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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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07.09.2012

Corte di Giustizia europea : riconosciuto lo status di rifugiato per motivi religiosi se la persecuzione risulta sufficientemente grave

 
Talune forme di grave violazione del diritto a manifestare la propria religione in pubblico possono costituire una persecuzione a causa della religione
 
 
A seguito di una richiesta di status di rifugiato in Germania da parte di due cittadini pakistani appartenenti alla comunità musulmana Ahmadiyya, che hanno affermato di essere fuggiti per motivi religiosi dal loro Paese, è stato richiesto alla Corte di giustizia di precisare quali restrizioni alla pratica di una religione costituiscano una persecuzione che può comportare il riconoscimento dello status di rifugiato.

Nella sentenza del 5 settembre 2012 la Corte ha affermato che, innanzitutto, solo talune forme di grave violazione del diritto alla libertà di religione, e non qualsiasi violazione di tale diritto, possono costituire un atto di persecuzione che obblighi le autorità competenti a concedere lo status di rifugiato. Infatti, da un lato, le restrizioni all’esercizio di tale diritto previste dalla legge non possono essere considerate persecuzioni fintantoché rispettano il suo nucleo essenziale. Dall’altro, la stessa violazione di tale diritto può essere considerata una persecuzione soltanto qualora essa sia sufficientemente grave e colpisca l’interessato in modo significativo.

La Corte ha rilevato, poi, che gli atti idonei a costituire una violazione grave comprendono atti gravi che colpiscono la libertà dell’interessato non solo di praticare il proprio credo privatamente, ma anche di viverlo pubblicamente. Pertanto, non è il carattere, pubblico o privato, oppure collettivo o individuale, della manifestazione e della pratica religiosa, bensì la gravità delle misure e delle sanzioni adottate o che potrebbero essere adottate nei confronti dell’interessato che determinerà se una violazione del diritto alla libertà di religione debba essere considerata una persecuzione. 
La Corte ha dichiarato, quindi, che una violazione del diritto alla libertà di religione può costituire una persecuzione qualora il richiedente asilo, a causa dell’esercizio di tale libertà nel suo paese d’origine, corra un rischio effettivo, in particolare, di essere perseguitato o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti ad opera di un soggetto autore della persecuzione. La Corte ha sottolineato che, qualora la partecipazione a cerimonie pubbliche di culto, singolarmente o in comunità, possa comportare la concretizzazione di siffatte lesioni, la violazione del diritto alla libertà di religione può configurarsi come sufficientemente grave. 
La Corte ha dichiarato, altresì, che la valutazione del rischio effettivo che siffatte lesioni si realizzino implica che l’autorità competente tenga conto di una serie di elementi sia oggettivi sia soggettivi.
La circostanza soggettiva che l’osservanza di una determinata pratica religiosa in pubblico, colpita dalle restrizioni contestate, sia particolarmente importante per l’interessato al fine di conservare la sua identità religiosa costituisce un elemento pertinente nella valutazione del livello di rischio che il richiedente corre nel suo paese d’origine a causa della sua religione. Ciò vale anche quando l’osservanza di siffatta pratica religiosa non costituisce un elemento centrale per la comunità religiosa interessata. 
La tutela dalla persecuzione a causa della religione, infatti, comprende tanto le forme di comportamento personale o in comunità che la persona ritiene necessarie per se stessa, ossia quelle «fondate su un credo religioso», quanto quelle imposte dalla dottrina religiosa, ossia quelle «prescritte dal credo religioso». 
Infine, la Corte ha rilevato che, quando è assodato che, una volta rientrato nel proprio paese d’origine, l’interessato si dedicherà a una pratica religiosa che lo esporrà ad un rischio effettivo di persecuzione, gli dovrebbe essere riconosciuto lo status di rifugiato. 
Nell’esaminare su base individuale una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, le autorità nazionali non possono ragionevolmente aspettarsi che il richiedente, per evitare un rischio di persecuzione, rinunci alla manifestazione o alla pratica di taluni atti religiosi.

Sentenza nelle cause riunite C-71/11 e C-99/11 del 5 settembre 2012 

Fonte : Comunicato Stampa Corte di Giustizia europea
 
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