale coinvolgimento degli imputati, ma li assolve per legittima difesa.

Il ragionamento del Tribunale prende le mosse da una ricognizione delle fonti sovranazionali che regolano la detenzione amministrativa degli stranieri irregolari in attesa di allontanamento, al fine di valutare se la permanenza degli imputati nel Centro fosse o meno conforme a quanto dispongono tali fonti. Per quanto concerne le fonti comunitarie, la sentenza ricorda come gli artt. 15 e 16 della cd. direttiva rimpatri (dir. 2008/115/CE) prescrivono che il trattenimento dello straniero irregolare possa venire disposto solo quando ogni altra misura meno afflittiva risulti nel caso concreto inadeguata, mentre i provvedimenti sulla cui base i tre imputati si trovavano rinchiusi nel CIE non contenevano alcuna motivazione sul punto, sicché sono da considerarsi illegittimi. Inoltre, le condizioni di vita nel Centro, che la sentenza descrive in modo analitico e definisce riassuntivamente come "lesive della dignità umana", configurano una violazione dell'art. 3 CEDU alla luce della giurisprudenza della Corte EDU relativa proprio ai Centri di detenzione amministrativa per stranieri irregolari.

Sulla base di questa ricostruzione, il Tribunale passa ad analizzare la sussistenza dei singoli requisiti fondanti la legittima difesa, ritenendo che: 1) si configurava il pericolo di un'offesa ingiusta, posto che la privazione di libertà subita dagli imputati era contraria alle suddette fonti sovranazionali; 2) il pericolo era attuale, essendo "fuor di dubbio che i diritti di libertà e di dignità umana fossero in corso di compressione al momento delle reazioni poste in essere dagli imputati"; 3) il pericolo era inevitabile, perché "la particolarità del caso di specie (in cui la parte dell'offensore è incarnata da un apparato dello Stato di diritto) impone la riflessione secondo cui gli imputati non possono essere considerati alla stregua di chi affronta una situazione di pericolo prevista ed accettata, dovendosi sempre attendere da uno Stato di diritto il rispetto delle regole, e tanto più dei diritti fondamentali del cittadino"; 4) sussisteva il requisito della proporzionalità, posto che "il confronto tra i beni giuridici in conflitto si risolve pacificamente a favore dei beni difesi (dignità umana e libertà personale), rispetto a quelli offesi del prestigio ed efficienza della pubblica amministrazione, nonché del patrimonio pubblico materiale"; 5) la reazione era necessaria al fine di far cessare lo stato di ingiusta detenzione, in quanto, valutando le possibili alternative, "il controllo giurisdizionale sui provvedimenti amministrativi di trattenimento non può ritenersi essere stato effettivo" (dal momento che gli imputati non erano stati assistiti da un interprete nel giudizio di convalida ed i difensori d'ufficio non erano stati messi in condizioni di conoscere adeguatamente il caso) , "né può ritenersi che gli imputati avrebbero potuto porre in essere forme di protesta passiva, come ad esempio lo sciopero della fame, dato che uno Stato laico di diritto non può sostituirsi ad una scelta di valori che compete esclusivamente all'agente".

Fonte: Diritto Penale Contemporaneo


 
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