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Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione
 
 
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28.06.2010

Non è discriminatorio il comportamento di un direttore responsabile di un periodico nel quale vengono pubblicati annunci economici che contengono forme di discriminazione su base etnico-razziale o religiosa.

 
Discutibile ordinanza del giudice civile di Roma che respinge il ricorso presentato dall’Unione Forense per la tutela dei Diritti dell’Uomo (Trib. Roma, 1^ sez. civile, ordinanza dd. 27.05.2010).
 
Tribunale di Roma, I sez. civile, ordinanza dd. 27 maggio 2010 (192.4 KB)
 

Con ordinanza depositata il 27 maggio 2010, il giudice civile di Roma ha respinto l'azione giudiziaria anti-discriminazione presentata dall'Unione Forense per la tutela dei Diritti dell'Uomo nei confronti del direttore responsabile del periodico di annunci economici di Roma "Porta Portese". L'organizzazione non governativa aveva richiesto al giudice  che sia dichiarato il carattere discriminatorio del comportamento del convenuto consistente nel mancato esercizio del dovere di vigilanza sul contenuto del periodico, nel quale trovano abitualmente pubblicazione annunci relativi ad offerta di alloggi in locazione o di posti di lavoro caratterizzati da clausole discriminatorie di esclusione nei confronti di immigrati o persone appartenenti a determinate nazionalità, gruppi etnici, o credi religiosi.

Le motivazioni con le quali il giudice ha respinto il ricorso  appaiono estremamente discutibili e denotano come il giudice non abbia compiuto una corretta interpretazione della nozione civile di discriminazione di cui all'art. 43 del d.lgs. n. 286/98 e al d.lgs. n. 215/2003, di recepimento della direttiva europea "razza" n. 2000/43/CE.

Il giudice di Roma rileva infatti, che il dovere di vigilanza del direttore responsabile di una testata sul contenuto del periodico da lui diretto, discendendo dall'art. 57 del c.p.,  e dunque da una norma penale,  potrebbe essere invocato solo se dal suo mancato esercizio ne derivasse un illecito penale. Avendo i ricorrenti promosso una causa civile in relazione all'asserito illecito civile di un comportamento discriminatorio ai sensi dell' art. 43 T.U. immigrazione, non sussisterebbe per il giudice di Roma il nesso per invocare il principio della culpa in vigilando.

Sempre partendo dal presupposto dell'asserita necessità della presenza di un illecito penale di comportamento discriminatorio per poter invocare  il principio della omissione  di culpa in vigilando del direttore di un periodico, il giudice di Roma sostiene l'inesistenza del requisito del dolo, cioè dell'elemento soggettivo del reato di concorso in discriminazione, in quanto il la pubblicazione delle inserzioni ritenute discriminatorie non sarebbero state volute, né presumibilmente conosciute nel loro contenuto lesivo dal direttore del periodico "Porta Portese", anche in relazione alle modalità tecniche di loro raccolta (via e-mail, via telefono tramite segreteria telefonica,...) e alla natura e caratteristiche del giornale (periodico  a diffusione gratuita che ha lo scopo di raccogliere annunci di mercato).

Inoltre, il giudice di Roma sembra addirittura dubitare della stessa natura discriminatoria di annunci che contengano clausole di esclusione fondate sulla razza, l'appartenenza etnica o il credo religioso,  in quanto tali annunci risulterebbero "mere proposte di contratto ovverosia la manifestazione della libertà negoziale in capo al soggetto dal quale provengono" .

Al riguardo il giudice di Roma ignora come tanto l'art. 43 del T.U. immigrazione che l'art. 3 del d.lgs. n. 215/2003, di recepimento della direttiva europea "razza" n. 2000/43, abbiano ridefinito i rapporti tra principi di uguaglianza e non-discriminazione e principio dell'autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.) inteso come libertà di scegliere se, con chi, quando e a quali condizioni contrattare. E' chiaro che la normativa antidiscriminatoria (d.lgs. n. 286/98 e d.lgs. n. 215/2003) ha introdotto un limite testuale  alla libertà contrattuale che non può quindi realizzarsi in contrasto con il divieto di discriminazione per motivi di razza, religione, origine etnica o nazionale, con l'unica eccezione del contratto individualizzato, cioè concluso a fronte di una proposta, di un invito ad offrire o a manifestare interesse individualizzati, cioè rivolti ad una singola e specifica persona e non mediante dichiarazioni o offerte  al pubblico. Nella stessa direzione, si segnala  la puntualizzazione  della Commissione Europea in relazione all'ambito interpretativo  dell'art. 3 della direttiva europea n. 2000/43: «Oltre a coprire tutti i cittadini, la direttiva ha esteso la protezione contro la discriminazione ben oltre il tradizionale settore dell'occupazione, coprendo ambiti come le prestazioni sociali, la sanità, l'istruzione e, soprattutto, l'accesso ai beni e servizi a disposizione del pubblico, tra cui gli alloggi. In alcuni Stati membri esistono problemi legati alla separazione tra la sfera pubblica e quella privata, nonché percezioni di interferenza nella libertà di decisione o di conclusione dei contratti. Quando beni, servizi, o impieghi sono oggetto di pubblicità, anche solo, ad esempio, mediante un avviso affisso su una finestra, essi sono a disposizione del pubblico e perciò rientrano nel campo di applicazione della direttiva» [sottolineatura nostra], cfr. Commissione delle Comunità Europee, Relazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sull'applicazione della direttiva 2000/43 del 29 giugno  2000 che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica, Bruxelles, 30 ottobre 2006 COM (2006) 643 definitivo, pag. 3. [Per quanto concerne la dottrina si rimanda a  D. Maffeis, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, Giuffrè editore, Milano, 2007].

Ugualmente, il giudice civile di Roma sembra ignorare che la tutela civile dalla discriminazione, richiamata dall'art. 43 T.U. imm. e dal d.lgs. n. 215/2003 si colloca su un piano diverso da quella penale, di cui alla legge n. 205/1993 (reato di discriminazione razziale), in quanto la nozione di diritto civile di comportamento discriminatorio è più ampia di quella penale,  ricomprendendo non solo quei comportamenti o atti che abbiamo lo "scopo"  o l'"intenzione" di discriminare, cioè ricomporendano l'elemento soggettivo del reato del "dolo" o "volontarietà" o "consapevolezza" , ma anche quei comportamenti o atti che  risultino in un "effetto" o "risultato" discriminatorio.  In altri termini, la menzione dello "scopo o (dell') effetto" nell'art. 43 T.U., contribuisce a ricomprendere nella definizione in esame non solo le condotte poste in essere con la specifica intenzione di nuocere, ma anche quelle che, prive di intento lesivo, comportino comunque un effetto pregiudizievole, e lesivo della dignità delle persone.

E' proprio per questa ragione  appare legittimo sostenere che il direttore responsabile di una testata ha il dovere di vigilare sui contenuti del proprio periodico non solo al fine di impedire che vi compaiano scritti che possano determinare un reato di "hate speech", tra cui la discriminazione o l'incitamento a discriminare, ma anche affinchè per il tramite del periodico medesimo non vengano messe in atto discriminazioni nell'accesso a servizi o beni offerti al pubblico, in un ambito, dunque, attinente anche alla sola sfera del diritto civile.

L'unico precedente giurisprudenziale  finora si era mosso in questa direzione:  il giudice civile di Bologna nell'ordinanza dd. 6-17.10.2000,  con riferimento  alla omessa schermatura sul viso della persona di pelle nera in una fotografia non autorizzata pubblicata su un periodico, al contrario di quanto effettuato sul viso della persona di pelle bianca,  ha ritenuto irrilevante la circostanza, addotta dalla parte che aveva posto in essere il comportamento, che ciò fosse da attribuirsi ad un errore di valutazione del grafico che aveva il compito di impostare la pagina, concludendo per l'avvenuta discriminazione ai sensi dell'art. 43 1° comma del T.U. in relazione all'avvenuta lesione del diritto all'immagine e all'identità personale, in relazione al fatto che l'immagine veniva arbitrariamente associata ad un articolo avente per oggetto episodi di cronaca attinenti matrimoni di comodo tra cittadini italiani e stranieri finalizzati al percepimento delle pensione di reversibilità al momento del decesso del coniuge italiano; episodi che nulla avevano a che fare con la persona e la condotta del diretto interessato.  Il giudice di Bologna aveva respinto la tesi della difesa del direttore responsabile del periodico sull'asserito difetto di legittimazione passiva del medesimo, riconoscendo invece che lo stesso doveva rispondere dell'articolo, del suo contenuto e dell'associazione all'immagine a titolo di culpa in vigilando, pur nell'ambito di una causa anti-discriminazione razziale di natura meramente civile.


Desta, infine, perplessità che il giudice di Roma si sia espresso sul ricorso proposto dall'Unione forense per i diritti dell'Uomo a tre anni di distanza dall'avvio del procedimento, avvenuto nel 2007. Questo nonostante il fatto che la Cassazione abbia ricondotto il procedimento dell'azione giudiziaria anti-discriminazione ex art. 44 T.U. al rito cautelare (Cass. S.U. 7 marzo 2008, n. 6172) e, comunque, anche secondo  gli orientamenti espressi dalla dottrina,  risultino perlomeno evidenti le caratteristiche di sommarietà del procedimento che richiederebbero dunque al giudice tempi di decisione rapidi e tempestivi.


L'Unione Forense per la Tutela dei diritti dell'Uomo, che è stata pure condannata al pagamento delle spese legali,  ha annunciato reclamo avverso l'ordinanza del giudice civile di Roma. Si confida, pertanto, che in sede di reclamo, l'assai discutibile ordinanza del giudice civile di Roma possa essere ribaltata dal collegio giudicante, ristabilendo una corretta modalità di interpretazione del diritto civile anti-discriminatorio.  


Commento a cura di Walter Citti, Servizio di supporto giuridico contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose,  Progetto ASGI con il supporto finanziario della Fondazione Charlemagne a finalità umanitarie.

 
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